Oltre Tony Effe: sottomissione, liberazione, ambiguità degli immaginari
Sulla stupidità della supposta “censura” a Tony Effe si sono già espressi in molti ( anche se sarebbe meglio parlare di scelta di esclusione). Approfitto però di un post del giornalista Riccardo Canaletti per toccare un’altra questione; Canaletti sottolineava la “giustezza” di censurare Tony Effe a partire da alcuni versi a lui attribuiti (in “DM”, risalenti in realtà al periodo della Dark Polo Gang) che toccano un immaginario ambiguo: “mettere il guinzaglio”, “serve una museruola”, etc.
Ebbene: allontanandoci da Tony Effe, l’immaginario di sottomissione non sempre ha un unico orientamento, e quindi queste frasi non sono esclusivamente demoniache (come invece ho letto in diversi commenti pubblici). Nella mia adolescenza, uno dei film che mi ha più segnato è stato il “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, che continuo a rivendicare come un’influenza imprescindibile proprio nell’ottica dell’espressione del desiderio, sopratutto queer e impuro.
L’immaginario sadomasochistico per molte è stato un vettore di liberazione : dalla mistica di Angela da Foligno e Maria Maddalena de’ Pazzi fino all’azionismo viennese, da “La revoca dell’editto di Nantes” a “Roberta Stasera” di Pierre Klossowski, da “Elle” di Paul Verhoeven fino ai versi di Patrizia Valduga, ugualmente molto contestati dopo un recente intervento di Edoardo Prati( «io voglio che tu voglia che io non voglia», scriveva in “Poesie erotiche”). E questo vale anche (sopratutto) fuori dall’ambito “intellettuale”.
Detto francamente: io di guinzagli e collari, consensualmente, ne ho indossati. E ho attraversato a “corpo” immaginari di liberazione che passavano per tensioni opposte.
Quello che si concede alla letteratura – che esistano un narratore inaffidabile, una persona autoriale, maschere contraddittorie, contesti di interpretazione, allegorie ecc – non lo si concede tanto facilmente alla musica pop. Si tratta di una mera mancanza di strumenti critici? (prudentemente taciuti dai media tradizionali e non). Di un mix di narcisismo social e conservatorismo d’antan che pretende rappresentazioni moralmente ineccepibili? E di stilare un confine netto, poliziescamente sorvegliato, tra pubblico e privato, tra cultura ‘alta’ e ‘bassa’? In ogni caso, la riflessione che proponi, Giorgio, è tanto complessa quanto la sua ostensione delicata, e te ne ringrazio, perché ci dice qualcosa sul bisogno di lavorare sull’intimo intreccio di linguaggi/o e desideri/o che non può risolversi solo nel dire le cose socialmente ammesse, convenzionalmente igienizzate.
Grazie per l’ascolto, che non si risolve in una riposta univoca
Mi chiedo se per ricordare che “l’immaginario di sottomissione non sempre ha un unico orientamento”, si debba passare per Tony Effe. “Oltre Tony Effe”. In realtà Giorgiomaria tutto cio’ di cui tu parli sta “prima” di Tony Effe, e in un’altra categoria, non tanto estetica, ma proprio ideologica. Volendo pescare nel pop, già un David Bowie potrebbe essere sufficente, per restare moderati negli esempi. Io non sono né un ascoltatore di trap né tantomeno un conoscitore. Ma se pesco a caso un video di Toni Effe, non ci vedo tanto queer, ma la vecchissima matrice del ganstarap, con deltoidi, tatuaggi, mani sul pacco, e donne prominenti che spingono in fuori il culo (donne che se nere è meglio, ma per fedeltà probabilmente ai modelli afroamericani). Tutto questo ad esempio in https://www.youtube.com/watch?v=3cn6wQaLkeQ. Ma poi per carità avrà fatto altri video klossowskiani che non conosco.
Detto questo, l’esclusione di un Toni Effe dal concertone di Capodanno è si un tema interessante, ma lo è – a mio parere – non per il dubbio carattere liberatorio della sua arte, ma per l’inguaribile ipocrisia italiana, che da sempre confonde gretto perbenismo con la morale. Basti ricordarsi della vicenda del dipinto di Tiepolo che Berlusconi si fece piazzare come sfondo per la sala stampa di Palazzo Chigi. Un dipinto (La verità Svelata dal tempo) su cui intervennero subito premurosi e devoti pennelli per mascherare un seno nudo di donna e per far sparire un ombelico in vista. Un seno e un ombelico che stavano alle spalle del gran consumatore di escort, che il suo fedele amico Tarantini gli procurava, come una sentenza definitiva ha confermato. E’ davvero il perbenismo italiano mescolato alla peggiore amoralità che mi sembrerebbe tema di riflessione ancora attuale, no?
