Tornare ad esserci

foto di Davide Agostini – Musamadre Festival

Il Pubblico Bene di Azzu e Corrias

di Lucrezia Fontanelli

È idea ancora generalmente accettata quella che i bisogni degli esseri umani si distribuiscano secondo una gerarchia. Di conseguenza, le necessità di base come avere cibo e riparo, o in sintesi tutto ciò che è sufficiente alla mera sopravvivenza prevale sulle necessità “superiori”, come il bisogno di relazione e di giustizia. Non è difficile, tuttavia, intuire come un’idea simile rischi di giustificare una disuguaglianza sociale, per cui chi non possiede mezzi materiali sufficienti dovrà rinunciare ad occuparsi delle questioni meno tangibili1 . Un analogo principio, mutatis mutandis, sorregge e alimenta il mito coloniale: l’idea che un popolo “superiore” abbia il diritto e dovere di governarne un altro, assumendosi la competenza di decidere che cosa sia il bene di quest’ultimo perché «un popolo, se non sa contare, non può neanche avere, non può neanche desiderare». L’ultima frase è tratta da Il Pubblico Bene, una performance sullo sfruttamento del territorio sardo attraverso processi coloniali e capitalistici, scritta e realizzata da Simone Azzu e Martino Corrias, già vincitori nel 2024 del Premio Museo Cervi con lo spettacolo Petter: prigioniero politico.

foto di Claudia Virdis – Simone e Martino sull’isola Lindøya, Norvegia, ricerca per Petter: Prigioniero Politico

Il Pubblico Bene è un’opera ibrida tra teatro, musica e arte visiva. Sopra filmati d’archivio della Sardegna Digital Library, concessi dalla Regione Autonoma della Sardegna e dall’Archivio Fiorenzo Serra (degli Eredi Serra Simonetta, Antonio e Paolo), Azzu dà corpo a una voce che assume di volta in volta la forma dell’invettiva, del canto, della dichiarazione d’amore e d’appartenenza a una terra, del dialogo impossibile con individui rimasti senza nome. Corrias, che come Azzu si trova al centro della sala, traduce quello stesso sentire in suoni che mescolano la tradizione all’elettronica e che si fanno, con lo scorrere delle immagini, sempre più serrati, distorti e stridenti, per aprirsi poi ciclicamente in movimenti ampi e dolorosi.

La commistione di sonorità, video e parole colpisce e spiazza lo spettatore, che tuttavia, anziché trovarsi distanziato, si immerge gradualmente in una sorta di trance che non comporta dissociazione interiore né perdita di coscienza, bensì, al contrario, la sua l’attivazione pre-razionale, il suo risuonare coralmente con gli altri partecipanti. Si ha così la sensazione di assistere a un rituale che ha qualcosa di magnetico, ipnotico e insieme di catartico.

I modi del rito si esplicitano nella ripetizione e nella circolarità. La prima diviene evidente verso la metà della performance, quando sullo schermo vanno in loop le immagini di contadini che sollevano e trasportano pietre su una terra che forse non sarà mai loro. Si tratta di uno dei momenti più laceranti, in cui i suoni si fanno duramente percussivi e la voce di Azzu abbandona il registro intimo e familiare dell’apertura per divenire grido: «Sarà una vita all’arrembaggio. Sarà una vita a lavorare per gli altri.» Il finale mostra invece riprese contemporanee della stessa città che aveva aperto la pièce: Fertilia, colonia creata nel 1936 dal regime per italianizzare, con famiglie provenienti dalla sovraffollata provincia di Ferrara, la «poco fascista piana algherese»2. Qui il testo approda ai toni riflessivi di una confessione a sé stessi e quasi si direbbe che respiri, compiute per il momento la rabbia e l’esasperazione. Questa parte, che non figurava nelle prime esecuzioni, non rimanda però solo all’inizio, ma traghetta l’atto poetico al di fuori dello spettacolo, verso il nostro quotidiano. Vengono allora in mente le parole di Atzeni: «il bisogno di conoscere le proprie radici non è fuga utopica in un passato inesistente, ma ricerca di modificare in positivo la realtà presente»3.

foto di Carlo Sgarzi, DAS x Collagene

Una grande forza dell’opera è quella di non appiattire tutta la questione su un presente inconfutabile, ma di inserirla in una prospettiva storica presentata senza pedanteria o affettazione. L’eredità del passato non è infatti trattata frontalmente; emerge piuttosto dalla complessità del discorso, portando progressivamente in superficie e sulla scena la consapevolezza di uno sfruttamento pregresso che senza soluzione di continuità arriva all’oggi. Così, la ripetizione ossessiva del bracciante che dissoda la terra e sposta pietre esprime anche il perpetrarsi di precisi rapporti di potere. Lo sguardo rimane fermamente lucido, la profondità di indagine è mantenuta senza concedere niente all’idealizzazione. Tutto ciò è il risultato di un instancabile lavoro di ricerca artistica dei due autori, sorretto da un sentito impegno etico. In questo modo, anche la dialettica tra questione identitaria, appartenenza locale e problematiche globali rimane proficua, senza scadere nel manifesto.

