Essere Paul Shepard. Verso un’ecologia del collasso

 

 

È da poco stato pubblicato in Italia da Meltemi Teneri Carnivori di Paul Shepard, fondamentale saggio uscito per la prima volta nel 1973. «L’Antropocene, cognitivamente parlando, è proprio questo: l’esposizione all’assurdo, l’accettazione dell’aporia, la pratica pericolosa e accidentata di una complessità anti-intuitiva. The Tender Carnivore and the Sacred Game è un generatore di scenari di previsione che educa a questo sforzo quasi impossibile: conciliare la nostra natura selvatica con un mondo che la esclude di fatto. In questo senso, la parola profetica di Shepard è un viatico per il dopo» scrive Matteo Meschiari nell’introduzione al libro.

Ne pubblichiamo qui un estratto.

 

Essere Paul Shepard. Verso un’ecologia del collasso

 

La mia esperienza là fuori, nel bush, era il presente, o l’immanenza del presente.

James Kilgo[1]

  1. Revenant

The Tender Carnivore and the Sacred Game arriva in traduzione italiana a cinquant’anni esatti dalla sua pubblicazione in America, avvenuta nel 1973[2]. Gli anni Sessanta e i primi Settanta del secolo scorso sono stati complessi e ricchissimi. Si pensi all’intreccio tra i movimenti per i diritti civili e l’attivismo ambientalista, alla fisica che incontra il buddismo e si ridisegna in termini umanistici e cosmologici, alla fantascienza che abbandona l’ottimismo tecnologico per scivolare dentro scenari sempre più distopici.

Sono gli anni di Martin Luther King e Rachel Carson, di Fritjof Capra e Philip Dick, e sono anche gli anni in cui Gary Snyder allarga il solco tra sé e i Beat, e Paul Shepard elabora e radicalizza il proprio pensiero. Ma, mentre Snyder diventa un guru del modello primitivo dell’uomo, Shepard, che quel modello lo ha inventato e argomentato per una vita, resta nell’ombra. Ammiratissimo da autori come Barry Lopez, Peter Matthiessen e lo stesso Snyder, che gli dedica la poesia Old Bones confluita poi nella raccolta Mountains and Rivers Without End[3], Shepard è come se avesse qualcosa che non va, qualcosa che lo rende un endling, una specie di tilacino in gabbia, un fantasma.

Troppo filosofo per gli scienziati, troppo scienziato per gli antropologi, troppo conservatore per la politica radicale, troppo radicale per l’ambientalismo blasé, Shepard ha avuto il privilegio di una doppia dimenticanza, che somiglia quasi alla negazione, all’imbarazzo verso un padre scomodo. Pubblicato, ripubblicato, capace di ispirare tanto la Nature Writing più tradizionale quanto Green Anarchy, è l’autore che tutti leggono ma quasi nessuno cita, come se le sue idee fossero un open source a cui attingere senza la seccatura di dialogare con gli aspetti meno digeribili, più irricevibili e più perturbanti di un autore che resta inclassificabile[4].

Che senso ha, allora, a distanza di cinquant’anni, disturbare ed estrarre dallo scaffale della storia delle idee un volume che rischia di raccontare solo il frammento antiquario di una stagione superata del pensiero? A cosa può servire leggere Paul Shepard oggi, in un mondo così diverso dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento? Come curatore ho l’onere e l’onore di spiegarlo. Come geo-antropologo è una chiave di lettura che devo trovare. Come lettore proverò a dire che cosa ho provato leggendo e rileggendo le pagine forse più radicali mai scritte sul presente e sul futuro di Homo sapiens.

Mettendo il carro davanti ai buoi, posso dire qui che The Tender Carnivore and the Sacred Game è il libro che potrebbe accompagnarci nei prossimi cinquant’anni per ripensare il posto degli umani su questo pianeta e per trovare una via di uscita al collasso ambientale, energetico, cognitivo, sociale e culturale che, consapevoli o no, stiamo già vivendo. Shepard ha scritto tra gli anni Sessanta e Novanta del Novecento. Ha scritto coniugando competenza e visione, pragmatismo e utopia, complessità e chiarezza, e anche se nel 1973 ha immaginato un 2023 fuori portata in molti sensi, stava elaborando un pacchetto di idee che solo l’evento-Antropocene avrebbe reso così attuali e affilate. E così urgenti.

