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Last Stop Before Chocolate Mountain

di Mariasole Ariot

L’alternarsi di una luce desaturata e della sera che precede la notte, e ancora l’alba, e ancora la notte, con un andamento lento ritmato da principio dalla presenza di poche anime: anziani che camminano lenti, nel paesaggio contaminato e desertico, fossili di pesci di un passato remoto, pochi bambini col volto della calma. E la lentezza del paesaggio si fa metafora di un luogo altro, lontano dal troppo del brusio di un’America che si muove a velocità raddoppiata, dove tutto è rimasto nel poco del rimanente.

Last Stop Before Chocolate Mountain, di Susanna della Sala, candidato al David di Donatello 2023 e girato a Bombay Beach, nel sud della California, è storia di rinascita dalle macerie: frequentata come località di villeggiatura tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta da artisti come Frank Sinatra e i Beach Boys che qui venivano per fare vita mondana e per praticare sci d’acqua, nautica e pesca, Bombay Beach è poi stata abbandonata a causa di un disastro ambientale e sanitario. Pochi sono rimasti, pochi resistenti: outsiders. Salt sea è un lago contaminato, acque basse che dicono un’assenza, la sottrazione da una mandria umana di un luogo da cui scappare, e luogo altro in cui rifugiarsi. Dice la donna coi fiori raccolti: “Un arazzo dove tutto si trasforma in meraviglia” – perché Bombay Beach dalle ceneri delle rovine si fa luogo di attraversamento, di comunità che vive di comunione: saggia creatura in decadenza, e saggia perché alla volontà spinta di un Sapere inflazionato contrappone il conoscere e il conoscersi dell’altro.
L’immaginario si concentra nella creazione di uno specchio rotante che modifica l’imago tra altro e altro, tra un io che rinuncia al suo io per fondersi nel volto di chi sta nel retro. Non una fusione ma un intreccio del Nome, dei volti, della terra chiara che muove le mani.

Ed è là dove l’apparenza dell’immobile arriva all’occhio come luce fioca, che la potenza dell’arte si fa creazione, che da giorno a notte – in un documentario girato in quattro anni e qui contratto in un’alternanza di tempi racchiusi in una dimensione onirica – si dilata in un crescendo di frammenti di colore e il potere della sovrapposizione dei bianchi e dei neri di artisti che scoprono e ricoprono il paesaggio.
Dalle inquadrature vicine a sguardo di terreno/territorio, la macchina da presa si solleva verso i corpi dipinti, creature di legno e teatri, un pascolo dell’immaginazione, vita che vive della volontà di riscrivere la storia – la propria, quella collettiva.
L’uomo racconta un sogno: accoltellare il padre, là dove il padre ride e dice “Uccidere il passato, crescere”. Non un’uccisione del Padre in nome di una Legge da scardinare, ma in nome di una Legge dei singoli da ricreare: l’anarchia percepita dai pochi abitanti rimasti a Bombay Beach è un tentativo di ritrovare ciò che è stato scardinato nell’infanzia, ricordi di passati mortiferi o violenti. Non una fuga ma un andare, un incedere verso il desiderio.

E’ così che a Bombay Beach, dalle macerie arrivano da ogni ovunque “cantastorie” di storie disseminate: maghi, attori, pagliacci, pittori, poeti, scultori, danzatrici, musicisti. Sono anche la musica e il canto, infatti, a scandire il tempo dell’opera di Susanna della Sala : locande di voci e chitarre, prima che i “nuovi” arrivino. Voci a cappella di vecchi che danzano corde vocali e ridono la risata, quei sorrisi malinconici che non chiedono niente se non il tempo della quiete. Danze per cui non è prevista l’età ma solo corpo in movimento.

Esiste il dubbio: può chi giunge a questo luogo contaminato per inquinamento ma incontaminato per pensiero, invadere il vuoto con la struttura dei mondi da cui ci si vuole separare? Resta un punto interrogativo che – forse – trova risposta nelle ultime immagini: processioni di vecchi abitanti e degli artisti arrivati per la Biennale che procedono nelle acque basse e nelle strade nell’insieme. Dall’obiettivo che offusca alla nitidezza della scena.

E allora, come nell’arte giapponese del Kintsugi, le crepe lasciate da un umanità disperata che distrugge acque, cieli, terre e animali, che l’arte, come un sottile filo d’oro a riparare, fa della fragilità non una colpa, ma traiettoria e nume.

*per la rassegna Rovine d’America – Le città coinvolte nelle prime tappe del tour saranno a Roma (cinema Troisi), Bologna (cinema Pop Up Arlecchino) Genova (cinema Nickelodeon), Brescia (cinema Eden), Mantova (cinema Mignon), Venezia (cinema Rossini e Astra) e Bassano del Grappa (cinema Metropolis).

Nuove proiezioni si terranno a Genova, Bologna, Perugia, Torino e Mestre

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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