Babilonia
di Gianni Biondillo
Sembra un’altra Milano, eppure sono passati solo dieci anni. Quella del 2014 era, a tutti gli effetti, il più grande cantiere d’Europa, primato scippato a Berlino alla fine del secolo scorso. Nella corsa contro al tempo per arrivare all’inaugurazione di Expo2015, non c’era angolo della città che non fosse un cantiere, popolato di “umarelli”, fuori dalle recinzioni di cantiere, con le mani dietro la schiena a disquisire con gli operai (pazientissimi) su come gettare il cemento o eseguire un finitura. Tutto era Expo, in quegli anni, per i milanesi. Anche cose che con Expo non c’entravano nulla. Ma in fondo non era sbagliato pensarlo. Dopo il sonno post-tangentopoli durato un decennio, il capitale mondiale aveva spostato lo sguardo sulla città meneghina: Expo, insomma, era una scusa, una operazione di marketing urbano per rimettere tutto in moto. Per “estrarre” denaro dall’edilizia. E fra opere di maggior o minore qualità, fra grandi cantieri e cantieri smisurati, in attesa di riattivare anche gli scali ferroviari, ecco spuntare fuori il Bosco Verticale. Progetto vincente, inutile negarlo, a partire dalla sua comunicazione. Architettura che si fa claim, slogan, motto.
Onore ai tre progettisti. Ché, è bene ricordarlo, sono tre. Altrimenti qui facciamo come con De André, al quale assegniamo la scrittura di tutte le sue canzoni, quando invece le ha quasi tutte scritte con altri autori colpevolmente dimenticati. E parlo di signor autori, da De Gregori a Bubola, da Pagani a Fossati. Quindi, fuori i nomi: Stefano Boeri, Gianandrea Barreca, Giovanni La Varra.
S’è detto tutto e il contrario di tutto, delle due torri. Io per primo. Pochi progetti hanno avuto laudatori e critici, followers e haters, come il Bosco Verticale. E la cosa in fondo interessante è che hanno ragione sia gli uni che gli altri: è un progetto che guarda alla biodiversità, al rapporto del verde in città, innovativo, visionario; sono case per ricchi, per chi se lo può permettere, è speculazione fondiaria; No è una sperimentazione urbana, un nuovo approccio ecologico, un contributo alla qualità dell’aria; figuriamoci, è marketing urbano, greenwashing, gentrificazione! Da quanto tempo un’architettura non scatenava polemiche così accese?
Chi aveva occhio aveva compreso da subito che sarebbe diventato un marcatore territoriale, un oggetto identitario per la metropoli. Gianni Amelio, ad esempio, gira le prime scene del suo L’intrepido, nel cantiere del Bosco Verticale, dove si vede Antonio Albanese che posa un albero dentro un’enorme vasca catramata. Il film esce nel 2013, il cantiere non era ancora terminato, ma già se ne sentiva l’iconicità.
I tre architetti, e loro lo sanno per primi, non hanno inventato niente. Senza bisogno di andare indietro nel tempo (dai giardini di Babilonia alla torre medievale del Guinigi a Lucca), a loro è bastato fermarsi davanti alla facciata verde che orna l’edificio in via Quadronno degli architetti Mangiarotti e Morassutti per capire che esisteva un modo diverso di pensare gli edifici a torre che non fosse quello delirante che da decenni imperversa in tutto il mondo, fatto di pareti vetrate, riflettenti, dove persino aprire una finestra è vietato. Piaccia o non piaccia, il progetto ha aperto una discussione importante, non solo nella disciplina. Come dobbiamo (ri)pensare le nostre città, di fronte alle sfide dei cambiamenti climatici? Il Bosco Verticale, a ben vedere, è un manifesto. Ha una forza simbolica che travalica quella estetica. Ci dice: le città possono, anzi devono, convivere con la natura. Per la pura e semplice sopravvivenza della specie, elemento centrale di ogni progettazione urbana.
È una nuova urbanistica quella che si impone. Che progetta la restituzione della permeabilità del suolo o la mobilità dolce fatta di corridoi verdi che collegano parchi e giardini. Parchi non più solo luogo di svago, ma spazi di produzione alimentare a chilometro zero (parchi edibili). Un’urbanistica che abbatte le isole di calore urbane rendendo i tetti coltivabili e trasformando le barriere infrastrutturali in facciate verdi. Che impianta milioni di alberi. Foreste metropolitane, da gestire come nel medioevo, capaci di essere produttive in termini di materie prime. Un’urbanistica che è capace di lasciare “a maggese” parti del territorio, mitigando la dannosa presenza umana e qualificando la resilienza dell’ecosistema.
Oggi, a dieci anni di distanza, con tanto di pandemia che ci ha mostrato tutte le nostre difficoltà relazionali, possiamo dire che l’esperimento del Bosco Verticale, per la sua stessa presenza, ha vinto? Purtroppo no. Alla fine è andata come sappiamo. Il mercato immobiliare ha reso la città sempre più attrattiva solo per chi poteva permetterselo. È l’ecologia sociale la grande sconfitta di questa città. Volevamo una città esclusiva, è diventata una città escludente.
(pubblicato precedentemente su La Repubblica-Milano il 3 dicembre 2024)