La rusascia

Anonimo (Codex Rossi) [1325 – 1355 ca.]
MusiCanti Potestatis
di Greta Bienati
La Martina era brutta, fatua, con tanto di gozzo e con pochissimo cervello. O, almeno, così la dipingeva suo fratello Battista, contadino e muratore, che le voleva un bene dell’anima. La voce pubblica aggiungeva che casa sua era tutto un via vai e che, in tutta la Valcuvia, non ce n’era uno, giovane o vecchio, a cui fosse stata buona di dire di no. Ma diceva anche che non era per malizia o per cattiveria, ma solo perché era debole di testa e non capiva neanche il bene e il male.
Per quanto brutta, d’altra parte, la Martina non era certo la Maria Cassina, poveretta, che, oltre ad averci il gozzo, era gobba, orba di un occhio e dalla bocca le veniva fuori la voce rauca del demonio. Nata e morta anche lei a Brenta, quasi cent’anni prima, la Maria Cassina era stata l’unica strega di tutta la valle, roba che erano venuti giù a vederla i parroci di mezza diocesi e tre dottori di Gavirate. E, tutti d’accordo, avevano deciso di guarirle il corpo e l’anima a bastonate.
La Martina aveva la fortuna di essere nata in tempi civili, quando a parlare di streghe e indemoniati finivi a farti ridere dietro, e le bastonate le aveva prese solo per cercare di riempirle un po’ la testa vuota, senza pretesa di cacciarle fuori il diavolo. Un po’ gliele aveva date la madre, un po’ il padre e un po’ anche il Battista, che aveva cinque anni più di lei e se l’era presa sotto l’ala quando erano rimasti orfani.
C’era da dire che, pur col cervello molle, la Martina lavorava sodo: la mattina buon ora, aiutava nei campi con la ranza e con la zappa; poi, dopo colazione, andava a fare il bucato al lavatoio, oppure a raccogliere legna e castagne su per i boschi della Biotta, ed era capace di portare quanto un asino robusto.
Arrivata a trentacinque anni, la Martina sembrava anche lì lì a lasciare la sua vita disonesta. Da quasi due anni, infatti, faceva all’amore solo col Gioàn, che veniva giù da Orino, ma aveva la bottega di ciabattino in una corte di Brenta. Il Gioàn era brusco di mano e di cuore e non lasciava stare il fiasco finché non gli aveva visto il fondo, ma la Martina era di bocca buona; e poi, di mariti di belle maniere e che non finissero sotto il tavolo dell’osteria, in paese non ce n’era neanche uno.
Così, nella sua testa vuota, aveva preso da un pezzo a figurarsi un bel matrimonio, col Gioàn con la giacca scura e lei col vestito color ciliegia, tutto fiori e rabeschi, uguale a quello che aveva visto addosso alla figlia del mugnaio quando era andata sposa a un cavallante di Cuveglio. La Menghìn, che abitava nella sua corte, la vedeva fare il giro del cortile col cucchiaio in mano, a far finta di distribuire confetti e castagne a braccetto al suo ciabattino, e intanto masticava la saliva, con in bocca il sapore di formaggio e uova sode della torta degli sposi.
Il paese era arrampicato in mezzo ai castagneti, al riparo dai disastri del fiume e dalle novità del mondo. Chiuso da un muro di montagne con la testa pelata dai pascoli, era rimasto uguale dal tempo di Noè, immerso nel verde dei boschi e dei campi. Per vedere un pezzetto di azzurro, dovevi salire con la Scala Santa fino alla Madonna delle Grazie, e, da lì, spingere gli occhi in fondo alla curva della valle, dove luccicava un tocchettino di lago Maggiore. Gli spagnoli, i francesi, gli austriaci e adesso i piemontesi, col loro Regno d’Italia fresco fresco, non avevano cambiato di una virgola il macinare dei mulini, lo spuntare del grano, la trattura dei bozzoli nelle filande. Uguali a sempre erano anche i grembiuli scuri delle donne, che riparavano i vestiti dai segni della fatica, e le loro trecce arrotolate sulla nuca e fissate con gli spilloni d’argento.