  1. Una storia di collassi

Shepard non ha dubbi: l’agricoltura finalizzata al profitto è l’inizio della fine di tutto. Quando il cacciatore-raccoglitore paleolitico viene sostituito dal contadino neolitico, l’attacco agli ecosistemi della Terra comincia in maniera violenta e ininterrotta. Deforestazione, erosione e impoverimento dei suoli, riduzione drastica della biodiversità vegetale e animale, dissesti idrogeologici, desertificazione, sovrappopolamento, esaurimento delle risorse, inquinamento, carestie, pandemie. Ma anche degrado degli ecosistemi mentali, perché il modello produttivista dell’agricoltore è all’origine della società gerarchica e patriarcale, della discriminazione della donna e dell’altro, della perdita delle libertà, dell’alienazione urbana, dell’asservimento animale, della guerra.

Chi si è letto L’Alba di tutto di David Graeber e David Wengrow[5] si starà dicendo che per fortuna la questione è chiusa, che Jared Diamond & C. sono un’impresa culturale commissariata, che il modello “Paleolitico vs Neolitico” è fallace, che le cose sono molto più complicate di così. Ed è vero. Le cose sono più complicate di così, ma proprio per questo Paul Shepard ha scritto The Tender Carnivore and the Sacred Game, perché sapeva che i modelli vengono sempre fraintesi, banalizzati, strumentalizzati, e allora c’era bisogno di fare chiarezza nell’atto stesso di fondazione di uno sguardo sul passato della specie che alcuni avrebbero poi chiamato Primitivismo. Uno sforzo rimasto quasi lettera morta, perché l’approccio multidisciplinare, evoluzionistico ed ecosistemico messo in campo è stato subito banalizzato e poi rigettato o dimenticato.

Il punto è che incasellare Shepard nel Primitivismo è il modo più rapido per fare torto alle sue idee. Perché Shepard non ha mai pensato che un ritorno al Paleolitico fosse possibile o anche solo auspicabile. Non ha mai stilato manifesti di arruolamento ideologico. Non si è mai incartato nell’aporia dei piccoli e dei grandi numeri, cioè nella materiale impossibilità di applicare il modello tribale su scala globale. La soluzione che prova a inventare è invece “paraprimitiva”: anziché affrontare il collasso pensando a una tabula rasa, a un’accelerazione guidata della catastrofe o a un’autoestinzione volontaria, anziché gettare le basi ideologiche di una rivoluzione esterna, è nel passato biologico ed ecologico dell’uomo, dice Shepard, che occorre cercare la libertà.

Affrescando la fine del mondo di caccia e raccolta e l’avvento nefasto dell’agricoltura, identificando in questo passaggio apicale il generatore oscuro di una catena interminabile di collassi, Shepard arriva a mostrare che la condizione attuale di collasso sistemico, che alcuni chiamano Antropocene, non è dovuta alla macchina a vapore, all’elettricità, alla scissione dell’atomo o ai combustibili fossili, ma è l’esito scontato e macroscopico di una grande menzogna collettiva, ripetuta con scrupolo e abnegazione negli ultimi cinquemila anni: la vita di chi coltiva nei campi è felice, sana e vicina alla Natura; il pane, frutto di onesto sudore, è simbolo della nobiltà dell’uomo; la corruzione della specie è la sua origine bestiale.

E proprio qui Shepard dà il suo contributo più alto e al tempo stesso più dimenticato: il nostro problema percettivo è che continuiamo a definire cos’è l’umano usando come modello l’uomo civilizzato, trascurando così un milione di anni di vita pre-industriale, pre-agricola e pre-Sapiens sapiens in cui la coevoluzione di geni e cultura ci ha resi ciò che siamo. Il tempo profondo è stato ignorato, addirittura negato, come se fossimo ancora fermi ai cinquemila anni di Storia che sorreggono la mitologia del Creazionista e del Capitalista.

