La parte per il (quasi) tutto. I sintomi di Umberto Fiori
di Matteo Cristiano
Umberto Fiori è senza dubbio uno dei poeti più importanti degli ultimi decenni di poesia italiana. Esordiente nel 1986 con Case, è uno dei maestri di poesia che esce dal Novecento e cerca di rifondarsi, dopo il crollo del canone, del campo poetico e dell’istituzione poetica. L’Oscar Mondadori del 2014 ne celebra l’opera, raccogliendo tutta la produzione fino a quell’anno e anticipando un lungo romanzo in versi che uscirà solo nel 2019: Il Conoscente. Seguono due volumi di saggi e l’Autoritratto automatico, l’ultimo libro di versi di Fiori. Queste ultime opere in versi sono raccolte da Garzanti, insieme a tutta la produzione precedente, che pubblica Tutte le poesie nel settembre del 2024. Ora Fiori sta nel pantheon dei Grandi Libri garzantiani insieme a Rosselli, Luzi, Caproni, Campana, Betocchi. A parte la mediocrità fisica di queste edizioni Garzanti siamo ben content* di vedere la consacrazione finale del nostro Fiori, che così in sordina, con le sue poche bravure, si è fatto spazio libro dopo libro nel canone contemporaneo, interpretando magistralmente lo zeitgeist. Al suo Conoscente ho dedicato la mia tesi di laurea magistrale, e non posso dire di essermi annoiato a contare le sillabe metriche e a sistematizzare il ritmo della poesia di Fiori. Quello che mi ha divertito di meno, però, è stato considerare la traiettoria di Umberto Fiori, storicizzandolo. L’idea che mi sono fatto dopo anni di riflessione continua a confermarsi ad ogni occasione. La storia poetica e intellettuale di Umberto Fiori può essere considerata la metafora della storia intellettuale italiana degli ultimi cinquant’anni. Vediamo perché.
Umberto Fiori è stato famoso già negli anni Settanta, quando era diventato la voce e la penna degli StormySix, un gruppo rock-progressive attivo dai primissimi anni Settanta e legato alla controcultura politica sviluppata in seno al ’68 studentesco e operaio. Stalingrado, La Fabbrica, Rossa Palestina, Dante di Nanni, canzoni ormai popolari della cultura politica, canzoni che la Bandabardò può suonare sul palco del Collettivo di Fabbrica exGKN. Poi il gruppo si è sciolto, ma prima che si sciogliesse il gruppo era già la cultura politica che andava sciogliendosi. Dal ’68, per più di dieci anni, la società civile italiana era invasa dai temi politici, dall’attivismo, dalla prassi. La politica era direttamente implicata nella quotidianità delle persone: diritti civili, rivoluzione, partito comunista ecc, tutta una mitologia (come la consideriamo ora) che tuttavia era condivisa dal basso, dalla base. Così come era successo nel 1943, l’ondata di contestazioni del 1968 e dintorni aveva imposto la parola d’ordine del politico e gli stessi intellettuali, forse soprattutto loro, erano implicati in questo discorso. La cultura, i mezzi critici e artistici erano al servizio della causa, di quel “noi” che il socialismo si immagina(va).
Poi, sappiamo come sono andate le cose (ma forse non lo sappiamo ancora così bene): tardo capitalismo, postmodernismo, esclusione delle utopie, stigmatizzazione della cultura di sinistra, regressione, individualismo, consumismo di massa, washing vario. Come sempre succede, il capitalismo era riuscito ad addomesticare le contestazioni, a screditare tutte quelle posizioni che non si adattassero al compromesso che andava imponendosi al mondo occidentale: puoi fare la sinistra solo se non sei anticapitalista, su tutto il resto puoi rompere (decorosamente) le palle. Idee, riflessioni, speranze, utopie messe da parte, crollate insieme all’URSS e shakerate in un ottimo cocktail martini in salsa berlusconiana. Se già Gramsci si ricordava dell’implicita ipocrisia degli intellettuali italiani, non ci stupisce vedere come poi ci si sia irrimediabilmente accucciati. Gli anni Ottanta sono stati il liberi tutti della politica: la responsabilità individuale dell’elettore è scomparsa, il distacco tra politica istituzionale e quotidiana espressione politica della cittadinanza fattosi così grande da dover lanciare una teleferica kilometrica.
Tutto questo cedimento, chiaramente, ha provocato una grave crisi sovraindividuale della quale ancora subiamo le conseguenze. È proprio in questo momento che la sconfitta politica, invece di diventare volano per l’aggiornamento di pratiche e di teorie, diviene il momento della rimozione: rimozione del trauma, delle possibilità, delle lotte.