In un’acqua tanto ferma, facevano rumore i sassi piccoli dei nati, dei morti, dei morosati. E infatti, nella mattina di luglio, la notizia che il Gioàn ciabattino andava sposo a una ragazza del suo paese corse in un momento di corte in corte, e arrivò alle orecchie della Martina proprio mentre faceva il suo giro a far mostra di dare i confetti.
La Menghìn la vide restar lì ferma per un pezzo, uguale alle statue delle cappelle della Madonna del Monte. Poi l’idea le arrivò nel cuore e nella testa, e, come un vento di burrasca, buttò in aria quel poco che ancora era rimasto in ordine.
Il Gioàn se la trovò in bottega con due occhi fuori di sentimento. Nessuno dei due era gente da grandi discorsi: lei gli gridò: «Traditore!», e lui la buttò fuori con uno sberlone. Con la testa che scoppiava di rabbia, la Martina andò di filato dall’ordine costituito, a chiedere che la legge del Re arrivasse di corsa a renderle giustizia.
«Un momento, un momento» cercò di quietarla il sindaco Longhi, ché lei gli gridava nelle orecchie peggio del suo ultimo nato.
Il sindaco ascoltò con la fronte tutta raggrinzita, nel mentre che la Martina dava l’anima a Dio, piangendo e strappandosi i capelli. Poi si alzò puntando i pugni sul tavolo: «Ghe parli mi» tuonò.
La Martina si zittì piena di spavento, ma nelle busecche le corse un brivido di contentezza all’idea che adesso arrivavano i carabinieri a portare il Gioàn in chiesa di forza per sposarla.
Come tutti i sindaci, anche il Longhi era stato nominato dal re Vittorio in persona perché facesse da buon padre ai suoi compaesani. E infatti da buon padre si portò, convocando subito il ciabattino, per metterlo davanti ai suoi impegni. Il Gioàn arrivò col cappello in mano e gli occhi già lustri del primo litro della giornata.
«Avete preso un impegno» fece la faccia scura il sindaco. «E adesso vi tirate indietro?»
Con la lingua che si impastava, il ciabattino biascicò che lui impegni ne aveva presi solo con la sua compaesana, e l’idea di sposare una balenga come la Martina non gli era mai neanche passata per la testa.
«Lo sapete anche voi che razza di donna è» aggiunse il Gioàn con una smorfia che voleva essere un sorriso.
Il sindaco cacciò fuori due occhiacci da diesire: «Gli impegni non si prendono solo con le parole!» picchiò la mano sulla scrivania. «Se avete usato carnalmente di lei, la Martina ha ragione di ritenervi impegnato!»
Il ciabattino si batté la mano sul petto, a giurare e spergiurare sputando in terra che lui, la Martina, non l’aveva mai toccata neanche con un dito. Aveva fatto tutto lei, nella sua testa bacata; e anzi, la prossima volta che gli veniva in bottega, chiamava subito i carabinieri che la portassero via di peso perché non lo lasciava lavorare.
Il sindaco Longhi lo guardò negli occhi lustri di vino. Poi si lasciò cascare sulla sedia, si passò il fazzoletto sulla fronte per asciugare il sudore di luglio, e congedò il mascalzone con un cenno della mano.
L’idea che il ciabattino non volesse più sposarla, aveva fatto gridare la Martina per un giorno intero, roba che l’avevano sentita anche i pastori in cima alla Biotta. Adesso, davanti al fatto che, in realtà, non l’aveva mai voluta sposare, la Martina si mise a dare il tormento all’intero paese, chiamando anche i sassi a testimoni del torto subito. Le donne non ne potevano più di sentirla: se la passavano una con quell’altra, e cercavano un momento di pace cacciandole in mano un po’ di tabacco da fiutare.
La notizia del matrimonio del ciabattino era arrivata in paese di martedì. Il venerdì, la Martina tornava dal mercato di Gavirate, e il cielo era mezzo chiaro e mezzo scuro, ché il venerdì, si sa, non finisce mai come è cominciato. Sopra la sua testa, i nuvoloni neri arrivavano di corsa dal lago e sembravano convinti di portare finalmente un po’ d’acqua al formentone, che boccheggiava nella terra grigia e piena di crepe.
