Jorge Ibargüengoitia – La presa del Pedernal

di Jorge Ibargüengoitia

«Questo paese ha bisogno di progresso. Per progredire c’è bisogno di stabilità. La stabilità la possiamo raggiungere se voi vi tenete le vostre proprietà e io la presidenza. Tutti insieme, tutti contenti, e avanti così».

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto da Jorge Ibargüengoitia, Ammazzate il leone, La Nuova Frontiera 2022, traduzione di Angelo Morino.

*

Alla fine del XVI secolo, gli spagnoli decisero di costruire un forte per difendere Puerto Alegre dai corsari. Per erigerlo, scelsero l’isolotto del Pedernal (così chiamato, perché qualcuno vi aveva trovato del pedernal, della pietra focaia), che è situato all’imboccatura della baia.


Il forte del Pedernal, che avrebbe dovuto impedire l’entrata (o l’uscita) di navi nemiche nel porto, non servì mai a nulla, perché i corsari non arrivarono mai a Santa Cruz de Arepa. Coloro che lo costruirono non avrebbero mai immaginato che i barbacani che stavano costruendo si sarebbero trasformati, col passare del tempo, nella trappola in cui sarebbe caduto un esercito spagnolo, perché al Pedernal andò a rifugiarsi, con i resti delle sue decimate forze, dopo la battaglia di Rebenco, il generale Santander.

Per undici mesi resistettero gli spagnoli, in quell’ultimo baluardo. In realtà, non fu un’ardua impresa, perché nessuno li attaccò durante quel periodo, né resistettero perché ne avessero voglia, ma perché nessuno passò a imbarcarli. La guarnigione era stata dimenticata dal mondo civile, come disse un deputato spagnolo quando si seppe la notizia del massacro.

Dopo undici mesi di assedio (per modo di dire, visto che gli spagnoli andavano sulla terraferma ogni pomeriggio a rifornirsi di viveri), Belaunzarán, il più giovane dei capi ribelli, decise di sferrare un colpo che avrebbe messo fine, per sempre, alla dominazione spagnola di Arepa. Radunò sulla spiaggia i neri della Humareda e gli indios guarupa del Paso de Cabras, e quando fece buio e la marea fu più bassa, si spogliò della sua vistosa uniforme da generale di brigata, e nudo, con solo un machete in mano, si cacciò nell’acqua fino alla vita, si volse verso i neri e i guarupa, che lo guardavano senza capire cosa tramasse, e sollevando il machete, gridò:

«Chi vuole la gloria mi segua!»

Ciò detto, stringendo il machete fra i denti, cominciò a nuotare in direzione dell’isolotto. Mille uomini lo seguirono, nuotando nudi, col machete fra i denti. Molti annegarono, ma molti riuscirono a superare i cento metri di larghezza del canale che separa l’isolotto dalla terraferma, e si scagliarono come un fulmine sui centoquarantatré spagnoli, che, ignari, erano intenti a celebrare una festa, in onore di Maria Ausiliatrice, e in memoria del prodigioso trionfo delle navi spagnole a Lepanto. Era il 24 maggio. Non ne sopravvisse neppure uno.

Don Casimiro Paletón, che all’epoca era un giovane poetastro, cantò quest’impresa in un poemetto di mille versi sonori (uno per ogni partecipante), in cui definì Belaunzarán, che aveva ventiquattro anni, l’“Eroe Giovinetto”, cosa di cui non si sarebbe mai pentito abbastanza.

Ogni anno, il 24 maggio, i neri della Humareda e gli indios del Paso de Cabras si radunano sulla spiaggia, ballano per sei ore al suono dei bongos, dinanzi al corpo diplomatico, ai funzionari e alla ciurmaglia del porto; alle sei arriva Belaunzarán a cavallo, vestito da generale di brigata. Si toglie gli abiti, rimane in mutande, si caccia un machete fra i denti, e ripete l’impresa di nuotare fino al Pedernal, dove lo aspettano, suonando, la banda dell’artiglieria, e una signorina travestita da Patria, che lo incorona di alloro.

Sono in molti a seguirlo nella traversata, e, ogni anno, qualcuno annega. La speranza proverbiale dei ricchi di Arepa è “che il Grassone anneghi mentre nuota verso il Pedernal”. Desiderio che non è mai stato esaudito nei venticinque anni successivi all’indipendenza.

Pepe Cussirat e Paco Ridruejo pranzarono all’Hotel de Inglaterra e arrivarono sulla spiaggia vestiti di bianco, con panama in testa, alle quattro e mezzo, quando le danze erano all’apice.

Sotto un pergolato di frasche, seduto su un seggiolone di vimini, Sir John Phipps dorme tranquillamente, grazie alla sua sordità. Accanto a lui, il primo segretario dell’ambasciata britannica si allontana le mosche.

Facendosi strada fra gli avanzi di pesce fritto, i gusci di cocco verde che coprono la sabbia, i due giovani dandy raggiungono il “pergolato a pagamento” salutando, mentre passano, Bonilla, Paletón e il signor de la Cadena, che sbadigliano sotto il pergolato dei deputati. Mentre Paco Ridruejo paga per le seggiole, qualcuno, dagli ultimi posti, saluta cordialmente Cussirat. Questi risponde al saluto e, quando il suo compagno gli si siede accanto, domanda:

«Chi è quel tizio?»

Ridruejo guarda verso l’individuo che, seduto su una panca affollata, si toglie il cilindro per la seconda volta, china il capo e sorride.

«È un musicista, un protetto di Ángela Berriozábal.»

