I delitti del Bianco
di Bruno Morchio
Nuova indagine per il commissario Ferruccio Falsopepe, investigatore di origini messapiche trasferito a Genova e ora in procinto di partire per Roma. Uomo saggio e flemmatico, marito affettuoso e padre attento ma propenso all’autoflagellazione, il capo della squadra anticrimine incappa in una caso quanto mai spinoso: la giovane farmacista Egle Presutti, figlia di un potente uomo politico genovese, viene barbaramente uccisa a coltellate mentre trascorre le vacanze agostane in quel di Courmayeur. Egle è legatissima alla inquieta gemella omozigote Mira, entrambe sono orfane di madre e poco possono contare su un padre così assorbito dall’attività politica. Il delitto si consuma sulle rive della Dora ed è messo in opera con le stesse modalità di un omicidio occorso nell’agosto 1953, nei giorni in cui il segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, da poco scampato a un attentato che fece tremare l’Italia, trascorse un periodo di vacanza nella valle insieme alla compagna Nilde Iotti e alla figlia Marisa. La vittima si chiamava Angela Cavallero, era una sartina torinese e aveva la stessa età di Egle. Quanto alle indagini, la confusione regna sovrana in entrambe le inchieste, gli investigatori del posto si muovono con scarsa perspicacia e Falsopepe verrà inviato, dapprima quasi in incognito, per farsi un’idea della situazione. La agognata vacanza nel trullo di Ceglie Messapica sembra sfumare, ma in compenso lo status ufficioso dell’incarico consentirà al commissario di accompagnarsi col figlio Salvatore appena tornato dagli Stati Uniti.
Il romanzo si legge con grande piacere, perché l’autore sfodera come al solito la sua ironia e una scrittura leggera e precisa, non scevra di richiami linguistici regionali – liguri, valdostani e pugliesi – puntualmente chiariti da uno stringato apparato di note che il lettore troverà in fondo al volume.
La struttura per molti versi è quella del giallo classico, con un poliziotto che mostra grande empatia umana verso le vittime ma che non si lascia coinvolgere visceralmente nella vicenda, ma solo apparentemente, perché qui Paternostro compie un’operazione ardita (e riuscita) che sfida i canoni del genere e merita di essere analizzata.
Anzitutto ponendo a stretto confronto due dimensioni: quella della fiction (l’omicidio di Egle Presutti) e quella reale, storicamente ben scandagliata attraverso gli articoli dei maggiori giornali dell’epoca, compresa L’Unità, organo del PCI, che mentre rendiconta le criticità dell’indagine ci fornisce una ricca messe di notizie relative al soggiorno del Migliore a Courmayeur e alle complesse vicende politiche legate alla formazione del governo Pella. Dunque anche in questo i due “casi” si assomigliano: entrambi chiamano in causa una dimensione più ampia, politica, sociale e di costume, alla quale un giornalista di lungo corso come Paternostro certo non poteva sottrarsi.
Stante il fatto che il delitto di Angela Cavallero è avvenuto nella realtà, l’autore costruisce la trama della nuova vicenda prendendo le mosse da quella storia assai ingarbugliata così come possiamo riscostruirla sulla base dei documenti. Nel testo ricorre l’espressione “delitto in fotocopia”, giustificata dalle molte coincidenze che rendono simili i due crimini. Muoversi sul crinale fra fiction e realtà è un’operazione ardua. Nella storia della letteratura crime ricordiamo alcuni esempi illustri e di grande spessore, da Capote alla Atwood a Carrère, ma l’originalità di questo testo consiste nel fatto che non si limita ad affrontare romanzescamente una vicenda realmente accaduta, ma costruisce una storia di fiction che procede in parallelo con una analoga, verificatasi nella realtà. L’interesse dell’operazione è molteplice, linguistica e strutturale-compositiva. Infatti vengono messi a confronto due scritture e due linguaggi, quello della cronaca (per la vicenda Cavallero) e quello della narrativa per la storia attuale. Dissidio che evidentemente alligna nel profondo dell’autore, che è approdato al romanzo dopo una intera vita dedicata al giornalismo della carta stampata e televisivo. Quanto al piano compositivo, alla trama, l’operazione si sviluppa a partire da un assioma mutuato da uno dei più interessanti drammaturghi del Novecento, lo svizzero Friederich Dürrenmatt (a cui si fa ripetutamente riferimento nel testo): il romanzo giallo, così come lo abbiamo conosciuto nella sua versione classica, non è credibile perché è una costruzione intellettuale debole, basata sulla accurata costruzione di eventi fittizi dove tout se tient, mentre la vita è fondata sul caso. È il caso (e il caos) che regola le vicende umane e la pretesa del romanzo poliziesco di sistematizzarle è un inganno e un’illusione.
Quale migliore occasione per dimostrarlo che mettere a confronto un’indagine reale con una inventata, sia pure condotta da un investigatore intuitivo e sagace come Falsopepe? E infatti, in entrambe le inchieste, sarà il caso a sbloccare l’impasse investigativa; l’intuizione del detective si rivelerà giusta, ma senza l’intervento della “mano di Dio” non si sarebbe mai usciti dalle panne (altro titolo di un celebre lavoro di Dürrenmatt).
Tutto ciò è narrato con una cifra ironica, lieve e spesso divertente, che origina dallo sguardo sornione del pugliese commissario Falsopepe (che a tratti ricorda il dottor Ciccio Ingravallo di Gadda), ma ovviamente è frutto della visione della vita del suo autore.