Una goccia dura e grossa le cadde sulla testa, per andar più in fretta la Martina si chinò a levarsi gli zoccoli. E fu allora che vide la rusascia.
Era lì, ferma come un morto, in mezzo alle foglie vecchie dei faggi, nera e luccicante,con le sue zampette corte e le stelle gialle sulla testa piatta, e mandava un odore di rose andate a male. La Martinafece un salto indietro e cacciò un urlo che neanche la Maria Cassina col diavolo in corpo. Con gli zoccoli in mano, si mise a correre più svelta che poteva, mormorando una fila di avemarie, ché la brutta bestia non era solo buona di avvelenare l’acqua dei pozzi, gli alberi da frutto, la legna per il pane, ma soprattutto era segno di malaugurio, uguale a vedere la morte in persona.
«Porta male, porta male!» gridava la Martina, e intanto nella testa vedeva il suo funerale, e il Battista che piangeva, e le donne in nero. E il ciabattino in disparte, da solo in fondo in fondo alla chiesa, con tutti che lo guardavano storto, come fosse colpa sua.
La Martina si fermò di colpo. E un sorriso le attraversò la faccia.
«Sicuro che è colpa sua» pensò la Martina a voce alta.
Uguale a un seme di malaerba, l’idea le si piantò in testa così in fondo da farle dimenticare il temporale, e persino la rusascia. «Se muoio, è colpa sua» ripeteva, picchiando gli zoccoli uno contro l’altro, uguale a una cantilena di bambini. E intanto la malaerba allungava le radici e lo stelo, concimata dal cervello mezzo marcio.
Andò avanti a crescere tutta notte, e anche il mattino dopo. Quando la Martina andò al lavatoio, ormai era un rovo, che le riempiva le orecchie e la bocca.
Era dietro a fregare con l’aria più svagata del solito, quando si fermò con le mani nell’acqua e si voltò verso la sua vicina: «Se mi ammazzo, il ciabattino va in galera?» chiese.
Tutta presa dalle salviette da lavare, la donna fece sì sì con la testa, che la Martina era meglio condirla via svelto, o finiva col far dare di matto anche te.
«Cesarina, voi cosa dite?» insistette la Martina, per avere più soddisfazione. «Se mi ammazzo, il Gioàn va in galera?»
La Cesarina fece segno con la mano che non ci aveva tempo da perdere, che ancora non aveva messo su la minestra. La Martina si mise a resentare: nell’acqua le apparve la faccia del Gioàn dietro i quadretti di ferro della galera, e le luccicarono gli occhi.
«Ersilia, a me mi pare che, se io mi ammazzo, lui deve andare in galera tutta la vita. Dico bene?»
L’Ersilia era dietro a pensare che era un mese che suo marito non mandava soldi dalla Francia, dov’era emigrato per fare il muratore, e fece segno di sì con la testa senza neanche aver sentito.
Dato che ormai era chiaro che la Martina aveva attaccato una delle sue solfe con cui dava il tormento alla gente, le donne fecero svelto a finire il bucato, e anzi qualcuna si portò a casa i panni non lavati.
La Martina, invece, continuava a vedere nell’acqua la faccia del Gioàn dietro i quadri della prigione, ed era già la quarta volta che resentava le stesse mutande. Quando tirò su la testa, era rimasta solo una donna, tutta vestita di nero, con la pelle gialla come le macchie della rusascia, che la guardava con una faccia triste da far piangere. La Martina rimase lì con le mutande da strizzare in mano e lo stomaco ingarbugliato per la paura. Prese su il suo bucato, e scappò via borbottando.
Per tre giorni, la malaerba andò avanti a buttare frasche e fiori, e a cacciare le radici giù nel petto, tutto intorno al cuore. Di giorno e di notte, davanti agli occhi della Martina passavano la rusascia e il Gioàn a quadretti, la donna con la faccia gialla e il Battista che piangeva al suo funerale. E passava anche lei, sdraiata con le mani in croce, con indosso il vestito cilestrino coi bottoncini gialli e il fazzoletto rosso e giallo al collo, e al pensiero di essere morta scoppiava a piangere per il dispiacere. Ma subito rideva, che adesso il ciabattino era pagato fuori per bene, e, invece che a sposarsi, lo menavano alle carceri mandamentali di Cuvio.
