Dagli Oscar a Cannes, il cinema che racconta il genocidio a Gaza
Giuseppe Acconcia
In questi giorni la rappresentazione cinematografica della guerra a Gaza al festival di Cannes è passata per il tributo alla fotogiornalista palestinese Fatima Hassouni, raccontata nel documentario di Sepideh Farsi “Put your soul on your hand and walk”. Hassouni è stata uccisa dall’esercito israeliano il giorno dopo aver saputo della partecipazione del film al festival di Cannes dove era in gara anche il film palestinese di Tarzan e Arab Nasser “Once upon a time in Gaza” nella sezione Un certain regard. Il film-maker israeliano Yuval Abraham ci racconta il suo impegno giornalistico e di regista, insieme a Basel Adra e Hamdan Ballal, con il collettivo che ha realizzato “No other land”, il documentario sugli attacchi che non si fermano contro la comunità palestinese di Masafer Yatta in Cisgiordania ad opera di coloni e dell’esercito israeliano. Il film richiama i temi del roadmovie “Route 181 – Fragments of a Journey in Palestine-Israel” (2003) di Eyal Sivan e Michel Khleifi.
Come sono cambiate le cose dopo la vittoria di “No other land” agli Oscar del 2025?
Non avremmo mai immaginato di vincere l’Oscar e che avremmo fatto un film che sarebbe stato visto da milioni di persone. Eravamo sempre preoccupati che solo i nostri familiari l’avrebbero visto e che nessuno gli avrebbe dato importanza. È interessante perché abbiamo iniziato, sia io che Basel, come giornalisti, scrivevamo articoli per il magazine +972 e sui social media, ed eravamo molto frustrati. È in atto una politica di pulizia etnica dell’intera comunità di Masafer Yatta e sta succedendo nel tempo, inizialmente molto lentamente ora molto più velocemente. E i media non ne hanno parlato o non danno attenzione a quello che accade. Quindi non abbiamo mai neppure sognato che avremmo fatto un film e che sarebbe stato visto da così tante persone. La cosa triste è che la realtà sul campo sta solo peggiorando.
Si parla molto di Gaza ma molto poco di Cisgiordania, come vivono i palestinesi a Masafer Yatta?
Posso raccontare quello che è successo a Hamdan Ballal, uno dei co-registi. Due settimane dopo essere rientrati da Los Angeles, dagli Oscar, un gruppo di coloni e soldati sono andati nel villaggio di Hamdan. Hanno attaccato il villaggio e sono entrati nella sua casa, dove si era rifugiato per proteggere sua moglie e i suoi figli piccoli. Lo hanno colpito, lui ha detto che pensava che sarebbe morto. È stato portato dai soldati in una base militare, dove è stato torturato. E gli hanno detto che tutto questo stava accadendo a causa degli Oscar. Questo evento ha avuto una grande attenzione mediatica. Ma in realtà a Masafer Yatta questi attacchi avvengono sempre, contro palestinesi che non hanno vinto l’Oscar e nessuno ne parla. Questo sta accadendo da gennaio scorso. Ci sono stati circa cento attacchi di coloni e soldati contro questa comunità e in tutta la Cisgiordania. In quest’area, l’area C, il 60% della Cisgiordania, dove ci sono piccole comunità palestinesi circondate da colonie israeliane. Queste sono le comunità più vulnerabili in Cisgiordania. Sono sotto il diretto controllo militare. E l’obiettivo è molto chiaro: trasferirli e prendere il controllo della terra. Sono molto preoccupato per Masafer Yatta, con Trump al potere negli Stati Uniti fino al 2028, temo che questa comunità verrà completamente distrutta. Questo è il motivo per cui credo che l’attivismo dal basso e la pressione internazionale di cui abbiamo bisogno è molto importante perché stiamo parlando letteralmente della sopravvivenza di questa comunità in questo momento.
Come giornalista investigativo e regista, quale responsabilità personale ha sentito nel raccontare questa comunità?
