Il corpo è tutto

di Valerio Paolo Mosco

 

Olivia Laing, Everybody, Il Saggiatore, 2022,
Traduzione di Alessandra Castellazzi

 

Olivia Laing, come per altro Annie Ernaux, ha ritagliato su di sé un genere letterario. Esso si compone di una serie di biografie di persone particolari, essenzialmente biografie di artisti, di cantanti, di intellettuali e letterati che la Laing descrive per frammenti. Notevole la sua capacità di entrare nella vita degli altri, un entrare alla ricerca di quello che potremmo definire il loro nocciolo duro, il loro dramma interiore. Appena colto questo dramma la Laing passa ad un’altra personalità e lo fa per analogie con una certa spigliatezza. Un procedimento questo utilizzato anche da Emanuele Carrere, ma la Laing in più aggiunge una sagacia femminile ed una delicatezza per nulla sdolcinata. Se in Carrere sentiamo in sottofondo nella narrazione l’arguzia dello sceneggiatore, nella Laing gli effetti sono stemprati. La narrazione scorre senza sobbalzi e ci sentiamo come sospinti su un nastro trasportatore da cui ci voltiamo e scorgiamo l’autrice che è come se si celasse nella vita degli altri. La sua è come una autobiografia di tutti, o meglio di tutti quelli che come lei hanno sofferto la solitudine, l’inadeguatezza e il disagio e di ciò ne avessero fatto forma: forma d’arte, letteratura, impegno. In Città sola, un libro da non perdere, la Laing racconta di sé attraverso la solitudine degli artisti newyorchesi come Hopper, Warhol, Basquiat e altri. Attraverso loro appare New York, la magnifica città di quella concitata solitudine che prima era di Parigi.

Il suo ultimo libro Everybody, edito con cura ancora una volta da Il Saggiatore, la Laing ci racconta del corpo come strumento di protesta. Il corpo esposto, messo in mostra ad effetto, che trasmette ciò che l’intelletto non ha il la forza di trasmettere. In definitiva il corpo come espressione di verità. Attenzione, non la verità come la intendiamo comunemente, come testimonianza oggettiva, ma verità nel senso che i greci davano al termine, verità come aletheia, ovvero lo svelamento, coincidente con il togliersi di dosso gli infingimenti e le menzogne che noi stessi ci raccontiamo e raccontiamo. Scrive nelle prime pagine la Laing:

“Ma l’elemento del corpo che più mi interessava era l’esperienza di viverci dentro, di abitare un veicolo catastroficamente fragile, preda inaffidabile di piacere e di dolore, odio e desiderio”.

Il corpo ci disvela dunque, ci rende umani in quanto testimonia la nostra vulnerabilità e con essa l’eroismo di coloro i quali non hanno rinnegato la vulnerabilità ma ne hanno fatto uno strumento di espressione artistica o strumento di resistenza nei confronti del potere che come tale da sempre rinnega l’anelito alla libertà insito nel nostro corpo.

Il personaggio centrale del libro è uno degli uomini più eccentrici del secolo scorso, Wilhelm Reich che nasce come promettente allievo di Freud ma poi se ne distanzia e tra le tante folli invenzioni, come quella di una macchina per sparare alle nuvole per far piovere, costruisce la “scatola orgonica” in cui poter catturare la forza vitale dell’universo e rinascere. Dalla scatola orgonica nella narrazione è come se uscissero le vite di Ana Mendieta, di Susan Sontag, di Andrea Dworkin, di Bayard Rastin, del Marchese de Sade, di Agnes Martin, Philip Guston, Malcom X, Elias Canetti, Nina Simone e altri ancora. Attraverso di loro entriamo nelle radici della cultura del corpo, di cui quella gender e queer è una propaggine, e ci entriamo di soppiatto, senza sobbalzi ideologici.

La Laing mantiene sempre un tono dubitativo, non si infervora e sembra detestare qualunque forma di radicalizzazione, tra l’altro sa muoversi a proprio agio tra la cultura alta e quella pop. Cerca di comprendere, di ascoltare, per condividere con noi che leggiamo l’unico fondamento plausibile della letteratura, la non violenza, sebbene proprio nell’ultima pagina afferma, con realismo, che “la violenza è un fatto”. È un fatto che il corpo subisce ma da cui si può liberare a patto che ciò che è privato diventi pubblico e infine politico. In Italia la lunga storia del Partito Radicale dimostra che, almeno in parte, ciò non è impossibile.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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