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La Genova di quattro scrittori liguri

di Marino Magliani, Laura Guglielmi, Guido Festinese e Emilia Marasco

 

Marino Magliani

La mia idea di Liguria è sempre stata quella di un penisolario, una lunga lingua di rocce e terra e anfiteatri di fasce, rovine, cortecce e foglie azzurre,  torrenti, un elenco di vallate-penisola, a ponente o levante di qualcosa, ma sempre circondate da un resto ligure, e con al fondo una foce, e il mare che la penetra. Come una linea la vedeva Nico Orengo, che però si sforma e si piega, parte da una frontiera e ne raggiunge un’altra, e al suo centro, – come a dividere davvero le riviere degli orti e dei giardini, – offre l’impugnatura dell’arco. Uno come me di una Liguria estrema non può non pensare  che da quel punto, da quel mondo in discesa, che è Genova, come lo era la Sanremo di Calvino, anche la scrittura possa in qualche modo diventare isola, verbosità inesauribile di un bosco di mattoni e tetti. Ho chiesto ad alcune scrittrici e scrittori (e spero di poterlo in seguito chiedere ad altri) cosa significhi scrivere da Genova, e ad alcuni di essi anche scrivere di Genova. Ringrazio Nazione Indiana che ospita me e queste scritture.

 

Guido Festinese

Se, come ha detto un poeta, Genova è città verticale dove il piano è sempre falso piano, tant’è che si sono dovute inventare mille possibilità di terrazze artigliate al nulla, allora Genova è città che predispone a scendere a precipizio, con la rincorsa forzata che scaglia lontani, come un tiro di fionda. Così è andata nei secoli, e così è andata, in complementare e antitetico percorso a ritroso, per chi s’è trovato a cadenzare passi pesanti in salita sui mattoni delle crêuze, sui segni incistati di asini e muli, andando a intercettare altre e faticose vie di fuga. Perché in fondo Genova è un isola, sotto il doppio assedio del sale e della pietra, assedio perso in entrambi casi, e chi scrive da Genova è un isolano. Che sente di avere poca terra e poco piano, e per cercare il piano deve radere con lo sguardo il mare (i monti inchiavardano e bloccano lo sguardo), fino a intercettare un’altra isola, e riprovarci. Quale sia, lo decide la scrittura e il suo verso: contropelo, qui, anche quando sembra accontentare il senso della carezza.

 

Laura Guglielmi

Ho scelto Genova a venticinque anni, ammaliata dai vicoli e dalla loro vita pullulante, anche se mi sento a casa mia ovunque, basta che intorno ci siano persone che guardano oltre il loro ombelico. Però una cosa la voglio dire: Lei è una città che ti strega, se ti prende non ti molla più, ti tiene stretta al guinzaglio.
I Genovesi si sono sempre fatti guerra tra di loro, una Repubblica ricca e potente sui mari, con un territorio striminzito. Camillo Sbarbaro lo ha rivelato con il suo tocco lieve: Scarsa lingua di terra che orla il mare, / chiude la schiena arida dei monti; / scavata da improvvisi fiumi; morsa/ dal sale come anello d’ancoraggio.
E in questa scarsa lingua di terra gli abitanti hanno trovato sul mare uno sfogo e nelle colonie del Mediterraneo grandi ricchezze. Avevano bisogno di respirare i genovesi, salivano a bordo delle loro galee e navigavano per anni. Ma a casa stavano stretti, gomito a gomito, le famiglie litigavano tra loro, tresche cospirazioni e trame costellano la sua storia di Superba. Trame appunto, Lei è una città fatta per essere descritta, è una città aggrovigliata e intricata, gli intrighi fanno parte del suo Dna, la sua Storia ne è piena. E tante piccole storie da narrare sembrano essere pronte per venire alla luce, basta andare a scovarle. E scovarle non è facile, ma quando capita ti si ficcano in testa fino a quando le scrivi e poi le vedi finalmente allontanarsi verso la linea dell’orizzonte.

 

Emilia Marasco

Genova per me

Genova per me è camminare in salita voltandosi per guardare il mare.  Quando si scende lo si fa a passo lesto, da giovani anche di corsa come quei montanari che si buttano giù a balzi dalle pietraie. Il premio è arrivare al labirinto del centro storico, lasciarsi avvolgere dal grigio della pietra, camminare col naso in su a ritagliare con lo sguardo pezzi irregolari di cielo e alla fine ricomporre tutti i pezzi nei due azzurri contigui, cielo e mare. Genova è sapere che c’è, il mare, anche quando non lo vedi, quando qualcosa ne impedisce la vista, anche se si abita a piano terra. Sappiamo che c’è, è mobile e inquieto da vicino, è un solido tra i solidi da lontano, dall’alto, da Spianata Castelletto, come in quelle vedute di Cezanne in cui il mare, il cielo, perfino l’aria sono fatti di materia concreta.
Genova per me è vento e calma piatta, è uno stato d’animo in continua mutazione, è una malattia mi disse un giorno un famoso critico d’arte, per questo quasi tutti dite di volervene andare ma non lo fate a meno che non siate costretti.
Genova è la Cuoca dello Strozzi, anzi è una perla della sua collana di corallo che racchiude tutta la qualità della pittura dell’artista, l’intera onda della sua pennellata.
Ecco, quella perla, semplice ma ricca di colore e di significato per me è Genova.

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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