Certo: perbenismo e ipocrisia costante. In quanto a Tony Effe: non è il punto, ma un sintomo da cui partire per discutere l’ambiguità della finzione, anche quella che lui abita con tutto l’immaginario che hai evocato (e che proviene da altrove). Il queer non è in Tony Effe, ma nella generosità e nell’avventura interpretativa con cui si passa in rassegna ogni materiale, per quanto radioattivo.
Ripeto, sono scarso in filologia di Tony Effe, ma da quel poco che ho visto mi sembra che finzione ci sia senz’altro, ma che essa sia organizzata intorno a immaginari ben codificati e che ben poco hanno a che fare con il queer (che se non altro rinvia, almeno mi sembra, al contrario di un’identità ben codificata, di maschio vincitore). E quindi mi sfugge l’interesse di 1) “interpretarlo” per insufflargli un’ambiguità che è ben poco presente nella postura del personaggio e 2) portarselo in un territorio che gli è estraneo.
La sottomissione dal punto di vista di chi sottomette e la sottomissione dal punto di vista di chi si sottomette forse non sono esattamente la stessa cosa, e non è sempre scontato che la prima implichi la seconda
Finalmente si è centrato il punto sulla questione!
Ieri sera ho letto questo post insieme a tutti i commenti correlati su FB. L’espressione del desiderio più o meno masochistico mi sembra c’entri poco o nulla: il principale interesse antropologico del successo di brani musicali del genere sta nel rappresentare l’ennesima conferma di una radicata cultura patriarcale, propagatrice di modelli relazionali uomo/donna quasi sempre uguali a sé stessi – i cui retaggi toccano, in misura maggiore o minore, ognuno di noi. Per quanto mi riguarda, la parola d’ordine è decostruire (certosinamente), rifuggendo le semplificazioni e invitando alla complessità.
Dunque ben venga ricordare l’ambiguità intrinseca in ogni forma d’arte, che penso sia spesso riconosciuta anche da chi ascolta tony effe – è molto più difficile, semmai, tenere a mente che anche ogni realtà (non solo ogni arte) contiene una parte di ambiguità, e che la verità è sempre plurale.
Nei commenti Giorgio centrava un punto forse importante, e cioè che parte della cultura patriarcale risiede anche in una netta distinzione tra cultura alta e cultura bassa: distinzione che di certo appartiene alla formazione della mia generazione e di quelle precedenti, ma che costituisce oggi un ostacolo grosso, mi pare, a qualsiasi forma di condivisione con adolescenti o ventenni. La scala di valori proposta, precostituita, viene rifiutata a priori: in pratica non ha (quasi) nessun senso che io dica a lezione che Proust è meglio di Valérie Perrin, l’affermazione cadrebbe nel vuoto – e non perché io non sia autorevole o non lo sia Proust, ma perché ciascuno si crea la sua scala di valori. La cosa più intelligente che posso fare è cercare di mostrare la bellezza di Proust.
Lo stesso vale per tony effe e Chopin: non ha più nessun senso (semmai l’abbia avuto) dire, a chi ascolta il primo, che il secondo è meglio. Fin qui banalità, ma per farla breve: la speranza è che questo rifiuto di una scala di valori precostituita, con conseguente nuova mappatura di un proprio territorio di riferimenti, sia rivoluzionario; che questo slancio per l’attraversamento di plurimi universi porti con sé anche il rovesciamento della cultura patriarcale, razzista e ignorante delle disuguaglianze di classe; che l’orizzontalità della scala valoriale (tony effe insieme a Chopin) non si riduca a superficialità, a mancanza di approfondimento, a rinuncia alla complessità.
P.S.:
Di desiderio si parla non poco, ma – e qui dico davvero una cosa da vecchia – la vita virtuale allontana sempre di più dalla vita dei corpi, dall’esperienza fisica del desiderio (che è anche rischiosa, faticosa, potenzialmente fallimentare; che pone il soggetto in condizione di vulnerabilità). Una per tutte: il proliferare di app di incontri fra persone che poi spesso scelgono di *non* incontrarsi: https://che-fare.com/almanacco/cultura/letteratura/le-postromantiche-love-me-tinder/.
A me, che sono vecchia, i corpi continuano a piacere molto, ma riconosco che l’orizzonte del desiderio sia in mutamento; forse sta andando verso la sua forma primigenia, che è astrazione, mancanza.
