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Lo scrittore

di Mauro Baldrati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scrittore era seduto alla tastiera da più di quattro ore.
Fisicamente si sentiva imploso, le gambe intorpidite, stretto in una morsa di immobilità, come se il sangue scorresse con difficoltà nelle vene irrigidite. Ma non se ne occupava. Era un prezzo da pagare. Più tardi, quando il flusso di scrittura avrebbe iniziato il suo calo naturale, sarebbe uscito per una passeggiata. I muscoli avrebbero ripreso vigore, vascolarizzati dall’ossigeno che scorreva agile e purificante. Era meraviglioso camminare nel parco quando il flusso aveva fatto il suo corso. Si sentiva parte del mondo, in armonia con la natura e con se stesso. Era in pace, aveva dato, con generosità.
Intanto le dita scorrevano leggere sulla tastiera. Era tattile il flusso, come una corrente alternata che viaggiava lungo un frattale speciale di energia creativa. E questa energia, dolce e brutale, rabbiosa e tenace, sgorgava direttamente da quell’abisso misterioso e imprevedibile chiamato anima.
Il testo usciva scorrevole e deciso, lui doveva assecondarlo, guidarlo. Aveva in mente quella frase di Michelangelo: il Mosè era già nel blocco di marmo, lui doveva solo liberarlo dalle scorie, togliere il superfluo.
Così era il suo romanzo. Si era formato autonomamente nella sua testa e nel suo cuore. Era il mistero della creazione. Gli sembrava addirittura che viaggiasse per conto suo, mentre i personaggi agivano, parlavano, ridevano e piangevano in un multiverso parallelo. Avevano solo bisogno che qualcuno trasformasse la loro voce segreta in scrittura, portandola alla luce da quell’antro oscuro e selvaggio.
Qualcuno. Lui. Lo scrittore.
Il suo era un romanzo che avrebbe scosso la letteratura dalle fondamenta. Una scrittura spontanea e al tempo stesso perfettamente controllata. Una lingua scavata dall’interno, spezzata, risorta. Nessuno aveva mai affrontato le dinamiche familiari con quell’approccio: un mix di affettività e di furia, di amore e odio, il viaggio pericoloso di uno straniero in un territorio inesplorato. Già immaginava le recensioni: entusiaste, con gran profusione di aggettivi, e la finale al Premio Strega. Sì, sarebbe stato il suo giusto, meritato epilogo. Finalmente gli sarebbe stato dato ciò che gli spettava, dopo anni di oscurità, di gavetta frustrante, mentre i mediocri scribacchini specializzati in piaggeria si esibivano supponenti in un successo drogato nei teatrini delle mafie editoriali.
Decine, centinaia di scrittori che languivano nei sottoboschi delle solite compagnie di giro gli sarebbero stati grati. Finalmente veniva premiato il vero talento. E lui avrebbe parlato chiaro nel discorso di premiazione allo Strega. C’era bisogno di libertà, e di coraggio in quel mondo così limitato e pavido. Intanto tutti quegli editori distratti che non avevano mai risposto alle sue mail l’avrebbero ascoltato con lo sguardo basso. Non sarebbe stato aggressivo o violento; no, avrebbe utilizzato una forma di cortesia spiazzante, mentre metteva in ridicolo quella finta letteratura fatta di libri tutti uguali e ruffiani.
Una rivoluzione. Una rivoluzione artistica, questo avrebbe innescato, finalmente.
D’un tratto nel suo monolocale, vuoto e silenzioso a parte la musica classica a basso volume con la quale era uso scrivere, entrò un suono potente, una cacofonia di grida, tamburi e fischietti. Sorpreso e un po’ contrariato si alzò, cercando di sciogliere le giunture intorpidite, e andò alla finestra. Laggiù, nello slargo che si apriva in fondo alla via Manzoni, stava passando un corteo. Persone camminavano lentamente reggendo bandiere, alcuni striscioni, mentre quella specie di ruggito si alzava e si espandeva il tutte le direzioni. Si sentì improvvisamente stanco. Chi erano quelle persone, cosa chiedevano, perché erano così rumorose? Era incapace di elaborare un pensiero, di cercare una spiegazione. Quel mondo là fuori portava con sé una forma di volgarità che confliggeva col suo mondo, un macrocosmo limitato monotematico che minacciava il suo microcosmo, libero di volare in tutte le direzioni.
Non gli interessava criticare, che ognuno seguisse la propria strada. Quella moltitudine non contava nulla, non significava nulla per lui. Non era interessato al suo linguaggio povero, alla sua mancanza di ricerca estetica.
Si staccò dalla finestra, con una sorta di fatica. Si sentiva disturbato, addirittura minacciato da quell’intrusione. Non sapeva nulla di politica. La politica gli causava una strana reazione, una specie di paura. Era greve, faticosa. Era antiartisitica. A/creativa. E quell’ossessione di cambiare il mondo, di “opporsi”. Nulla cambiava. Non serviva a nulla opporsi. In ogni caso non lo interessava. Non aveva abbastanza spazio mentale a disposizione.
Tornò alla tastiera, piuttosto scombussolato. Gli sembrava che il flusso si fosse interrotto, e questo gli causava rabbia. Inspirò a fondo. Rilesse il testo che aveva appena scritto. Subito rientrò in connessione. Ritrovò i personaggi, sua sorella, alla quale stava lavorando con accanimento. Un personaggio con mille sfaccettature, pericoloso da gestire perché poteva sfuggire di mano e diventare improvvisamente prevedibile. Il suo narratore (e per l’ennesima volta si chiese: era lui il narratore? Sorrise. Durante il discorso allo Strega avrebbe parlato del problema del narratore, con parole nuove, non codificate) si rapportava con lei in modo complesso, sofferto, aggressivo, tenero, colpevole, sfacciato, peccaminoso.
Poi lo scoppio, e il tremito. Il pavimento tremò, con un ruggito cavernoso.
Un terremoto? Avvertì anche uno strano odore aspro, malevolo.
Si alzò di nuovo e andò alla finestra. Il corteo era passato, non si sentivano più i fischietti e le grida. Ma l’aria era strana. Sembrava odorare di bruciato.
Guardò verso l’orizzonte: al di sopra dello skyline dei palazzi che lo circondavano, laggiù, dove iniziava la periferia, coi capannoni, i piazzali, stava accadendo qualcosa. Una forma violacea, convulsa, stava emergendo dalla terra, e cresceva, assumeva le sembianze di un enorme fungo. Intorno gli edifici erano scomparsi, disintegrati sembrava. O vaporizzati.
Sbalordito, confuso, stranito, cercò di guardare meglio, aguzzando gli occhi affaticati dalla lunga fissità sui piccoli caratteri del monitor. Il fungo aumentava ancora di dimensioni. Sembrava vivo.
Un tornado. Sì, doveva essere una di quelle trombe d’aria di cui parlava spesso la televisione. Per l’emergenza climatica, dicevano. Stavano accadendo cose nuove, cose ignote. Provò un improvviso brivido di paura.
Chiuse la finestra, accertandosi che il battente fosse correttamente sigillato, lanciò un’ultima occhiata nervosa a quel fenomeno della natura impazzita e tornò alla tastiera.
Il flusso era ancora attivo, per fortuna.