La mattina del martedì, una settimana giusta da che era scoppiata la baraonda, la Martina andò al campo col Battista innanzi lo spuntar del sole, per lavorare col fresco. Zapparono per un pezzo, e il Battista sacramentò per l’annata grama. Poi vennero a casa insieme che ancora non erano le otto, e, per colazione, mangiarono un po’ di latte con la crosta della polenta. La Martina aveva da fare il bucato, e il Battista tornò al campo da solo.
Al lavatoio, cosa strana, non c’era nessuno. La Martina tirò fuori i panni dalla cesta e mise a bagno i fazzoletti e le calzette. Dall’acqua salì odor di rose marce. E l’immagine di una donna vestita di nero, con la faccia gialla e triste.
«Cosa volete?» fece la Martina, e levò svelta fazzoletti e calzette dall’acqua, mica che fosse avvelenata.
La donna non rispose; l’espressione era uguale a quella della Madonna addolorata. La Martina prese la sua cesta e scappò via svelta tra i vicoli e le corti. E la donna dietro, zitta e gialla, con la faccia che metteva addosso la voglia di piangere.
La Martina si voltò due volte, e due volte la vide che la seguiva, ma senza venire troppo vicina, come una che non vuol farsi vedere. Si voltò la terza volta quando arrivò davanti a casa del sindaco Longhi. Il campanile stava battendo le nove.
«Ho bisogno di parlarci al sindaco» disse alla serva. E neanche lei sapeva se voleva dirgli ancora di provare a convincere il Gioàn, o se voleva chiedergli di far menar via la donna dai carabinieri.
Il sindaco si stava vestendo. Alzò gli occhi al soffitto, a chiedere al Padreterno la pazienza di far dietro una volta di più alla Martina, e le mandò a dire di aspettarlo un momento. La Martina, però, vide la donna venire più vicina, le prese la paura e scappò via. Così, quando il sindaco scese in strada, non trovò nessuno, alzò le spalle e tornò in casa a fare colazione con il cioccolatte.
La Martina entrò nella corte quasi di corsa e andò di filato dalla Menghìn, che mondava il riso sull’uscio di casa.
«Ci avete un po’ di tabacco?» chiese, e intanto curava se la donna le veniva dietro fin lì.
La Menghìn fece di no con la testa. La donna sembrava sparita.
«Vado a prenderlo io» disse la Martina.
La Menghìn finì il suo lavoro, poi si mise a tagliar giù due cipolle per la minestra. La Martina andò fino alla privativa, comprò il tabacco da fiuto e tornò con uno scartozzino di quello fino.
«Sei bianca» disse la Menghin. «Stai male?»
La Martina disse che era colpa della rabbia che le avevano fatto prendere. «G’ho el stomech infesciaà» disse, e questa non era una bugia, perché vedere la donna vestita di nero e sentire un peso sullo stomaco erano una cosa sola. Si cacciò nel naso una presa di tabacco e starnutì. L’odore del tabacco le riempì la testa e diede una mossa alle gambe.
La donna la aspettava nella rughetta, nera e ferma come la rusascia. La campana suonò le dieci. La Martina incrociò gli occhi sporgenti della donna, e la notte le scese nella testa e nel cuore.
Le gambe la portarono nella corte del ciabattino, e la donna dietro, attaccata ai piedi uguale alla sua ombra. Il Gioàn stava attaccando un tacco, seduto davanti alla porta della bottega, quando la Martina gli oscurò il sole, fosca e minacciosa come una nuvola di tempesta.
«Martina…» balbettò il Gioàn, e negli occhi le vide passare le sere nei prati e la promessa di un fazzoletto nuovo, per la processione della Madonna. E poi il vestito color ciliegia, e i confetti, e le castagne. E la vita di sposa, con lui in bottega e lei che gli portava il desinare di uova sode e cetrioli dell’orto. E tutto, le sere nei prati e i confetti, le uova sode e la vita di sposa, sprofondava nel pozzo scuro degli occhi della Martina.
«Martina, io…» si alzò il Gioàn, con la voce tremebonda.