Un altro passo per la patenta da intellettuale. Dài, tra un po’ invitano anche te da Cattelan.
antonio iannone
Cara Ornella, intervengo su due punti del tuo commento.
“cioè che parte della cultura patriarcale risiede anche in una netta distinzione tra cultura alta e cultura bassa:”
Va bene, ma questa storicamente è un’attitudine intelletttuale che si è generalizzata almeno dal post-moderno in poi, tra gli anni Ottanta e Novanta. Ma già Eco, per dire, aveva cominciato ad aprire la strada negli anni Sessanta. Questa attitudine è ovviamente presente nella creazione (io stesso ho scritto su 2001 Odissea nello spazio & sul Pianeta delle scimmie, ad esempio, ma Costa già utilizzava l’uomo invisibile nei suoi The Complete Films, ecc. ecc.); sul piano delle critica, pero’, questa stessa attitudine è più controversa. Mi spiego: in anni molto più vicini a noi, la cancellazione della divisione tra cultura alta e cultura bassa ha voluto in realtà dire: tutto cio’ che funziona come prodotto culturale all’interno dell’industria culturale è comunque buono (ha dalla propria parte il numero dei lettori, spettatori, ecc., ha dalla propria parte “l’universalità” del messaggio, che quindi risponde “alla spirito dei tempi”); tutto cio’ che NON funziona come prodotto (di largo consumo) è sospetto (di elitismo, di vetero-avanguardismo, di vetero-modernismo, ecc.). Questo fa si che non solo la critica letteraria, ma anche la critica dell’ideologia, è del tutto fuori gioco. Bene. Questo per me è un fattore che non è disconnesso con la globale rivoluzione conservatrice a cui stiamo assistendo sul piano politico. Ma tu sottolinei un altro aspetto, che è ancora più importante: “La scala di valori proposta, precostituita, viene rifiutata a priori: in pratica non ha (quasi) nessun senso che io dica a lezione che Proust è meglio di Valérie Perrin, l’affermazione cadrebbe nel vuoto – e non perché io non sia autorevole o non lo sia Proust, ma perché ciascuno si crea la sua scala di valori. La cosa più intelligente che posso fare è cercare di mostrare la bellezza di Proust.”
“La scala di valori, precostituita, viene rifiutata a priori”. Viene rifiutata, per essere più liberamente e criticamente, dal giovane, ricostituita. Certo. Meno male. Ma la trasmissione in sé è antropologicamente indispensabile, sia per chi trasmette sia per chi riceve. Non solo, ma non è neutra. Chi trasmette già sceglie quello che vuole trasmettere, e se ci tiene alla trasmissione anche si occuperà come ben dici, di trovare “qualche” terreno di condivisione. Altrimenti non è più li per trasmettere, ma dare alle giovani generazioni quello che già hanno. Avete già Tony Effe? E’ quello che volete? Allora ve lo diamo, cosi non rischiamo non solo di imporvi qualcosa, ma anche di farvi fare il lavoro critico consistente nel rifiutare quello che vi diamo. Che vuol dire: a vent’anni, vi trattiamo come se ne aveste ancora dodici. E vi trasformiamo da studenti a clienti, che come tali hanno sempre ragione. (Non è quello che dici tu né Cornelio: ma è un problema insito nella cancellazione sistematica di una gerarchia di valori estetici e conoscitivi presenti nelle opere).
Introduci poi il punto del desiderio. Anche qui ho un’osservazione. Scrivi: “e qui dico davvero una cosa da vecchia – la vita virtuale allontana sempre di più dalla vita dei corpi”. Ecco, io dico: profondo no, rispetto pero’ non al contenuto ma alla formulazione. Mi ricorda ovviamente tutte quelle clausole ormai molto di moda, “io da boomer”, ecc. Per me quello che dici non è una sorta di “fissa” generazionale, ma è un partito preso ideologico e in qualche modo “universalistico” (si, lo scrivo senza che mi compaia una svastica in fronte :), che per altro io condivido interamente, e che sono pronto a difendere contro dileggi e critiche. D’altra parte, chi avesse paura di dileggi e rifiuti per le posizioni che sostiena, ha una chiara via di fuga metodologica: il conformismo, parlare con la voce dei tempi, quale essa sia. Ma non credo che sia la nostra preoccupazione.
