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Apprendistato alla salvezza

di Marino Magliani

In un catalogo di bellissimi titoli di narrativa e di sillogi e saggi, persino titoli di canzoni e quadri, che raccontano di scienze, come anatomia, fisica, geometria, il termine apprendistato si ritaglia uno spazio non definito, un percorso non compiuto: apprendistato come qualcosa di possibile. Anche il resto, alla salvezza, sembra trascinarne il valore verso lo sconosciuto, verso qualcosa di cui non sappiamo, non noi almeno, che restiamo e alla fine possiamo prevedere molto, ma non se l’apprendistato ha funzionato, se ha portato all’ottenimento della salvezza. Forse perché la salvezza sembra riguardare qualcosa di cui da qui si sa poco. Alla fine sembra giocarci la vita intera in un connubio del genere. Insomma un titolo così dovrebbe incoraggiare a darsi delle regole, essere una specie di regolario dell’apprendistato alla salvezza, ecco. No, in realtà, nessuna regola, qui, in questo apprendistato, nessun ordine, se non l’invito alla calma, la meravigliosa esortazione a un silenzio. Il primo verso ce lo indica. Il silenzio della notte modellato dalla voce. Non fosse che il poeta mi è amico da anni – collaboriamo da distante a un blog che si chiama La Poesia e lo Spirito- , e che questo libro mi è giunto da lui, leggendo il secondo verso della seconda poesia avrei desiderato saperne di più sull’autore. È un verso che sento tremendamente mio:

Oggi sono il cane di me stesso

Dev’essere qualcosa che lega scrittori e poeti il bisogno di identificarsi in un cane ”solitario”. In un mio libretto sul paesaggio olandese faccio chiedere a un camminatore con cane: “Lei non ha un cane?” La domanda è rivolta naturalmente a un camminatore senza cane. Uscire la sera in questo quartiere sbattuto dal vento e dalla pioggia è una forzatura, uno lo fa se deve portare fuori il cane. Come dire, se esce senza cane non ha un alibi. Il camminatore senza cane, dinnanzi a una domanda del genere, si compiace d’aver pronta la seguente risposta: “Io sono il mio cane”. Ecco, quando le poesie ci prendono. Quando, come scrive Vitagliano, ci portano in un posto che sentiamo, sconosciuto o già “nostro”, e costruiscono il nostro teatro anatomico e di certo lo condividono. A quel punto ci stupiamo, esattamente come lo fa il poeta:

 Non mi sembra vero

Di essere riuscito a fare delle parole

Copie che vibrano e dialogano

E rileggiamo. Questo faccio da tempo con Apprendistato.
E allora l’apprendistato diventa un processo di trasformazione, sembra una questione di trovare altri mezzi di respiro? Ci sono nate le branche starnutiremo senza paura – di tentarle tutte, per dire È completata questa vita.

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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