  1. Il magistero del paesaggio

La parola-guida in questo ritorno a un passato profondo, cioè radicato nelle profondità biologiche della specie (filogenesi) e dell’individuo (ontogenesi) è “ecologia”. Ma la parola ecologia, già molto usurata, si è anche specializzata in un senso ormai solo ideologico: non più lo studio scientifico della rete di interazioni complesse tra organismi e mondo non organico in un dato ambiente, ma un approccio filosofico e militante teso a produrre un’interpretazione narrativizzata e politicizzata del rapporto tra umani e non-umani. Quello che invece Shepard diceva cinquant’anni fa, e che oggi viene in nostro soccorso, è che esiste una specie di “istinto ecologico”, un modo innato e sistemico di guardare le cose che tende a produrre una visione del mondo eco-centrica, eco-sociale ed eco-cosmologica.

In The Tender Carnivore è forse l’aspetto meno approfondito, ma tutta l’opera di Shepard è lo sforzo di raccontare queste dinamiche ecosistemiche profonde come incarnate in un duplice corpo: il corpo umano e il corpo terrestre. Per quanto il termine landscape abbia per lui un’accezione sempre culturale, in particolare estetica, e preferisca parlare di ground, terrain o territory per sottolineare la materialità della superficie terrestre, è comunque l’idea di luogo che pulsa al centro del suo modello. Foreste, savane, bush, praterie, valli fluviali, faglie, altipiani, catene montuose. I grandi paesaggi africani sono l’inesauribile playground in cui la nostra specie, in gioco con tutte le altre specie non-umane, ha modellato nel corso di centinaia di migliaia di anni la propria biologia fisica e cognitiva[6].

Il nostro corpo e il nostro cervello, insomma, sono l’esito di questo intricato role play pieno di personaggi eterogenei, in grado di premere e guidare la nostra evoluzione e dunque di determinare chi siamo ancora oggi. Umani e non-umani, animati e inanimati, predatori e prede, visibili e invisibili, immobili e sfuggenti, pericolosi e innocui, buoni da mangiare e buoni da pensare. Tutta la nostra storia biologica, cognitiva e culturale, fino ad almeno diecimila anni fa, è stata modellata dai paesaggi nei quali eravamo immersi, in un dialogo intenso e quotidiano con la componente geologica, biologica e sociale del mondo.

Conoscere, capire, interpretare, pensare e immaginare questi paesaggi complessi e mutevoli non era l’esercizio romantico di un pittore contemplativo, ma la necessità primaria di una specie in grado di ricavare modelli da un aspetto della realtà per poi proiettarli su altri aspetti del cosmo: i paesaggi naturali sono una specie di teoria ecologica incarnata, sono la superficie sensibile delle dinamiche di interazione tra mondo organico e mondo inorganico e sono anche il luogo fisico e mentale in cui forme materiali e forme simboliche si toccano, si compenetrano e si confondono. Così il paesaggio geologico, con le sue parti diverse e correlate, può alludere all’anatomia interna di una preda appena cacciata, l’anatomia dell’animale può alludere alle relazioni organiche tra i membri di una società, e infine la società può diventare un modello per capire i paesaggi terrestri, che sono una società di luoghi pieni a loro volta di società vegetali, animali, minerali.

Non farsi carico di questa storia ecosistemica profonda significa privarsi della chiave per comprendere perché l’uomo è come è, perché la filogenesi continua a specchiarsi nell’ontogenesi e ci fa agire e pensare in un certo modo, perché aver smarrito questa consapevolezza ancestrale in appena cinquemila anni di storia agricola e industriale ha generato alienazione, disfunzione e follia. Abbiamo perduto i paesaggi del Pleistocene in cui siamo nati e per cui siamo tutt’ora fatti. È una perdita irreparabile ma, dice Shepard, qualcosa di quei paesaggi continua a essere in noi, ed è lì che potremo ritrovarci.

  1. Mitopoiesi evolutiva

In bilico tra scienze evoluzionistiche e antropologia culturale, tra poetica e politica, tra essere e dover essere, Shepard scrive un saggio brillante, accorato, visionario, che per molti versi sorpassa in gittata La scimmia nuda di Desmond Morris[7]. Scrivendolo, però, non si accorge che la macchina narrativa che lo sostiene sta generando anche qualcos’altro, una specie di racconto nel racconto che alla fine diventa l’anima del libro. È qui che il lettore sospende l’incredulità due volte, entrando nel romanzo della lunga storia della nostra specie e di quelle che l’hanno preceduta, e assistendo un po’ alla volta a una nascita misteriosa e potente.

