Homo Faber
di Filippo Canoro
Se volete sapere di Marko, lui, era un amico che in quel periodo andavo a trovare quasi tutte le sere. Faceva il meccanico in un’autofficina sul limitare di Marghera dove si raggrumavano tutte le migliori puzze della zona industriale. Regione senza dio e senza legge, segnata su nessuna mappa––i posti del cuore non lo sono mai, del resto!––dove vigevano la legge del più furbo e la psicologia del miracolo. Stavano sempre tutti per fare il colpo grosso, a quelle latitudini: il lavoro, la ragazza, il carico che li avrebbe con un unico strattone tratti in salvo dall’affitto, dalla catena di montaggio, dal cinquantino acquistato a rate, dalla camerieranza a vita, dai sedili appiccicosi di un vaporetto pigioso del cazzo, dalla puzza di cavolo nella tromba delle scale: insomma il colpo grosso che li avrebbe portati a riva prima che annegassero in quel mare di merda che gli spettava per diritto di sangue. Si fa così in periferia, si spera nel miracolo dietro ogni angolo e intanto si vive. Mestre-Marghera, periferia della periferia, buco di culo del mondo.
Mi stava molto simpatico, sto Marko, non dico di no. Mi portava a mangiare dal Mei Lin, e vedendomi così povero in culo come ero pagava tutto lui. Rideva, ciarlava, beveva a canna litri e litri di birra. L’unica parola che capivo, di quel suo italiano tutto sbrindellato, era hashish: dopo cena ci giravamo una cannetta piena di grazia e vagabondavamo per il centro città. Un cristo grosso così, sto Marko, con una schiena larga come un contrabbasso e tutto raggiante di buone intenzioni. Faceva il meccanico, mi spiegava, ma arrotondava smazzando qualche tocco di afghano. Mi ha mollato una pacca sulle spalle da scancherarmi la clavicola: ci avrebbe pensato lui a rendermi indipendente! Manco a dirlo, stava anche lui per mandare a segno il suo colpo grosso: un grosso, grossissimo carico di fumo da Bolo. Per intanto mi ha allungato due panettine di carta argentata da smazzare all’uscita dei licei e tenermi su di morale.
Per il resto era un vero coglione. Sottoscolarizzato che era, i suoi discorsi brulicavano di lettere latine di seconda, terza mano, tutte consunte e stazzonate e puzzolenti e appallottolate come vecchi calzetti; gli uscivano a fiotti dalla bocca come le bestie da un formicaio: brulicavano, ti si appiccicavano addosso, te le sentivi passeggiare co’ ste luride zampette su per la colonna vertebrale, niente niente te le ritrovavi sul collo, su una guancia, dentro a un orecchio. Memento audere semper. Per aspera ad astra. Fino a che non ti scappavano dalla bocca anche a te. Un tatuaggio lungo uno dei suoi monumentali tricipiti diceva
E sì che Marko faceva il meccanico in una grande officina, tutto il giorno culo in basso a stringere e allentare bulloni, dadi, a sbrugolare di gomito colle mani nel radiatore, due manone così per dirla tutta, e poi la sera tornava in quella greppia d’una casa colle dita rosse e gonfie come luganeghe e ancora spataccate di grasso, polvere, olio motore; il grasso soprattutto si rincantucciava sotto alle unghie e non lo levavi neanche coll’acquaragia; mani grosse e sporche di meccanico, mani luride. Ma lui niente, anche così colle mani zozze, la schiena sbuccia e tutto pieno di bernoccoli e bitorzoli––perché il convento non gli passava neanche la sdraio sottomacchina per scivolare sotto i mezzi, e allora gli toccava strisciarci sotto a colpi di lombi fino a consumarsi tutta la tuta da meccanico––anche così, ecco, lui sognava d’imprendere, di fare il capoccia. Sognava di mettere su lo sputo d’impresa che l’avrebbe finalmente fatto sentire padrone di qualcosa: di più, signore e sovrano della vita sua e di quella di altri due o tre disperati cenciosi che avrebbero brucato l’erba col culo tanto ci avevano fame, e che per portarsi a casa un tozzetto di pane erano pronti a qualsiasi nefandezza, anche a consumarsi la schiena a furia di strisciare sotto alle macchine senza la sdraio…
Lo faceva mica il collegamento, lui. Già si vedeva dietro al suo banchetto di formica, a sera, nel retrobottega, colla sua visiera verde da ragioniere del cazzo, a contare la grana passandosi libidinosamente i ventoni lisci lisci da una mano all’altra, a impilare puntigliosamente le monetine, insomma, a far di conto… lo faceva mica il collegamento, lui.