Insomma quello che tu dici è legato a una concezione globale e politica della relazione tra le persone, non a un’abitudine – come un’altra – legata accidentalmente all’età. “All’epoca di mio nonno si sniffava il tabacco: quello si che era un modo autentico di conusmarlo, mica queste sigarette industriali di oggi…” No. Non è questo tipo di enunciato che stiamo formulando quando diciamo che preferiamo i corpi (e il caso) alla pseudo-programmazione digitale.
Caro Andrea,
grazie di ampliare la discussione, anche raffinandola; sono temi di cui c’è da parlare per ore.
Fai bene a precisare il potenziale cambiamento di segno nell’appiattimento del valore culturale, e il rischio di trattare gli studenti come clienti (quest’ultimo, poi, allo stato attuale è un tema cruciale per tanti motivi contingenti). Ho ben presente il lavoro di Eco su queste questioni e mi sembra che alla fine diciamo la stessa cosa: rifiutare i valori precostituiti va benissimo, a patto di farlo criticamente e non ciecamente. Cioè: critico qualsiasi cosa, purché mi prenda la briga, prima, di conoscerla. È su questo che mi viene talvolta un briciolo di pessimismo, che cerco in ogni modo di tenere a freno, perché l’influenza dell’ideologia neoliberista arriva fino a veicolare l’idea che si possa prendere solo ciò che interessa, comprare (metaforicamente e non) solo ciò che piace, senza storicizzare: dunque l’ultimo pamphlet femminista mi appare brillante solo perché è il primo o secondo che leggo, senza sapere, se non per sentito dire, che sono esistite Beauvoir, Wittig ecc., e senza che questo mi faccia sentire la necessità (o venir voglia) di leggerle; ma soprattutto mi trincero nel territorio di riferimenti in cui mi riconosco, rischiando di alienarmi e, soprattutto, rifiutando la discussione con chi la pensa diversamente, assumendo così una postura politicamente nulla. (I social, poi, lo vediamo tutti i giorni, non fanno che polarizzare sterilmente ogni dibattito, generando spesso modi di esprimersi violenti per difesa o per reazione).
Riguardo alla precisazione sul desiderio, hai ragione, certo: il mio definirmi “vecchia” era solo una minuscola provocazione (perlopiù conseguenza di giornate di festa passate con adolescenti e ottenni!) Invece è una questione importante, che interpretare sul piano generazionale finisce per sminuire.
Tuttavia: come pensare che “la concezione globale e politica della relazione tra le persone” non sia condizionata dalla maniera in cui oggi usiamo la tecnologia, e che quindi chi è nato con uno schermo in mano abbia una percezione del mondo e dell’esperienza sensoriale almeno in parte diversa da chi si è formato perlopiù senza? Faccio un esempio collaterale: oggi posso farmi un’idea abbastanza precisa di un certo pittore, conoscerne vita e opere, restandomene nella mia cameretta, senza necessità di andare a una mostra, senza portare il mio corpo davanti alla tela, percepire la consistenza o l’odore dei materiali, essere urtata da un visitatore mentre sono assorta nella contemplazione o mentre sto pensando che mi fa schifo, senza sentire il commento acuto o demenziale del vicino, eccetera. È una ricchezza poter conoscere così facilmente cose magari lontane, esposte in musei oltreoceano eccetera, ma vogliamo davvero dire che l’abitudine alla fruizione per procura non intacca minimamente il mio rapporto con la fruizione tramite il corpo, in presa diretta?
Ornella, scrivi:
“Tuttavia: come pensare che “la concezione globale e politica della relazione tra le persone” non sia condizionata dalla maniera in cui oggi usiamo la tecnologia, e che quindi chi è nato con uno schermo in mano abbia una percezione del mondo e dell’esperienza sensoriale almeno in parte diversa da chi si è formato perlopiù senza?”
Sacrosanto. Si tratta di un elemento che, nello sviluppare il mio ragionamento, avevo tralasciato. Anche qui in realtà torna in gioco la questione della trasmissione. Che cosa puo’ costituire, nell’esperienza delle generazioni che ci precedeono, un’esperienza “universalizzabile”, e non una semplice particolarità del passato, a cui gente più vecchia di noi è affezionata? Ebbene, noi sappiamo che ogni generazione che ci ha preceduto ci ha trasmesso qualcosa di indispensabile, nel costruire la nostra percezione del mondo. I nonni hanno trasmesso l’orrore e lo schifo della guerra (e in molti casi del fascismo). Certi genitori hanno trasmesso l’importanza di rimettere in discussione valori e forme di vita “ereditate” (anche questa è un’eredità vera e propria). Ecco, noi siamo responsabili di trasmettere ai più giovani questa fetta di esperienza (l’incontro tra corpi è molto più ricco e sano, che l’incontro via schermi), che in parte a loro manca, e che noi abbiamo capito quanto sia importante.