Con i piedi sempre per terra, parlando di biologia dell’occhio, di pollice opponibile, di articolazione della spalla e di dimensioni del cervello, connettendo frammenti paleontologici in un unico fluire biologico, descrivendo paesaggi che hanno l’agency di modellare le specie, immaginando le cacce di un adolescente paleolitico, Shepard sta inventando un nuovo eroe culturale per il mondo contemporaneo che ne è privo, una specie di Eroe Paleontologico che viaggia nel Tempo, che ancora è vivo in noi, e che lui chiama il Tenero Carnivoro.

Attraverso una catena di passaggi di testimone, dalle scimmie arboricole, attraverso Ominoidi e Ominidi estinti fino a Homo, si viene a precisare il corpo, la mente, la socialità e la predisposizione culturale di questo eroe cinegetico, di cui si serbano vestigia eloquenti nei popoli cacciatori-raccoglitori studiati dagli etnologi moderni. E quello su cui Shepard insiste è che molti aspetti di quella che oggi chiameremmo cultura specificamente umana, in realtà hanno radici sociobiologiche nel habitat, nelle spinte evolutive e nel bisogno di sopravvivenza dei nostri antenati pre-umani. Si tratta insomma di un eroe mitico il cui canto ancestrale dice una cosa precisa: l’uomo non nasce dal nulla, e ciò che chiamiamo umano è in realtà un arazzo di storie ecosistemiche.

Come in ogni racconto, c’è una morale, che possiamo condividere o meno. Per Shepard il fatto di riconoscere il presente profondo dell’uomo moderno significa cogliere le cause più remote delle sue disfunzioni psicologiche e sociali: se siamo nati come specie nel Pleistocene, se siamo un prodotto evolutivo e ambientale perfettamente adattato a gradi spazi, a un’esposizione permanente al mondo selvatico e al potere demiurgico della caccia, ne consegue che l’oggi urbano, industriale e consumistico è una trappola devastante e autodistruttiva. Se allora vogliamo uscirne, se vogliamo salvarci, la soluzione è solo una: riprendere contatto con il nostro io cinegetico, ridiventare Sapiens prima che sia troppo tardi.

Quello che noi possiamo dedurne oggi, per estensione, è che il collasso sistemico dell’Antropocene non può essere affrontato in maniera tecnocratica e sempre antropocentrica, ma va guardato, compreso e governato in maniera ecosistemica. Nel panorama della Grande Crisi, insomma, non esistono solo iperoggetti inavvicinabili, ma innumerevoli varianti micro-antropoceniche, ognuna delle quali va avvicinata come un ecosistema disfunzionale.

  1. Animali di ogni tempo

Nel libro postumo The Others, pubblicato nel 1997, Shepard esplora i modi in cui svariate culture della Terra hanno celebrato gli animali, intesi come generatori di sussistenza, di sapere ecologico e di pensiero simbolico. Ma in che modo, di fatto, gli animali ci hanno reso umani? Per Shepard non si è trattato solo del gioco preda-predatore nel corso di centinaia di migliaia di anni, ma del bisogno di pensare animali per capire il mondo. Modello di alterità prossima, specchio esterno per apprendere a distinguere il sé dal non-sé in una dinamica di riconoscimento e differenziazione, l’animale è diventato per la nostra specie una sorta di modulo cognitivo, applicabile anche al paesaggio (miti di fondazione), alla società (totemismo) e alla mente (zoologia del sé). Una specie di bestiario espanso per interpretare il tutto.

Ovviamente questo bestiario non è un mero coacervo di forme, di comportamenti e di informazioni ambientali, ma è una macchina di riconoscimento e di ordinamento della realtà[8]. Quello che Shepard sostiene, appoggiandosi a Claude Lévi-Strauss, è che la tassonomia “inventata” da Linneo è solo una variante “etnica” tra innumerevoli varianti culturali: ogni popolo della Terra ha escogitato i propri modi per compilare liste di piante e animali, non tanto con finalità utilitaristiche (mangiare, utilizzare, evitare) ma per espandere la percezione del cosmo (immaginare, raccontare, onorare).

