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Praline

di Sharon Vanoli

Il grande regno la chiamava… e lei doveva andare. Era sempre andata. Se la ricordava? L’immacolata esaltazione che la prendeva, ogni volta, alla vista di tutto quel liquido salato e spumeggiante. Il sollievo di buttarsi in mare come si butta uno straccio in un secchio d’acqua sporca. Cora era sempre stata partecipe alla gran voglia dello straccio di essere malamente gettato, e dimenticato. La intuiva come sua. Da ragazza, guardandone uno, l’aveva persino sentito bisbigliare. Lasciatemi in pace a marcire. Marcire è fermentare. Forza, dimenticatemi, tornerò; sottoforma di esalazione, fluttuerò sopra ai vostri nasi. Intoccabile e libero. Sincero.

Finalmente sincera. Cora lo sapeva bene: mai un suo gesto dato al mondo era stato sincero, al di fuori di quel buttarsi. Che anche quel pomeriggio la chiamava, forse per l’ultima volta. Guardò il mare, che la guardava. Non aveva ancora decifrato il nuovo messaggio.

Era sempre stato semplice – semplice come lei si illudeva che fossero le cose giuste. Una semplicità che non aveva niente a che vedere con la naturalezza frivola di cui sentiva continuamente parlare. Superare l’esame è stato semplice, partorire è stato semplice – esclamazioni che Cora giudicava incomprensibili; per lei, la semplicità era una risonanza interna – l’istantaneo rifluire di tutte le cose in tutte le cose – di tutte le cose in lei, che era una cosa come tutte le altre. Era sempre stato semplice, estate dopo estate, affondare i piedi nella sabbia, piegare le gambe, e cadere in avanti. Provare a galleggiare, nell’acqua profonda, tenendo le ginocchia strette al petto, restare immobile, e senza perdere l’equilibrio oscillante cercare il profilo di Lindo, tra le ridicole figure in costume a un passo dalla riva. Che goduria, sapersi avviluppata e rigida come una conchiglia, dai colori stinti, destinati a scomparire tra le materie di scarto del mare: del tutto insignificante, ma all’interno – quanti segreti. Caldi e umidi. La scopriva solo così, in quella posizione – penosamente ripiegata, molle – la sua natura di invertebrato. Che goduria. Dare a se stessa tutto ciò che nella quotidianità non era consentito e andava con prudenza evitato. Cora era sempre stata prudente. Da oltre sessant’anni, si impegnava a fingere. Non che in questo sforzo ci fosse motivo di lode: ogni adulto mediamente sano, che se ne rendesse conto o meno, faceva la stessa identica cosa. E del resto non era nemmeno più appropriato considerarlo uno sforzo. Anche la finzione aveva la sua verità, e soprattutto rincuorava – rincuorava dalla violenza di ciò che era vero.

Anche la presenza di Lindo era sempre stata semplice. Essenziale nella sua evitabilità. Perlomeno lui qualcosa capiva. Quando raggiungevano la spiaggia, e Cora, già pronta, impaziente aspettava che lui terminasse di stendere i teli e di spalmarsi la crema solare, Lindo le faceva un gesto con la mano, sbrigativo ma bonario, il genere di gesto con cui si asseconda il capriccio di un bambino, in un calo intenzionale di severità. Vai, vai, sembrava dirle, vai dal tuo padrone. E indicava la superficie verde- azzurra. Tuttavia, più tardi, aveva premura di riaverla, non appena Cora faceva ritorno dalla sua lunga sessione di nuoto. La spiaggia era spesso deserta, all’epoca dei loro primi viaggi. Si divertivano a fingere che fosse di loro proprietà. Aveva fretta di riprenderla perché oltre il limite della riva Cora diveniva un’altra. Si immergeva, insaziabile, in cerca di conchiglie, con un piacere che a lui sfuggiva, ma di cui intuiva la forza. Una forza che lei gli aveva fatto persino vedere, in quel suo vecchio dipinto che la raffigurava parzialmente immersa nel mare, con le gambe divaricate, e i pesci che abboccavano il suo odore tra le cosce come fosse un gustoso dolcetto offerto dalle acque. Non c’era alcuna malizia perversa. Soltanto candore. Candido infantilismo. Com’era sempre stato l’erotismo di Cora. Lindo la prendeva e lei si lasciava prendere volentieri. Era la ricompensa per ciò che non aveva saputo attingere dal mare. La grande domanda che da tutta la vita gli porgeva. E la risposta arrivava… ma aveva il lessico indecifrabile delle onde. Che a volte, nei giorni più malinconici, sembravano dire: siamo il tempo, il tempo, siamo il tempo… ed era un orrore. Altre volte, elusive, dicevano: vieni, vieni… e Cora andava.

Che cosa aveva mai trovato? Nient’altro che goduria. Lo stordimento delle immersioni reiterate che intontivano prima i timpani e poi il pensiero. Più si affaticava, più si sentiva lucida. Aveva la febbre e insieme intensa presenza. Lucidità dell’altrove. Voleva vedere fino a dove poteva spingersi. Questo era sempre stato il suo gioco. Entrare nella sensazione fino a possederla dall’interno. Fino a diventare occhio – l’occhio pensante della sensazione. E allora non si provava più niente. Era un gioco sadico.