I guarupa ballano al suono di tamburi, sonagli, flauti di giunco e chitarroni; i neri, al suono di bongos e tamtam. Tutti insieme e senza concerto. Tutti si ubriacano, alcuni litigano, altri cadono sulla sabbia, sfiniti, e si addormentano per smaltire la sbornia.

La banda dell’artiglieria e i bambini delle scuole raggiungono il Pedernal, a gruppi, sulla lancia della capitaneria. Don Carlitos e don Ignacio Redondo, che temono che la loro assenza sia notata, e che ne derivino irreparabili mali senza fine, si presentano di malumore e all’ultimo momento. Coco Regalado e il Cavallo González, che prendono parte alla baldoria, compaiono ubriachi, inciampando di continuo, “per vedere se il Grassone annegherà”.

Infine arriva, Belaunzarán, fra il bailamme della plebe, e lo strepito delle musiche di guerra. Si spoglia, si caccia in mare, pronuncia la sua frase celebre, e attraversa, senza contrattempi, il canale, alla testa di centinaia di ubriachi.

Quando approda sull’altra riva, e viene coronato d’alloro dalla “Patria”, al suono dell’inno di Arepa e alla luce dei fuochi di artificio, Cussirat, fra gli applausi, i bongos e gli schiamazzi, in piedi sopra la seggiola, per vedere meglio, si volta verso Paco Ridruejo e gli dice:

«Contro quell’uomo non si può lottare in una competizione elettorale. Bisogna ammazzarlo.»

Passa un momento prima che l’altro si convinca che il suo amico sta parlando sul serio. Poi, dice:

«Sì, certo! Però, come?»

Quella sera, al circolo, i moderati rimasero a bocca aperta, e alcuni fremettero di rabbia. Pepe Cussirat, la loro ultima speranza, rifiutò la candidatura alla presidenza.

«Ma lei ci aveva spedito un cablogramma dicendo che accettava la nostra richiesta» gli rinfaccia Bonilla, con severità.

«Che l’accettavo in linea di massima» corregge Cussirat. «Adesso la rifiuto. Ho riflettuto, e ho visto la realtà. In primo luogo, credo di non avere speranze di venire eletto; e in secondo, credo che, anche se per un miracolo vincessimo le elezioni, Belaunzarán, che evidentemente non vuole mollare il potere, come dimostrano la morte del dottor Saldaña e le modifiche che sono state apportate alla costituzione, ha abbastanza forza e popolarità per scatenare una rivolta e toglierci la presidenza nel giro di due giorni. Allora sì che saremmo nei guai. Io e voi.»

Il suo argomento, che sembrerebbe irrefutabile, e che si può formulare con una domanda: “Perché lottare se non ci sono speranze?” non convince i moderati più cocciuti, né i meno battaglieri come Bonilla, Paletón e il signor de la Cadena, che da quindici anni continuano a parlare di battaglie civiche che bisogna ingaggiare; e neppure i più timorosi, come don Ignacio Redondo, a cui il fantasma della legge sull’esproprio toglie il sonno. Gli altri, che pensano che se non si può vincere occorre, almeno, sapersela intendere con chi vince, come don Carlitos, don Bartolomé González e Barrientos, capiscono Cussirat, lo scusano, e persino lo difendono quando si alza, esce dalla sala delle cerimonie, e va a bersi un Tom Collins al bar del circolo; ma perdono la battaglia quando don Carlitos propone Belaunzarán come candidato del partito moderato alla presidenza, perché le forze reazionarie, intransigenti e oscurantiste, come le definirebbe Belaunzarán, sono più numerose.

«Non possiamo metterci nelle sue mani e lasciare che ci tagli la gola» dice Redondo, non pensando alla gola, ma agli incassi che gli vengono dalle botteghe che recano il suo nome.

Dopo molte discussioni e tra mille risentimenti, si concorda di parlare con Belaunzarán e di chiedere che vengano rinviate le elezioni, per avere più tempo per decidere quale candidato nominare.

***

Il libro
Arepa, un’isola immaginaria dei Caraibi, 1926. Il presidente della Repubblica, il maresciallo Belaunzarán, sta per concludere il suo quarto e ultimo mandato, così come impone la Costituzione da lui stesso promulgata. Ma il vecchio leone non vuole farsi da parte. Così fa assassinare il candidato dell’opposizione e propone una modifica alla Carta mobilitando i suoi sostenitori del partito progressista per essere rieletto. I ricchi borghesi del partito moderato non ci stanno e richiamano sull’isola Pepe Cussirat, giovane e ricco don Giovanni, che arriva – e ad Arepa nessuno ne ha mai visto uno – in aereo. Ma per sconfiggere “il grassone” c’è solo un modo: ammazzarlo. Una trama strampalata costruita di capitolo in capitolo con una modernità degna delle migliori serie TV, una satira spietata dell’inettitudine civile e morale della peggior politica e scene epiche: sono questi gli ingredienti di Ammazzate il leone, un testo che è diventato la parodia per eccellenza de la novela del dictador ma che, riletto oggi, ci dimostra come humor e disincanto sono, se maneggiati come fa Ibargüengoitia, strumenti efficacissimi per descrivere una società.

***

L’autore
Jorge Ibargüengoitia (1928–1983) è stato uno dei più importanti romanzieri messicani della sua generazione. Tragicamente scomparso il 27 novembre 1983 in un incidente aereo mentre si recava in Colombia per il Primo Convegno della Cultura Ispanoamericana, ha praticato diversi generi facendo dell’ironia, dell’umorismo e della critica sociale le sue armi. Per La Nuova Frontiera sono già apparsi i romanzi Due delitti e Le morte.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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