È una storia molto personale. Credo che il cambiamento politico inizi sempre da qualcosa di personale, mi ha spinto a studiare arabo e a incontrare Basel, una persona che ha la mia stessa età. Lo guardo e vedo un uomo molto simile a me. Ma viviamo in un sistema in cui siamo controllati da Israele ma solo io posso votare per le leggi che controllano la sua vita. Basel vive sotto controllo militare, un diverso sistema legale, senza un aeroporto. Questa realtà va avanti da decenni con due gruppi di persone controllate da uno stato diviso in due sistemi legali. I palestinesi sono discriminati in ogni singolo aspetto della vita. Questo è completamente ingiusto, deve finire. Non parliamo di teoria politica, ma è Basel, il mio amico, a cui tengo, e vedo quello che succede alla sua famiglia. Mi colpisce, mi fa sentire responsabile, prima di tutto verso la mia società, di fare giornalismo in lingua ebraica così sappiamo cosa viene fatto a nome nostro. Ma è stato anche importante mostrare nel film il potere sbilanciato, lo stato di apartheid, la diseguaglianza in cui siamo nati, sperando in un futuro diverso, dove c’è uguaglianza, giustizia e libertà per tutti, israeliani e palestinesi. E non una situazione dove un gruppo ha la supremazia su un altro gruppo. Siamo uniti in questa battaglia, sono i nostri valori condivisi. Questo ha reso il film possibile. Parliamo di coesistenza tra israeliani e palestinesi, anche se questi ultimi sono minacciati nella loro stessa esistenza. Con questo documentario presentiamo una diversa visione di futuro non basato sulla supremazia ma su una soluzione politica, sull’uguaglianza, su diritti nazionali reciproci e sicurezza. E così questo film è in sé una forma di resistenza per noi.
Crede che il suo lavoro abbia creato una diversa consapevolezza nella società israeliana delle conseguenze dell’occupazione?
Onestamente penso di no. Abbiamo forse avuto effetto su alcuni individui, ma il sentimento politico generale nella società israeliana, soprattutto dopo il 7 ottobre 2023, si è spostato molto di più verso destra. Sento che gli israeliani come me che difendono i diritti umani sono molto deboli all’interno della società israeliana, sono una minoranza. E credo che la comunità internazionale non ci aiuti, ci indebolisca, non ponendo alcuna pressione sul governo israeliano, nessuna linea rossa anche quando è chiaro quello che sta accadendo a Gaza dove in pochi giorni sono stati uccisi centinaia di bambini. Questa è una routine e sta indebolendo le persone che combattono per qualcosa di diverso. E così continuo a fare il mio lavoro, sono un giornalista, un film-maker, questa è la mia responsabilità, ma penso che senza aiuto esterno sotto forma di sanzioni e pressioni, il mio impegno non sarà efficace tanto quanto dovrebbe essere.
Eppure, il genocidio a Gaza va avanti, la vostra comunità è stata indebolita, è ottimista, pensa ancora che le persone che vedono questo documentario reagiranno in qualche modo?
Basel sostiene sempre che non c’è molta speranza perché è difficile averne in questo contesto. È come se ogni percorso sia bloccato. E ho questa terribile sensazione che le cose possano solo peggiorare. Penso che siamo in una situazione di sopravvivenza a questo punto. È difficile parlare di speranza, dobbiamo cercare di minimizzare il numero di bambini uccisi. Come israeliano sono in una posizione molto più privilegiata. E ho usato questo privilegio per dare un lato israeliano a questo film che lo ha aiutato a vincere un premio importante come l’Oscar. Però come Basel, continuerò a battermi perché non ho il privilegio di fermarmi. La mia speranza è più un sentimento di fede che ci siano cambiamenti nella storia e solo guardando in retrospettiva realizziamo che il nostro lavoro, questo lavoro collettivo, ha prodotto un cambiamento. Il momento più difficile è stato quando dopo il festival di Berlino mi hanno accusato di essere “antisemita”, ho sentito la violenza su di me e gli effetti sulla mia famiglia che ha dovuto per alcuni giorni lasciare la nostra casa. È stata la prima volta che ho sentito una violenza fisica nei miei confronti. Normalmente ogni volta che esprimi un’opinione in minoranza per la tua società vieni rifiutato più o meno fortemente. E non è facile. Sono cresciuto nella società israeliana, ne faccio parte. Sono persone che vorrei cambiare e ne sento la responsabilità. Quello che mi ha aiutato è la comunità di persone come Basel e Hamdan, altri palestinesi e israeliani con cui condividiamo gli stessi valori. Ma anche se siamo in pochi, anche una o due persone sono sufficienti per spingermi ad andare avanti.