La Martina diede un grido, e dalla bocca le uscì la voce del diavolo in persona, uguale a quella strega della Maria Cassina. Puntò il dito in aria, a chiamare il Padreterno a testimone: «Mò ti pago io!» urlò, con la faccia di una che era lì lì a bergli il sangue e mangiargli il cuore. «Giuramento!»
Sputò in terra e corse fuori dalla corte. Il Gioàn restò lì con le guance bianche e le gambe di stracchino a guardarla che spariva dietro il cantone, poi andò di filato a cercare un po’ di coraggio all’osteria.
Col passo svelto di chi ha paura di far tardi, la Martina attraversò i vicoli, le rughette, i cortili. Adesso era la donna ad andare davanti e la Martina a venirle dietro, nera e silenziosa come le ombre lunghe del vespro. Arrivarono in corte, passarono davanti all’uscio della Menghìn, entrarono in casa. Il vestito cilestrino coi bottoncini gialli era appeso al muro, fresco di stiro e di bucato. La donna si sedette sull’unica sedia, con le mani in grembo e il sorriso di compassione delle madonne e delle sante. La Martinachiuse la porta.
In campo, intanto, il Battista aveva ricominciato a zappare e sacramentare. Sentì suonare le undici, e si chiese che fine avesse fatto la Martina; ma sicuro si era fermata al lavatoio a far andare la lingua invece che le mani. Finito con la zappa, cominciò col falcetto, che la siepe veniva avanti troppo e rubava posto alle verze e alle patate. Il sole picchiava forte, e la camicia si attaccava alla pelle chiamando i moscerini a dar fastidio.
«Don! Don! Don!» si fece sentire il mezzogiorno. Il Battista alzò la testa: adesso andava a casa a prenderla e le faceva passare la voglia di andare in giro a ciciarare a suon di bastonate. La Menghìn lo vide attraversare il cortile col falcetto in mano e l’aria sversa da temporale incombente.
«Oggi la Martina si prende le sue canelate…» scosse la testa.
Il Battista entrò in casa della sorella senza neanche bussare: «Martina!» chiamò.
Ma la Martina non poteva rispondere. Pendeva da una trave, con una corda al collo e lì di fianco la scaletta su cui era salita per fissarla al soffitto.
Con un colpo di falcetto, il Battista corse a tagliare la corda, tirò giù la sorella, la sdraiò sul letto. Ma la Martina era già fredda come una biscia.
«Menghìn!» chiamò il Battista. E la Menghìn piantò lì la minestra nel piatto, ché si capiva dalla voce che era cosa grave.
«Gesùmaria!» si segnò la Menghin entrando.
Dietro di lei arrivarono le donne, i bambini del cortile, il sindaco Longhi, e poi anche le autorità della giudicatura mandamentale, venute giù apposta da Cuvio.
E la Martina lì sul letto, già vestita per il funerale, con la veste cilestrina coi bottoncini gialli, in collo il fazzoletto giallo e rosso, e la treccia fissata con gli spilloni d’argento, senza neanche un capello fuori posto.
«Si è appiccata per amore» bisbigliò il sindaco al giudice, passandosi il fazzoletto sulla fronte. Il giudice fece segno di sì con la testa, ma le indagini andavano fatte lo stesso, e disse al Battista che doveva andare a deporre, mettendogli addosso l’agitazione.
Fuori, nel cortile, arrivò per ultimo anche il Gioàn ciabattino, con gli occhi lustri di vino. Fu solo lui a veder sgusciare via, tra gli zoccoli delle donne, una grossa rusascia, tutta nera e luccicante, con le stelle gialle sulla testa e l’odore delle rose appassite.
Nota
Il racconto è tratto fedelmente dagli atti di un’inchiesta del 1863 in Valcuvia, sulla sponda lombarda del lago Maggiore. Nomi, eventi, dettagli dei luoghi e degli oggetti e persino le parole dei protagonisti provengono senza variazioni di sorta dai documenti giudiziari. L’immaginazione dell’autrice ha aggiunto solo la presenza della salamandra, che nella tradizione popolare incarna le forze oscure del mondo e dell’animo umano.

ho vissuto per qualche momento, luoghi e dialoghi a me cari, sentendo la calura e i moscerini muoversi vicini.
grazie per lo splendido viaggio
Paolo
Grazie a lei per il gentile commento!