Figure della crisi

di Vittorio Coletti

Il Politico lo sapeva di avere un cervello di destra e un cuo­re di sinistra.
Non sempre, si capisce. A volte succedeva anche il con­trario, ma in genere le cose dentro di lui stavano così. La ge­nerosità innata lo spingeva da una parte; la fredda razionalità dall’altra. Non ne era soddisfatto e cercava di tenerlo nascosto. La sua parte di sinistra chiedeva più giustizia sociale, denun­ciava l’insensibilità della classe dirigente per i nuovi e vecchi poveri, si batteva nella lotta alle diseguaglianze (anche se il plurale gli faceva storcere il naso), condivideva le accuse alla corruzione pubblica e le denunce delle Procure, auspicava più scuola, migliori redditi, generosa assistenza, pronta e ordina­ta accoglienza e integrazione degli stranieri. La sua parte di destra pensava che uno nella vita dovrebbe darsi da fare per migliorare la propria posizione e non limitarsi a lamentarse­ne; che avere dei migranti come vicini di casa era un disastro, specie se venivano da culture così lontane e diverse da non essere pronti a integrarsi nella nostra; che l’assistenza poteva facilmente diventare assistenzialismo; che le Procure esagera­vano con la caccia ai colletti bianchi e avrebbero fatto meglio a occuparsi dei delinquenti di strada e degli assassini; che la scuola doveva tornare a essere un luogo di istruzione impar­tita da professori che insegnano e non un parcheggio sociale sorvegliato da genitori in ridicola e perenne difesa dei figli che depositano.
Più precisamente si definiva, con un po’ di snobismo, un vecchio socialista con non nascoste simpatie per il vecchio li­beralismo risorgimentale, e dunque del tutto inattuale.
Sapeva che il consenso gli veniva da sinistra, da quanti si riconoscevano nei suoi discorsi più pubblici e impegnati. Ma non ignorava che la sua peculiarità a sinistra era data anche dalla sua capacità di ascolto delle esigenze e delle sensibilità di destra, o meglio: dall’attenzione agli umori di destra diffusi anche tra gli elettori di sinistra. Diceva, ad esempio, che al fondamentalismo islamico bisognava rispondere con gesti di riconciliazione e di integrazione, ma non nascondeva che al fanatismo in certi casi era inevitabile reagire con la forza. Criti­cava l’assenza di progetti (parola notoriamente cara a sinistra), di idee e visioni della società e del Paese; ma lo irritava la pe­tulante contrarietà o insoddisfazione della sua parte a qualsiasi tentativo di realizzarne uno. Era tanto infastidito dalla demo­crazia di quartiere dei cosiddetti comitati, sempre contrari a tutto, quanto preoccupato dalle democrature nazionalistiche e autoritarie dei nuovi leader di destra.
Si riteneva un antifascista militante, figlio della Resistenza di suo padre, ma non sopportava più la retorica dell’antifasci­smo che spingeva i suoi compagni a guardare solo indietro, verso la temuta rinascita del vecchio fascismo e a non vedere davanti a sé la nascita di uno nuovo, diverso e non meno pe­ricoloso e sotto altre vesti. Diceva di temere non tanto i grot­teschi nostalgici, manipolatori del passato, di cui rovesciavano subdolamente la storia, quanto i precursori nascosti di un nuo­vo fascismo, ancora una volta populista e cialtrone.
Quando una direttrice d’orchestra fu boicottata da un teatro francese in nome della sua supposta amicizia con la leader dell’estrema destra italiana, fu così anticonformista non solo da stigmatizzare l’improvvida censura dell’arte, che dovrebbe essere tenuta fuori dalla contesa politica, ma anche da augurarsi pubblicamente che tutti i sospetti neofascisti fossero dei bravi musicisti, perché ci si poteva almeno confrontare con loro sul piano della musica, che non è soltanto una delle creazioni umane più alte ma anche tirocinio raffinato per una civile educazione all’ascolto degli altri. E a chi polemizzò con lui da sinistra ricordò un episodio di molti anni prima, quando un militante del suo partito salì su un palco a Torino per impedire un concerto del maestro Luciano Berio dedicato alla pace nei giorni delle stragi di palestinesi a Sabra e Chatila, e accusò musicisti e organizzatori di connivenza con gli autori o i mandanti dell’enorme crimine. Il Politico aggiunse, per chi lo avesse dimenticato, che in seguito il militante contestatore di Berio divenne uno dei più noti, ascoltati e potenti uomini della destra, essendo passato con le armi e i bagagli del suo arrogante fondamentalismo alla corte del miliardario “sceso (sciaguratamente) in politica”, di cui fu uno dei più convinti cantori.
Il Politico era o si credeva orgogliosamente atipico nel suo campo. Coglieva la conciliazione tra le due anime che si fronteggiavano in lui in una più precisa definizione delle due forze opposte: la sua destra, diceva, era quella liberale, democratica, finita in Italia ai tempi della Prima Guerra mondiale e mai più rinata, sostituita da quella becera e violenta del Fascismo; la sua sinistra era quella azionista, socialdemocratica, coltivata però dentro un partito che si chiamava comunista anche se, fortunatamente, non lo era stato, ma era stato socialista, democratico e riformista. Due dimensioni della politica ora del tutto fuori commercio, sostituite da altre che avevano lo stesso nome, destra e sinistra, ma culture completamente diverse, stili e densità culturali incomparabili con quelle cui lui si ispirava e preoccupanti tratti comuni.
La confusione sotto il cielo della politica europea, non solo italiana, era grande, a suo giudizio. Destra e sinistra ora si opponevano duramente anche dove, come nel caso della direttrice d’orchestra, non era il caso; ora si scambiavano tranquillamente elettori, programmi e linguaggi. A scambiare continuamente le tradizionali parti dello scontro politico, del resto, era ormai, secondo lui, la gente stessa, disinformata su tutto ma decisa a pretendere cose e a manifestare esigenze opposte: le automobili o il riscaldamento o i condizionatori al massimo e la riduzione dell’inquinamento; la bulimia dei consumi e la critica della produzione; la pulizia pubblica e il disordine privato; la generosità sociale e la rivolta contro lo straniero se veniva accolto nei pressi di casa. Inutile dire che uno dei punti di maggior dissenso anche con sé stesso il Politico lo raggiungeva davanti alla tremenda questione dei migranti.

 

NdR: il testo che precede è tratto (pgg. 79-82) da “Figure della crisi”, di Vittorio Coletti, pubblicato recentemente (dicembre 2023) da Il Canneto Editore

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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