Leggo con interesse questo scambio tra Ornella e Andrea; vorrei intervenire su molti punti, ma per il momento mi sembra, proprio generazionalmente, partire dall’ultimo: «noi siamo responsabili di trasmettere ai più giovani questa fetta di esperienza (l’incontro tra corpi è molto più ricco e sano, che l’incontro via schermi), che in parte a loro manca, e che noi abbiamo capito quanto sia importante». Ecco, qui ci vedo del paternalismo, ancora; e non tanto nel tono, quanto piuttosto nell’assunto: «l’incontro tra corpi è molto più ricco e sano» è un’affermazione assoluta, e per me esotica. Non è più ricco: è qualitativamente diverso. Che Internet non offra un paesaggio sensorio straordinario e carnale è un mito da decostruire (Valentina Tanni ci ha scritto un libro bellissimo, Exit Reality; io ci ho provato qui: https://www.iltascabile.com/linguaggi/il-social-network-dei-morti/). Poi, sull’ordine preservativo e la paura del contatto-contagio, si potrebbe parlare a lungo: ma la questione non è dovuta alla mancanza di trasmissione, ma semmai all’eccesso (sempre da ristampare “Nemesi medica. L’espropriazione della salute”, anche solo per archeologia). Come sai Andrea, io faccio teatro e poesia per il teatro, eppure venero l’incontro tra schermi; lo trovo una delle avventure più ricche della modernità.
Caro Giorgiomaria ti ringrazio di avermi linkato il tuo saggio sul tascabile, ti ringrazio anche perché non avro’ complessi a linkarti a mia volta un mio intervento: https://www.nazioneindiana.com/2021/11/03/umanisti-del-nuovo-secolo-e-sottomissione-tecnologica/ E’ un polpettone, ma non meno polpettone (in senso calorico-contenutistico) del tuo intervento. Ovviamente i bersagli di questi due intreventi non sono gli stessi, ma è questo che è in parte fondamentale. Io la chiamo: l’ampiezza di compasso. Per esplorare un fenomeno, quanto apri il compasso? Cosa fai entrare nella visuale?
Riguardo al tuo pezzo, sarebbe scortese tentare una risposta qui in poche righe, ma per me è stato davvero utile leggerlo.Quello che qui metterei in evidenza è l’approccio estetico-artistico che tu hai ai fenomeni di rete legati alle nuove tecnologie, e non a caso il tuo pezzo è una miniera di riferimenti legati a questo sfondo, a partire dal cinema sperimentale, ma si potrebbe aggiungere la video arte, ecc. Non a caso ricorre spesso il nome di Goldsmith, che io in realtà considero in parte un incantatore di umanisti spaventati. Nella tua apertura di compasso ci stanno un sacco di cose interessanti per un artista, ma non tutti siamo artisti, una fetta importante di noi è costituita da lavoratori-consumatori. Quindi le questioni relative all’educazione, all’impatto dei nuovi media sul pubblico giovanissimo o giovane, le questioni relative alle strategie d’azienda di queste multinazionali capitalistiche, del peso politico che hanno, ecc. Tutte le questioni più sociali e politiche in senso stretto sono assenti dal tuo discorso. Qui si situano le differenze di prospettiva e i disaccordi, se vuoi. Naturalmente i difensori dell’attuale funzionamento delle nuove tecnologie hanno tappeti rossi davanti, ancor più se vengono dal mondo umanistico e dell’arte. Avete il vento in poppa. Insomma, non guastate la festa a nessuno (sul versante sociale e politico). Ovviamente tutto cio’, lo ripeto, esige un discorso più articolato (per questo motivo ho linkato il mio pezzo, per confrontare non tanto l’interesse dei singoli interventi – il tuo è interessantissimo – ma l’apertura di compasso scelta).
Tu dici: attenzione, sei paternalistico e perentorio, nel formulare la supremazia dei corpi sulle immagini dei corpi. Allora, vorrei precisare: non è che io difendo la maggiore ricchezza dell’incontro corporeo rispetto a quello incentrato sulla virtualità, perché voglio “proteggere” le giovani generazioni. No, io difendo questa posizione “per me”, innanzitutto. Ma non per un mio fatto idiosincratico, la mia difesa è politica e riguarda l’idea di società in cui vorrei continuare a vivere. Tu puoi ridurre questo disaccordo a un fatto generazionale, ma per me è un fatto politico.