Davide Susanetti: «Vertigine della soglia»
di Davide Susanetti
È uscito per le Edizioni Tlon il viaggio iniziatico Vertigine della soglia di Davide Susanetti.
Ospito qui un estratto, in anteprima.
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Quando si pronunciano le parole mistica e mistero, un alone di vaghezza sembra sprigionarsi da esse. E la vaghezza, a propria volta, suscita incerti intrecci di fascinazione e di diffidenza. Eppure, a osservare l’etimo greco da cui esse si originano, un atto estremamente semplice le determina. Ed è in questa stessa semplicità che riposa il loro dono, la promessa cui fanno cenno. La radice di questi termini si connette al verbo mýein, che significa “chiudere”, “serrare”. È questo l’invito che le parole sussurrano. Chiudere gli occhi con cui, nella veglia, si osserva quel che appare mondo e se stessi. Chiudere la bocca da cui sprigionano le parole che sempre si pronunciano per chiedere o rappresentare quanto sta attorno e per dire, al medesimo tempo, chi e come si ritiene di essere. Chiudere è un gesto d’interruzione. Un atto con cui si produce uno strappo, uno scarto nel fluire dell’esistenza e delle occupazioni a cui abitualmente si attende o da cui si è presi. Il sigillo serra le palpebre e fa muta la lingua. Arresta e sospende, paralizza e disarticola. E in ciò si compie il transito di una soglia che allontana e separa nello spaesamento e nella vertigine, nell’assenza e nel vuoto. Una soglia al di là della quale tutto ciò che si vede, si dice e si pensa cade e dilegua così come l’azione si disorienta. Non c’è più ciò che c’era, così come non si è più ciò che si era. Non si sa dove ci si trova né se vi sia una direzione verso cui muovere. Nessuna parola soccorre dalle labbra impedite a ogni suono.
Ma la cessazione che il passaggio produce, l’inceppo che la chiusura impone non è che la condizione per riportarsi, con un’inversione, a un punto che preceda. Non è che il mezzo per disfare ciò che è stato, per scomporre ciò che si è fissato in un modo o in una figura, in un orizzonte o in un discorso. L’arresto che frange il continuo si rovescia in un movimento che è possibilità di riconfigurare e riplasmare ogni cosa da capo. L’assenza del buio e del silenzio si converte nel levitare di una presenza ulteriore, altra e diversa da tutto ciò che non ha, in nessun momento, conosciuto quel medesimo transito. La chiusura, che nella separazione e nell’isolamento segna una fine, è il gesto stesso che incessantemente apre alla virtualità di un nuovo inizio. Nel chiudere sprigiona ciò che infine dischiude gli occhi e la lingua alla visione che non è stata ancora vista, alla parola che non è stata ancora pronunciata. Un gesto semplice perché è semplicità ciò che sta all’inizio, prima che tutto si complichi e si confonda. Un gesto arduo e penoso perché la discontinuità che sospende è perdita e paura.
A ciò che mistica e mistero sottendono si lega anche un’altra parola preziosa, iniziazione, su cui occorre indugiare. Nel nostro dire, iniziare evoca il dar principio a qualcosa che è nuovo o semplicemente ulteriore, a qualcosa che prima non si era ancora tentato o che, fino a quel momento, non aveva avuto ancora modo di concretarsi e di essere. L’inizio di un’azione a partire dalla stasi o dall’abbandono di altro che si stava facendo. L’inizio di una stagione o l’inaugurarsi di un periodo che rechi eventi o colori differenti da quanto precede. Eppure, anche qui, l’etimo irraggia un valore che sposta la prospettiva. All’origine vi è il latino inire, “entrare”, “fare ingresso”. Iniziazione è quel movimento che conduce a varcare un confine, a compiere un passaggio. È ingresso in un dominio o in una sfera altri da quel che stava fuori. E altro è anche tutto ciò che là avviene ed è custodito. Un altro che rende altri, tanto decisivo è quell’entrare all’interno.
Ma, da capo, per comprendere, occorre intrecciare le lingue fra loro, osservando come l’una completi l’altra. Perché, quel che, da un lato, si dice come ingresso corrisponde, dall’altro, a quanto ne suggerisce il modo e ne fissa la direzione. In greco, infatti, quel che l’iniziazione comporta si stempera in due parole distinte a segnare il cammino. La prima, mýesis, viene sempre da quel chiudere da cui tutto si diparte. La seconda, teleté, in modo assai trasparente, indica quel che si raggiunge: il télos, il compimento, il fine e la meta, che mai neppure si immaginava.
Iniziazione è dunque l’atto stesso di entrare in quella dimensione di mistica chiusura che prelude alla propria compiutezza. Come forma che si cancelli e si disfi per ridisegnare la propria perfezione. Come ferita sanguinante che rimargini in nuovo e inaudito tessuto. Perché è ferita ciò che attende all’ingresso. Taglio che incide. E non c’è altro modo per generare e rigenerare ciò che è ancora e sempre imperfetto.
In che modo porsi sulle tracce di questa soglia? Forse si può farlo partendo da quell’orizzonte greco cui le parole e gli etimi appartengono. Il volto di un dio, alcune figure e posture dell’anima, le rifrazioni del simbolo, le immagini della mente e dell’uno possono costituire le tessere provvisorie di un viaggio, i segnavia di un territorio da esplorare. Un territorio che per sua natura predilige le allusioni e le forme indirette, i frammenti e le schegge, i discorsi che suonano, a loro volta, sospesi e inceppati.
Nel muovere da una stazione all’altra, le parole finiranno così per ondeggiare tra intensità e toni diversi, perché non tutto può essere evocato nel medesimo modo. Parole ora piane e pacate, ora mosse e scomposte in ciò cui rimandano. E le voci stesse di antichi sapienti, convocati implicitamente a fare da guida, diverranno talora risonanze ed echi della medesima voce che racconta e ricorda in un gesto di intima prossimità. Come figure, a loro volta, di un paesaggio interiore o di un senso che si spartisce nelle viscere per diventare cosa propria che agisce. Ventidue stazioni scandiranno il cammino. Ventidue come gli Arcani maggiori dei Tarocchi e le lettere della lingua sacra. Cenni e movimenti per ritrovare il seme di un inizio in quanto sembra finire e, in realtà, mai finisce. Un accelerato oltrepassamento dell’umano è quanto i tempi lasciano intravedere. Ma l’oltrepassamento non è ciò che, a loro modo, la mistica e l’iniziazione abitano e annunciano?
(Incamminarsi per queste vie è scelta individuale che comporta un radicale distacco dalla dimensione di quel che si potrebbe chiamare pólis, con tutto ciò che tale parola evoca in termini di dinamiche, rapporti e istituzioni. Un distacco dalle aggregazioni e dai modi del sociale e di quanto è ordinariamente comune e condiviso. Uno scarto dal linguaggio delle rivendicazioni e dal bisogno di essere riconosciuti. E tuttavia occorre chiedersi se non sia proprio questo l’unico modo per rigenerare, a un altro livello, qualcosa che sia pólis, ora che tutte le categorie usuali del politico mostrano la loro inane consunzione. Il salto e il vuoto del passaggio mistico come unica condizione possibile di fare comunità: a partire dal viaggio che ognuno, per sé, avrà compiuto).