Tommaso Fiore
di Pasquale Vitagliano
In un momento storico in cui c’è chi propone un federalismo differenziato, sarebbe utile riscoprire la figura di Tommaso Fiore, a cinquant’anni dalla sua morte. Comprenderemmo che l’idea di un’Italia federale non è nuova. Ritorniamo a Cattaneo, scrisse Fiore in un articolo del 1923. E Norberto Bobbio considerò questo articolo fondamentale per convincere Piero Gobetti della bontà del progetto federale del milanese Carlo Cattaneo. Insomma, il federalismo non c’entra nulla con la “secessione dei ricchi” che qualcuno vorrebbe realizzare sotto mentite spoglie.
Certo, è un peccato dover aspettare gli anniversari per aggiornare la nostra agenda culturale e politica. Ma facciamo di necessità virtù. Ecco, che ci rendiamo conto che la Questione Meridionale, tutt’altro che risolta, pesa ancora; che, d’altra parte, non è mai esistito un Sud abbarbicato sulla propria identità e chiuso in uno lamentoso provincialismo. Nato ad Altamura, Tommaso Fiore frequentò Pascoli, collaborò con Piero Gobetti, fu tra gli ispiratori del Partito d’Azione e del filone liberalsocialista.
Il saggio di Daniele Maria Pegorari, Le utopie di Tommaso Fiore, un itinerario politico e letterario, è utile, dunque, allo scopo di cambiare l’attuale palinsesto del dibattito delle idee. Suggestiva è l’idea di partire dal nome Tommaso, condiviso con Moro e Campanella (ma io aggiungerei anche il discepolo incredulo), per ricostruire la figura di un intellettuale, meridionale solo per ascendenza, che per un’intera, lunga vita seppe conciliare l’aspirazione all’utopia con la pratica politica del possibile. Il suo impegno civile è stato integrale, “come studio meticoloso e azione diretta, senza schemi, senza salvacondotti, esponendosi prima alla trincea di Caporetto e poi alle carceri fasciste, sempre con la medesima dignità e sempre avendo a cuore un equilibrio perfetto fra pensiero e prassi.”
Il merito di questo saggio, tuttavia, è di aver fatto emergere in tutta la sua singolarità la qualità della scrittura di Tommaso Fiore. In primo luogo, egli è stato tra i primi sperimentatori del reportage letterario. Ma soprattutto, sotto l’aspetto letterario, il suo stile è riuscito a “fondare” la geografia pugliese (e sudista) nell’immaginario nazionale. Nelle Lettere pugliesi, per esempio, la città di Taranto diventa “una città magica, molto probabilmente ignota al miglior Calvino”. Qualche volta sbucate senza volerlo in un cortiletto irregolare come uno straccio fatto di dieci altri, ma nemmeno di qui si avanza molto: un pilastro con una nicchia e dentro un santo, non si sa quale, vi sbarra la strada. Ed aggiungerei che si sente già il brulichio della città pasoliniana.
Se sulla sua generazione, da Gaetano Salvemini e Elio Vittorini, ha pesato la responsabilità di partecipare ad un processo inedito di “nation building”, direi che, come testimoniano opere come Un cafone all’inferno e Un popolo di formiche, questa epopea laica è tutt’altro che conclusa. Dopo le pietre dure della Murgia, questa utopia consentirà anche di riconciliarci con l’acqua dei fiumi.
Apprezzo lo studio di una figura che ho visto in luce diversa dopo la mia esperienza internazionale (comitati UE, comitati OCSE), analizzando la sua concezione della democrazia e del liberismo economico, alla luce delle considerazioni che fece in merito Polanyi. Non spigo qui le mie riflessioni, ma mi permetto di effettuare in seguito un’analisi comparata tra le concezioni maturate da diversi meridionalisti sull’annosa problema del miglioramento delle condizioni di vita nel sud (mi rifiuto di chiamarlo sviluppo, termine mistificatore). Grazie
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