(NdR: l’immagine: Louis Soutter, “Le culte”, 1942, Wikiart)

 

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1 commento

  1. Il premio! Fosse anche il maximus Maximo, la mummificazione svedese, a che cosa servirebbe? A scavarsi la Foss, e a scavarla alla società di cui un individuo, e tanto più il suo “segno”, vuole dire.
    Non credo ai demiurghi letterari, ma mi vedo desolato partecipare timido a qualche poetry slam dove la battuta fa dei testi un abominio.
    Proprio qui sta il punto cruciale, la funzione civile della letteratura. Poi uno scrittore può scegliere di essere del tutto intimista, è una scelta che va sempre rispettata come ogni scelta individuale, la libertà di espressione è sacra.
    Ma oggi, con il movimento delle nuove destre, e sono estreme, con Macron che vuole portare carne da cannone o drone al fronte, con il nostro caro ministro della Difesa che è un mercante d’armi, come si può fare letteratura d’evasione, e intendo vecchie minestre sulla povertà contadina per chi ha la colf, Armineute che non sono certo argonauti, istantanee instagrammiane di una nazione che sfoga il proprio elogium moriae nei ristoranti?
    Perdonate questa via polemica, sono stufo dei morti viventi del commissario Ricciardi, perché i morti della nostra storia erano veri.
    Non è la riscoperta di un vecchio concetto di engagement, che ha fatto il suo tempo, che rimpiango.
    Spero siano tanti, come Scurati, come Saviano, a dire e fare, Il fascismo lo combatto con la penna perché è l’unica arma che non sa usare.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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