Neanche un mese prima, il capoccia di Marko aveva avuto la bella pensata di accettare un lavoraccio, un furgoncino fiorino… nulla di difficile, giusto un cambio alla cinghia di trasmissione… eccettoché il ponte sollevatore era un po’ sotto portata per sto furgoncino… ma non s’era mai sentito che… e poi con un po’ di fortuna… e allora Aziz, il compare di Marko, dico, come aveva messo il becco sotto il fiorino sollevato…
Insomma, per pigliarla in breve, la piattaforma del ponte sollevatore aveva ceduto di schianto e il vecchio Aziz s’era ritrovato mille duecentosessantadue chili di furgoncino su una gamba, di punto bianco, e giusto perché era stato lesto a sfilarsi appena aveva sentito cric-iiiiiik, sennò… mille duecentosessantadue chili moltiplicati per dio sa quanto dalla legge di caduta dei gravi, si sa… mannaggia a Galileo!… mille duecentosessantadue chili che senza sforzo gli avevano spaccato tutta la gamba fino all’attaccatura, su su fino al bacino.
Cric-iiiiiiiik!!
Ma il bello era venuto quando erano riusciti a sollevarlo, sto fiorino. In fondo allo sfacelo della gamba, il piede, lui, non se l’era sentita di rimanere attaccato, con tutto che erano diciannove e rotti anni che se ne stava laggiù al suo posto, proprio in fondo alla gamba, e gli era scoppiato come un petardo, o come un grosso fico fresco spiaccicato sull’impiantito grigiomerda… rosso rosso, rosso vivo colla polpa tutt’intorno… un delirio di polta, ossicini, fluidi e schizzi di sangue dappertutto… una raggiera di schizzi di sangue aguzzi come aculei d’istrice… diabolica aureola… gli era proprio esploso, sto piede––pum! E Aziz che ululava, strepitava, piangeva, invocava allah, maometto, la mamma… ci avrebbero avuto un bel daffare anche loro a rimettere a posto quel casino d’un piede spappolato.
Ce l’hanno mica fatta, poi. Frattura scomposta di più o meno tutto sotto l’anca (lato dx) e amputazione del piede fino al calcagno. Homo faber fortunae suae!
A un certo momento ad Aziz gli era anche saltato il grillo di farla pagare, al capoccia. Di fargli causa o qualcosa del genere. Ma il capoccia, lui, aveva agitato un dito per l’aere come una bacchetta magica e aveva pronunciato la formula: Permesso di soggiorno. Figurarsi se lui ce l’aveva il permesso di soggiorno, il vecchio Aziz. S’era tuffato a picchetto nel mercato del lavoro senza increspare né punto né poco il mare magnum della burocrazia nostrana. Ma gli era andata bene, alla fine, perché il capoccia, mosso a compassione, s’era impegnato a indennizzarlo al ritmo di duecento carte al mese per due anni, ovverosia duemilaquattrocento euri netti. Questo il valore di un piede a Mestre-Marghera nell’anno domini corrente, se ve lo stavate chiedendo. Piede di negro scappato di casa senza permesso di soggiorno, si capisce.
Aziz lo vedevamo strampolare tutti i pomeriggi sotto i portici polverosi della via Piave. Ta-tac facevano le stampelle, tac-ta.