 

Povera Cora, sola nel pomeriggio, raggrinzita, senza più Lindo, e il mare che si concedeva quella nuova, inattesa insolenza. Sei vecchia, sei vecchia, le diceva. Ma non era la voce del mare: era la voce di Cora. Aveva perso il contatto. Una volta era tanto vicina alla vita delle cose da essere certa di parlare a nome loro. Era certa di sentirle come si è certi del proprio esistere. Ma ormai Cora era vecchia, e indugiava, di fronte alla riva, seduta su un logoro telo. Il ricordo del giorno precedente la tormentava. Nonostante la confessione non giovasse, doveva riconoscerlo: aveva provato terrore. E proprio quel terrore l’aveva definitivamente privata dei suoi privilegi. Vagamente nauseata, frugò nella borsa da mare. Era sbagliato, ma quale altro conforto le restava? Non aveva certamente intenzione di finire in ospedale per qualche pastiglia di troppo. Voleva indulgere alle stravaganze dell’oblio. L’aveva sperimentato già la notte precedente, per togliersi il fastidio del ricordo. E poi le pastiglie avevano un aspetto innocuo, e il rivestimento marrone lasciava sulla lingua un sapore zuccherino che lei amava e tratteneva in bocca, fino a quando dai bordi qualche granello si staccava, e cominciava a sciogliersi; a quel punto Cora deglutiva la pillola e masticava gli avanzi, che scricchiolavano sotto i denti dolcemente.

Si stese sulla schiena, in attesa che il farmaco facesse effetto. Già dopo qualche minuto, riuscì a rievocare ciò che era accaduto senza eccessivo astio. Lei che passeggiava, piano, le gambe immerse fino alle ginocchia per adattarsi gradatamente alla temperatura dell’acqua. E d’improvviso il ginocchio malato aveva ceduto, e lei si era ritrovata a brancolare, annaspando, nell’acqua bassa della riva, senza onde, come un bambino incapace, che vergogna. Che vergogna la paura, proprio in quegli istanti… finalmente era vicina a tutte le risposte. Nessuna prudenza più da simulare, finite le finzioni, ah mai nessun messaggio era stato tanto chiaro. Tutto quel suo amore, per il mare, quel finto godere che nascondeva le ombre. Non significava altro che noia, disperante e mortifera. Era ora di andare… allora, perché si era fermata? Forse il corpo, l’aveva trattenuta. Il corpo, sì. Era ora di andare, ma dove trovare il coraggio di abbandonare lui? Il corpo a cui era tanto grata, il corpo, che era sempre stato tanto buono con lei. Che era il guscio – difendeva l’ardore interno, l’umidità dei piccoli piaceri, e della fede. Era tutto il resto che andava lasciato, la stupida vita che non aveva mai saputo accogliere. A causa di una resistenza ostinata che Lindo chiamava autenticità. Ma non era vero nemmeno questo. Nient’altro che coperture dell’infantilismo della mente di Cora. Soltanto con i corpi era stata in grado di comunicare. Parlavano una lingua che era la sua. Come gli oggetti. Come gli elementi.

Così, di fronte alla sua grande occasione, aveva provato paura. E la paura, suo malgrado, le aveva fatto schiudere la bocca per lanciare un grido d’aiuto, con una voce stridula di vecchia in pericolo. Ma non c’era stato bisogno di replicarsi. Ralph l’aveva adocchiata da diversi minuti, nonostante la vista costantemente annebbiata dagli alcolici. Aveva abbandonato il suo chiosco e si era affrettato a soccorrerla. Aveva farfugliato qualcosa di incomprensibile in quel suo inglese legnoso da africano ubriaco. “Sorry, sorry”, aveva continuato a ripetere, mentre la tirava fuori dall’acqua. Le aveva strofinato duramente le guance, per ridarle forza, intanto la scrutava, con l’occhio giallo, indagatore. Allora si vedeva che aveva provato paura. Cora si era sentita sporca e umiliata come una ladra.

Non importava più. Adesso a Cora pareva di dondolare, mentre ricordava, immobile sotto il sole. Rise tra sé. Che buffo, non era possibile. Eppure. Dal mare veniva la voce di Lindo. Chiuse gli occhi, e lasciò spazio alla visione. Era proprio Lindo. All’orizzonte, guidava una carrozza sulla superficie, come un possente tritone. La carrozza fluttuante sta venendo a prenderti, gridava. Ma la carrozza affondava, anziché procedere, rapidamente cedeva alle onde, e la voce di Lindo, ormai mangiata dalla schiuma, prima di andarsene…i cavalli sono caduti in mare…fece in tempo a udire Cora. E qualcos’altro che non comprese.

Aprì gli occhi, un po’ scossa. C’era davvero una voce, e si appressava. Era Ralph, ubriaco come al solito. Provò a mettersi a sedere, con fatica, e si guardò intorno. Lo vide, a metà della spiaggia, farle un cenno di saluto, allegro e barcollante. Abbassò subito lo sguardo e afferrò la borsa. Una debole aura azzurra era comparsa nella parte superiore del suo campo visivo. Appena sotto le ciglia. L’aura tremolava, scendeva, come un lento sipario. Ci mise più del previsto a recuperare l’astuccio dei farmaci. Quando alzò nuovamente lo sguardo, Ralph era chino davanti a lei.

“Praline?”, domandò, con il braccio teso. Cora, rossa in viso, gettò tutto in borsa. Lui scoppiò a ridere. “Don’t worry”, esclamò, sornione, con l’occhio perspicace. Sapeva bene che non erano praline. Le

 

allungò l’altro braccio per offrirle un po’ di birra. Lei rifiutò, disgustata. Ralph scoppiò a ridere un’altra volta.

“You can trust me”, cominciò a dire, indicando la borsa di Cora, “If you mix them with alcohol, you will see a better sky”. Cora, sempre più nauseata, lo ignorò, e fissò il mare. Vieni, bambina, vieni… Tornò a sdraiarsi, e l’aura apparve di nuovo, e vide l’aura e il mare insieme, e Lindo. Forse la carrozza sarebbe riemersa dalle acque. “And angels will appear and tell you… oh my God, you’re so gorgeous… bye bye… bye bye angels…”.

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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