Per Shepard questo istinto classificatorio è codificato geneticamente nella specie e si attiva nell’infanzia. Nella cultura urbana contemporanea, dove il contatto con l’animale si riduce al pet o ai documentari e ai libri illustrati, è difficile riconoscere questa precoce passione per le liste, ma nelle culture di cacciatori-raccoglitori è chiaramente visibile una fase della vita in cui il giovane umano comincia ad apprendere voracemente nomi e informazioni ecologiche di tutte le piante e di tutti gli animali che popolano il suo habitat. Questo sapere, però, è solo una preparazione: la vera esplosione cognitiva avviene nell’adolescenza.

L’adolescente, guidato da un mentore, esposto alla potenza dei canti mitici, coinvolto nelle prime esperienze di caccia pericolosa, iniziato attraverso lunghi periodi di esposizione nella natura selvaggia, mangerà e penserà l’animale inteso non come entità individuale ma come parte di un tutto, come porzione e come modello del cosmo. Questo processo si avvale e al tempo stesso si prende cura del fluido altamente instabile dell’adolescenza, quella scissione identitaria del giovane umano che abbandona la fanciullezza per essere incorporato nel mondo adulto. Per Shepard si tratta di un processo “naturale” che la società cinegetica accompagna offrendo un sostegno collettivo e una prospettiva rituale e sacra. Ma cosa accade fuori da questo tipo di cultura, che è incentrata sulla caccia dell’animale selvatico?

Nella società tecno-agricola, industriale e urbana l’assenza di veri riti di passaggio, di una cosmologia ecocentrica e di un’esposizione a un’alterità animale selvaggia interrompe il processo di maturazione narrativa e simbolica dell’adolescente, generando adulti infantilizzati, persone in cerca permanente di confort succedanei del grembo materno, individui frustrati, alienati, aggressivi che hanno perso un’occasione luminosa per raggiungere la piena maturità.

  1. Un’utopia sinistra

Dunque, che fare? Come recuperare in un mondo di otto miliardi di persone e con aree selvagge sempre più striminzite quel contesto tribale, totemico, venatorio indispensabile per la piena realizzazione fisica e psichica dell’uomo cingetico che ancora siamo? L’ultima parte di The Tender Carnivore è una sorta di future primitive utopia. Shepard, consapevole del fatto che un ritorno al Pleistocene può solo avvenire in maniera traslata, immagina gli anni Venti del secondo millennio non come un ventaglio di soluzioni praticabili, ma come una scelta obbligata[9].

Quello che propone è una sorta di macro e microingegneria planetaria che da un lato prevede la concentrazione di città lineari dislocate lungo le coste dei continenti per lasciare tutto l’interno alla wilderness, dall’altro l’eradicazione dell’agricoltura a favore di prodotti alimentari di sintesi a base microbica. Gli adolescenti delle comunità umane partirebbero per viaggi iniziatici nell’entroterra, passerebbero lunghi periodi di formazione in solitudine e caccerebbero. La carne della selvaggina verrebbe poi riportata nelle città, per essere consumata in pasti simbolici che evocherebbero il legame tra mondo umano e mondo non-umano.

Nessun campo di grano ma solo piccoli orti urbani per uso personale. Nessun pet, addirittura nessuna immagine di animali, ma solo grandi mammiferi selvaggi da contemplare e cacciare. Un’educazione omogenea alle fasi biologiche della crescita, incentrata sui saperi ecologici, dilazionando all’età adulta ogni sapere simbolico e astratto. Una divisione non gerarchica dei compiti ma fortemente differenziata in base al genere: uomini cacciatori, artigiani, narratori; donne a cui si vieta la caccia ma dignitosissime raccoglitrici del sapere e a capo di tutte le funzioni politiche e della cura…

Man mano che, leggendo, ci si addentra in questa utopia paraprimitiva, il senso di claustrofobia e di disagio perturbante aumenta fino a una soglia difficile da sostenere. E a questo punto si potrebbe accusare Shepard di ecodittatura, di androcentrismo, di neotribalismo sociale. Certamente l’ultimo capitolo del libro somiglia sinistramente a un romanzo distopico degli anni Settanta. Ma il lettore, messo di fronte a questa “assurdità” speculativa, non dovrà lasciarsi ingannare. Dopo il sorrisino o la smorfia di indignazione sarà obbligato a rendersi conto di due cose: se il collasso può essere affrontato solo in chiave ecosistemica, allora la wilderness (selvatichezza, alterità, inalienabilità) dovrà avere una posizione centrale nel design tecno-socio-politico del pianeta; se un design di questo tipo, per quanto assurdo e impraticabile, è l’unica via possibile di salvezza, allora il pianeta è già perso.

