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Acqua, minerale

 

di Saverio Marziliano

Erano i primi giorni di giugno e verso sera l’aria iniziava a diventare molto calda e umida. Per sopperire alla calura, in realtà più per abitudinaria tradizione che per effettivo beneficio, alcune famiglie e molti anziani cercavano refrigerio sedendosi all’aperto davanti ai vari portoni d’ingresso dei palazzi e lungo i marciapiedi. Nei suoi ricordi d’infanzia Aldo ricordava lunghe serate trascorse tra folti gruppi di anziani e genitori stanchi intenti a vegliare distrattamente sui bambini che giocavano accanto mentre intorno infuriavano le discussioni sull’attualità o su erronee rievocazioni di eventi del passato.

Per un forestiero che fosse appena arrivato, osservare i gruppi di famiglie assiepate avrebbe costituito una buona approssimazione dei legami che intercorrevano tra le famiglie del quartiere e, in una qualche misura, anche della città. Mentre attraversava la via principale che divideva il quartiere dalla stazione notò qualche sparuta sedia vuota davanti a delle aiuole, mentre un anziano signore in bermuda e calzettoni compressivi tesi fino al ginocchio sonnecchiava sull’uscio di un villino sotto lo sguardo distratto della sua badante intenta a scorrere gli aggiornamenti sullo smartphone. Dalle poche finestre aperte si udivano suoni di stoviglie e TV accese; pensò che le altre fossero chiuse per evitare che il caldo potesse intaccare il microclima da condizionatore di quei miniappartamenti, per lo meno a giudicare dalle luci accese e dalle decine di motori esterni per condizionatori che donavano un tocco di contemporaneità alle anonime facciate pallide dei numerosi palazzi che si susseguivano lungo la via, stinte da anni di lenta esposizione al sole feroce della canicola. Pensò che forse fosse quello il motivo per cui la strada gli sembrò più silenziosa, vuota e desolata di come la ricordasse. Era però questione di qualche settimana e poi il quartiere si sarebbe temporaneamente ripopolato per l’estate. Lungo il tragitto per raggiungere la collinetta posta alla fine dello stradone, ripensava a quelle parole che aveva ascoltato la sera prima. Non era la prima volta che assisteva a un dibattito pubblico a scuola o in città, anche se a casa e tra i parenti si cercava sempre più spesso di schivare questi argomenti, non tanto per evitare di rovinare l’atmosfera quanto per non riaprire fratture mai del tutto sanate. Il discorso dell’anziano professore lo aveva però colpito e non riusciva a capire bene perché. In quel contesto ci era nato e ci viveva, eppure sebbene lo sentisse proprio continuava a trattarlo come un corpo estraneo, un altrove dove ogni tanto gli toccava approdare per poi ripartire verso paradisi artificiali che gli consentissero di affrancarsene. Quelle frasi però avevano smosso qualcosa di diverso dentro di lui. Per la prima volta ebbe la sensazione che qualcuno fosse riuscito ad esprimere con le parole quel mondo che da sempre sentiva di avere dentro, ma a cui non era mai riuscito a dare forma.

Questo era il primo anno che era rimasto sostanzialmente solo. Pisa, Milano, Roma, Firenze, perfino Trento, erano solo alcune delle città dove i suoi amici si erano trasferiti per studiare o lavorare. Tra meno di un mese li avrebbe finalmente rivisti. Era felice, certo, ma anche un po’ confuso. Per schiarirsi le idee aveva quindi deciso di uscire per una breve passeggiata e si era diretto verso la collinetta al termine del quartiere. Superato il parcheggio del discount market e arrivato ai piedi della montagnola aveva dunque percorso i duecento scalini due alla volta per arrivare allo spiazzo in cima e lì si era seduto sull’unica panchina rimasta ancora a presidiare la fortezza. Era ormai notte, eppure il cielo sembrava illuminato quasi a giorno dalla solita luce rossastra per lui ormai familiare. Sebbene non molto alto, quello era un punto di osservazione privilegiato sul golfo e la città; da lì, anche a occhi chiusi, sarebbe riuscito a indicare con estrema precisione dove si trovavano il mare, la città vecchia, l’antica acropoli cittadina, il porto. E la fabbrica.

A guardare quel moloch dall’alto sulle mappe satellitari si aveva l’impressione che il satellite avesse avuto qualche problema di messa a fuoco o anomalia nella trasmissione dei dati. Infatti, accanto alle immagini nitide del mare, dei palazzi e degli sconfinati appezzamenti di terreno frammentati in tanti piccoli pixel di vari colori a seconda della messa in coltura, ad un certo punto compariva un alone rossastro tendente all’amaranto scuro. Era la fabbrica, con i suoi parchi minerari en plein air. Il passato e il presente della città. Di recente, a custodia di quell’enorme polmone collassato color amaranto erano stati posti però due enormi sarcofagi bianchi che dopo meno di un anno dall’inaugurazione avevano già assunto un timido color nicotina. Suo padre, operaio in pensione che aveva lavorato nell’arsenale militare della città, diceva invece che visto così dall’alto il parco minerario gli sembrava un enorme bacino di carenaggio. Vista così di notte, racchiusa tra gli uliveti e gli agrumeti a nord-ovest, il mare ai suoi piedi e le luci della città che si confondevano con il cielo stellato velato dal fumo notturno delle ciminiere e dal bagliore delle luci di segnalazione poste su di esse, si sentì come un astronomo davanti a un buco nero; un’enorme massa dotata di un campo gravitazionale così violento da attrarre a sé qualsiasi elemento circostante. Si accese una sigaretta e davanti a quella vista pensò ai suoi amici e a chi come loro era partito anni addietro e sarebbe tornato a breve per le vacanze. Non si trattava dell’unica città a vivere quella diaspora e lui certamente non era l’unico ad affrontarne le dirette conseguenze sulla sua pelle. Pensò ai famigliari di chi era andato via, che restavano in città, e ai tantissimi volti giovani e adulti che vedeva sciamare per le vie del centro a Natale, Pasqua ed agosto e su cui non si era mai soffermato finché a quei visi sconosciuti non si erano uniti quelli dei suoi amici. Si chiedeva quanti e quali fossero i motivi di chi era partito, il loro stato d’animo, i sogni, le speranze e le aspettative. Sarebbero tornati? Il mondo che avevano trovato fuori dalla città era come immaginavano? Si guardavano mai indietro? E cosa vedevano? Chi e cosa trovavano quando tornavano? Chi decideva di restare lo faceva perché sceglieva di non partire o perché non aveva scelta? Aldo su questo non aveva dubbi, se avesse potuto decidere sarebbe partito anche lui. I suoi amici gli ripetevano che a vent’anni per loro il viaggio era aprirsi al mondo, ma anche alla scoperta di sé. Vero, pensò, ma forse per chi restava era più difficile affrontare se stessi, o per lo meno così era stato per lui da quando era rimasto solo in città. Fece un ultimo tiro alla sigaretta, ripensò alle parole dell’anziano professore, ai suoi amici, alla sua condizione e a quella di chi era partito e di chi restava a casa in attesa. Si alzò, lanciò lontano nel buio il mozzicone della sigaretta, poi si voltò ancora una volta a guardare il mare e la fabbrica, smisurato fenomeno collettivo che incombeva sulla città e aggregava ogni storia individuale, i palazzi, gli appartamenti, i villini, le luci e i lampioni che di notte rischiaravano il cielo e accarezzavano le acque del golfo. C’era ancora tempo per invertire la rotta o era ormai troppo tardi?

 

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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