Per tornare a Fiori: il gruppo si scioglie, Fiori passa dalla musica alla poesia, risponde a questo trauma sviluppando una poetica, in senso forte. Il volume garzantiano è importante perché leggendolo dall’inizio alla fine possiamo tenere traccia di questa poetica, che si fonda in gran parte sullo statuto della soggettività e sulla problematica etica. Nei primi libri di Umberto Fiori la prima persona singolare, l’Io, resta categoricamente escluso: il soggetto lirico forte ha cessato di esistere, ha finito di essere una ontologia in grado di formare la struttura cognitiva degli individui che di conseguenza lo ridiscutono, lo estromettono. Poi pian piano questa soggettività ritorna, radicalmente mutata, fino all’autofinzione e poi all’autobiografia, rispettivamente ne Il Conoscente e nell’Autoritratto automatico. Fino al Conoscente, del 2019, trentatré anni dopo il primo libro, la lotta politica non rientra nelle poesie di Fiori. È completamente rimossa. Quando ritorna nel romanzo in versi è messa in discussione, osservata da lontano, come una ubriacatura dell’adolescenza. In Autoritratto, si parla di maschere, come di un teatro. Sembra che in quegli anni, nei Settanta dell’«ortodossia del dissenso», per usare le parole di Alfredo Giuliani, si abbia puramente sognato.
Tempo fa avevo parlato di Olindo, un personaggio becero del Conoscente, sostenendo come Olindo fosse l’ideal tipo dell’italiano medio. Mi accorgo solo ora, dopo aver ricostruito un po’ di storia culturale del nostro paese – dove l’impegno politico è sempre stato una sfumatura del pensiero dell’intellettuale – che Fiori rappresenta solo il lato cosciente di quell’Italia media, il lato più disilluso e, probabilmente, addomesticato. Il trauma degli anni Settanta e Ottanta ha provocato una regressione nel pensiero radicale italiano, e quella generazione che, giovane, aveva corso nei cortei studenteschi e operai si è rimessa le mani in tasca, ha smesso di crederci e ha iniziato, conformandosi al senso comune, a stigmatizzare le nuove forme di dissenso. Questo non vuole essere un discorso colpevolizzante, ma semplicemente la registrazione dello svolgimento di un discorso culturale. L’estromissione della politica nella poesia di Umberto Fiori è sintomatica rispetto alla rimozione dei discorsi politici nella cultura generale media italiana.
Tutto ciò si è svolto senza che, nella cultura istituzionale e dominante, vi sia stato spazio per l’autocritica, la storicizzazione, l’aggiornamento. Al berlusconismo non si è saputo rispondere, e l’egemonia culturale si è stabilizzata su un discorso superficiale, tra zecche, benpensanti, buonisti eccetera eccetera. Forse qui, sì, con il silenzioso beneplacito di tutta quella classe intellettuale italiana che non sentiva più necessario, perché non determinante, opporsi con le proprie armi, e magari con altri strumenti, a discorsi culturali ideologicamente orientati. E ancor di più, l’azione politica viene screditata se accompagnata da un corollario estetico, creativo. Il lungo e in verità mai cessato discorso sulla letteratura e la realtà viene deriso sulla scorta di luoghi comuni che riportano al Neorealismo, a Zdanov, agli anni Settanta, senza che si riesca veramente ad entrare nel discorso, senza visualizzarlo con i pregiudizi della sconfitta. Quando si ragiona di inserire quello che è, ricordiamolo, un fenomeno sociale (e come tale soggetto a manipolazioni, gerarchie, illusioni, convenzioni) all’interno di una più ampia concezione del mondo – una concezione attiva e non passiva – si scade immediatamente nella bagarre del “cambiare il mondo con la letteratura”. È risibile come idea, e dimostra quanto non si prenda sul serio il tipo di approccio intellettuale che non autonomizza il fatto artistico. Parlare di letteratura impegnata, ora, può essere ridicolo: come è ridicolo valutare fatti sociali, necessità emergenti, con gli occhi gerarchici e determinati del passato. I Neorealisti, secondo i dominanti ermetici della torre d’avorio, sporcavano la poesia con dei contenuti che non corrispondevano alla forma; i giovani sessantottini che richiedevano per sé la possibilità della creazione artistica o sostenevano l’idea dell’azione erano dilettanti; il neo-impegno underground fenomeno di tossici senza possibilità teoriche o estetiche: la storia sociale della poesia del Novecento è la storia di una classe dominante che garantisce autonomia alla letteratura – e in questo modo all’ideologia – e una classe dominata che cerca di abbassare il letterario rasoterra, all’altezza di tutto e di tutti.