L’Antropocene, cognitivamente parlando, è proprio questo: l’esposizione all’assurdo, l’accettazione dell’aporia, la pratica pericolosa e accidentata di una complessità anti-intuitiva. The Tender Carnivore and the Sacred Game è un generatore di scenari di previsione che educa a questo sforzo quasi impossibile: conciliare la nostra natura selvatica con un mondo che la esclude di fatto. In questo senso, la parola profetica di Shepard è un viatico per il dopo.

 

 

NOTE

[1] Appunto inedito, la traduzione dall’inglese è mia.

[2] The Tender Carnivore and the Sacred Game, Scribners, New York 1973, poi ripubblicato nel 1998 con un’introduzione di George Sessions da The University of Georgia Press (Athens GA).

 

[3] G. Snyder, Mountains and Rivers Without End, Counterpoint, Washington 1996.

 

[4] Paul Howe Shepard Jr (1925-1996), zoologo, naturalista, ambientalista americano, ha conseguito un PhD in Conservation, Landscape Architecture, and History of Art a Yale e dal 1973 al 1994 ha insegnato Natural Philosophy and Human Ecology al Pitzer College a Los Angeles. Oltre a numerosi articoli ha scritto i seguenti libri: Man in the Landscape. An Historic View of the Esthetics of Nature, Knopf, New York 1967 (University of Georgia Press, Athens GA 2002); The Subversive Science. Essays Toward an Ecology of Man (con Daniel McKinley), Houghton Mifflin, Boston 1969; Environ/mental. Essays on the Planet as Home (con Daniel McKinley), Houghton Mifflin, Boston 1971; Thinking Animals. Animals and the Development of Human Intelligence, The Viking Press, New York 1978 (The University of Georgia Press, Athens GA 1998); Nature and Madness, Sierra Club Books, San Francisco 1982 (The University of Georgia Press, Athens GA 1998; tr. it. a cura di Francesca Frulla, Natura e follia, Edizioni degli Animali, Milano 2020); The Sacred Paw. The Bear in Nature, Myth, and Literature (con Barry Sanders), The Viking Press, New York 1985 (Penguin, New York 1992); Traces of an Omnivore, Island Press, Washington 1996; The Only World We’ve Got. A Paul Shepard Reader, Sierra Club Books, San Francisco 1996; The Others. How Animals Made Us Human, Island Press, Washington 1996; Coming Home to the Pleistocene, Island Press, Washington 1998; Encounters with Nature. Essays by Paul Shepard, Island Press, Washington 1999; Where We Belong, The University of Georgia Press, Athens GA 2003.

 

[5] D. Graeber, D. Wengrow, The Dawn of Everything. A New History of Humanity, Allen Lane, London 2021; tr. it. di R. Zuppet, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano 2022.

 

[6] Sul paesaggio come modello cognitivo e mitopoietico vedi ad esempio K.H. Basso, Wisdom Sits in Places. Landscape and Language among the Western Apache, University of New Mexico Press, Albuquerque 1996; F. Berkes, Sacred Ecology. Traditional Ecological Knowledge and Resource Management, Tylor & Francis, Philadelphia 1999; M. Meschiari, Nati dalle colline. Percorsi di etnoecologia, Liguori, Napoli 2010; V.D. Nazarea (a cura di), Ethnoecology. Situated Knowledge/Located Lives, The University of Arizona Press, Tucson 1999.

 

[7] D. Morris, The Naked Ape. A Zoologist’s Study of the Human Animal, Jonathan Cape, London 1967; tr. it. di M. Bergami, La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale umano, Bompiani, Milano 1968.

 

[8] Si veda ad esempio B. Berlin, Ethnobiological Classification. Principles of Categorization of Plants and Animals in Traditional Societies, Princeton University Press, Princeton 1992.

 

[9] L’ecologia utopica di Shepard è certamente una delle prime. Per proposte più recenti si veda ad esempio M. Harvey, Utopia in the Anthropocene. A Change Plan for a Sustainable and Equitable World, Routledge, London 2019.

 

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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