Non so se Umberto Fiori abbia smesso di credere nelle possibilità, chessò, di un’assemblea di collettivo, o anche di un’assemblea di condominio. So, tuttavia, che queste pratiche politiche sono ancora la base della cultura politica delle generazioni che oggi bloccano le strade, occupano case sfitte di proprietà dello stato, provano a prendere parola nei luoghi del potere – luoghi dove la loro parola non è considerata. Generazioni che, sì, fuori dallo sguardo cinico della cultura istituzionale, vivono politicamente la loro vita quotidiana, tanto da scriverci anche delle poesie. So anche che queste generazioni sono quelle che vengono sbeffeggiate, stigmatizzate, prese per il culo, etichettate, sottovalutate, censurate nei luoghi dove si fa la cultura di massa, nei giornali e nelle televisioni, e vengono sbeffeggiate da quelle generazioni passate, dei nostri nonni o genitori, che hanno pur visto gli operai guadagnarsi i diritti sul lavoro, le femministe guadagnarsi diritti civili, subalternità che riuscivano a ribaltare forme di potere con l’azione, la prassi, la comunità. Generazioni che fanno della letteratura, della scrittura, delle arti uno strumento di conoscenza e di definizione dell’esistente, generazioni che conoscono l’arbitrarietà dell’estetica e dell’autorità. Una letteratura strumentale, perché no. Alla fine, basta riconoscere placidamente che lo è già: la produzione letteraria è già strumentale all’ideologia e alla concezione del mondo che l’ha prodotta. È la doppia realizzazione del mondo sociale: le norme della società si realizzano fuori di noi e dentro di noi, e noi stessi, con la nostra vita, le riproduciamo.
Non serve che lo dica io che la forma contemporanea del capitalismo ha soffocato quelle forme di pensiero alternative, quelle che permettono di svegliarsi la mattina e chiedersi se sia giusto il proprio modo di fare e se non si possa imparare altro, e di conseguenza fare altro. Spesso, quelle persone che hanno vissuto la cultura politica dell’ultimo Novecento sono quelle meno disposte ad ascoltare i ragionamenti che escono dalle assemblee dei collettivi e delle associazioni. E chi è venuto dopo, chi è venuto dopo il trauma, ha vissuta già nella rimozione. Eppure, in sordina, fuori dalle telecamere potenti, la controcultura si è svolta, è andata avanti arrancando. Studiando la questione intellettuale ed engagé del secondo Novecento, ci si rende conto di quante cose vere abbiamo già detto e ci siamo dimenticat*, quanta esperienza abbiamo macinato, quanto possibilità abbiamo proiettato. Negli infiniti rivoli del discorso che lega riflessione, azione politica e fatto letterario, credo che qualcosa ancora si debba discutere.
Il Conoscente di Fiori, per il suo carattere retrospettivo, può essere un ottimo flashback per riflettere su questi ultimi cinquant’anni di storia culturale dello stivale. Ci sono le speranze, i traumi, i regesti, i blocchi, le paure. E per quanto dia la speranza di un’apertura sul mondo, sugli altri, il romanzo in versi si conclude come si conclude la giornata di ciascuno di noi, nella individualità, nel ripiegamento sul sé:
Ho alzato gli occhi.
in mezzo al mare, laggiù,
ho visto avvicinarsi la mia nave.
Spesso, almeno alle mie latitudini, si ha l’impressione che una certa vague nuovamente impegnata si stia facendo largo. O almeno, che i discorsi sulle gerarchie della produzione culturale e sul suo asservimento si stiano espandendo sempre di più. Come già ciclicamente avvenuto, le nuove generazione entranti nel campo (letterario, politico, accademico) percepiscono la stasi e, nel migliore dei casi, fanno autocritica e criticano il sistema in cui sono inseriti. Il femminismo, il decolonialismo, le subalternità hanno dimostrato come quella della separazione oggettiva della cultura sia una concezione frutto dell’ideologia neoliberale, e in questo si dimostra violenta, censoria, discriminante. Una grandissima fetta di lettori e lettrici preferisce leggere il saggio sulla scrittura dal margine o il libro autoprodotto stampato grazie ad un crowdfunding piuttosto che leggere il bel romanzo: bello secondo un’estetica deteriore, stancamente ereditata. Una nuova parabola deve scriversi, la parabola che parte dal ripiegamento su di un sé debole e autocompiaciuto del fatto culturale ad un sé forte perché comunitario, costruito collettivamente e con il sangue della critica, che non discrimini la forma e che si faccia strumento di incontro. Il che vorrebbe dire che non è, appunto, un libro sulla comunità che si vuole, ma un libro della comunità, un libro che non imponga interessi e disposizioni estetiche. Intanto, il libro che raccoglie l’opera di Umberto Fiori deve essere letto con attenzione, con tutte le premesse storico-culturali che ci permettono di verificare non solo una poetica letteraria, ma forse una poetica del sintomo, una poetica della cultura. Memorabile resta Voi, del 2009, il luogo testuale che, a mio parere, meglio rappresenta quella frattura interiore tra interno ed esterno, fra realtà e proiezione. E il Conoscente, chiave di lettura di tutta un’opera, deve ancora insegnarci come ci si può allontanare da sé, deindividualizzarsi, vedersi da fuori.