Quando nel montaggio video, realizzato Claudia Virdis, compaiono sequenze di danze tradizionali (in particolare, del ballo tondo), la voce del performer tace e i sintetizzatori si fanno pieno carico dell’interpretazione. A dominare sono sonorità aspre, che urtano e comunicano una dissonanza con quanto il pubblico vede proiettato. L’attuazione, anche qui ripetuta, dei passi delle danzatrici non è espressione pacificata di festa, ma lamento collettivo, preghiera, mezzo per esorcizzare una narrazione imposta da altri. La musica di Corrias non vuole essere conciliante; punta a risignificare l’immagine, attualizzandola in chiave non folkloristica o esotica.

foto di Amelia Nieddu, dal Festival Grisù

Verso la fine, Azzu denuncia apertamente le logiche tardocapitalistiche che vogliono che la terra sia svenduta a grandi aziende che promettono la sua “valorizzazione” attraverso la riconversione industriale o turistica e la costruzione di hotel di lusso. È la terra, nella sua essenza anche materica, nella sua capacità di accogliere e sopportare, a guidare tutto il discorso de Il Pubblico Bene. Ma uomini e luoghi sono sempre intimamente interconnessi e tale interconnessione è problematica; così la Sardegna è terra di conquista, terra accaparrata, maltrattata, amata, sventrata da un’alluvione, resa in definitiva inabitabile perché alienata dalle comunità locali. In quest’ottica, il cittadino non ha diritto di parola, deve anzi ringraziare che altri si prendano il compito di gestire un bene pubblico che è anche suo, perché si dà come implicito il fatto che egli non sappia e non debba occuparsene.

La ratio tipica dell’odierna gestione del territorio è infatti quella di creare uno scollamento sempre più accentuato tra i luoghi e le persone li abitano e attraversano. Il fatto che la capacità decisionale su di un bene sia presentata irrimediabilmente come in mano ad altri, fa sì che col territorio si perda contatto e non lo si conosca più, perché vengono meno le modalità di viverlo al di fuori di quelle prestabilite, cioè quelle di consumatori. Sentendoci meno coinvolti nella sua gestione, ci sentiamo anche svuotati nella nostra capacità di intervento. De Certeau affermava infatti che l’identità di un luogo è «tanto più simbolica (nominata) quanto più, malgrado la diseguaglianza di proprietà e di reddito fra i cittadini, vi è soltanto un pullulare di passanti, una rete di dimore dentro il flusso della circolazione»4. Migrare, sradicarsi diviene allora un esito comune benché spesso frustrato: chi parte e chi resta sono accomunati dall’essere semplici fruitori; la distanza frapposta per fuggire la condanna d’essere provinciali si traduce nell’impossibilità dell’esserci, di avere una relazione fertile con il presente, con sé stessi e gli altri.

Pavese diceva che «Un pensiero non significa nulla se non è pensato con tutto il corpo»5. Si capisce veramente quando si capisce con il corpo, non con la mente. Sapere qualcosa è infatti diverso dal capire, perché il sapere non necessariamente si traduce in partecipazione. Riprendere, attraverso il corpo, contatto e possesso di ciò che è stato pensato per la comunità ma senza la comunità diventa allora un modo per trascendere non solo il sentimento di impotenza, ma anche la semplice presa di coscienza.

Rielaborando esperienze vicine al Terzo Teatro, fra cui lo stretto rapporto di Azzu con il Teatro Ridotto e il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, dalle quali Il Pubblico Bene mutua anche l’aderenza alla forma del rito, i due artisti occupano uno spazio in mezzo al pubblico, annientando in questo modo la distanza tra performer e spettatore. Azzu, ti chiama in causa, ma non per accusarti, responsabilizzarti, perpetrando una delle dinamiche più care al capitalismo di ultima generazione che è quello di scaricare verso il basso, sempre verso il basso e verso il singolo le responsabilità. Benché infatti l’esplorazione non taccia le varie concause interne ed esterne, l’effetto qui è altro: Azzu chiama in causa lo spettatore perché mentre dà voce a un sentire viscerale comune, riapre anche uno spazio di azione che sembrava negato, impensabile ed implausibile.

foto di Amelia Nieddu, dal Festival Grisù

Per questo, alcuni esperimenti più significativi con Il Pubblico Bene sono quelli in cui successivamente è nato un dibattito con i presenti. È quello che è successo ad esempio a Venezia – racconta Azzu –, una delle città che più soffre il turismo di massa. Gli stessi brutali meccanismi sono ormai evidenti anche a Bologna, dove la performance è andata in scena la prima volta e dove Azzu e Corrias si sono recentemente riesibiti, in occasione della quarta edizione di Grisù – Festival di scritture contemporanee organizzato da Lo Spazio Letterario. La performance si è svolta all’interno dell’Esprit Nouveau, ricostruzione fedele dell’edificio progettato da Le Corbusier per Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes del 1925; un bene pubblico sì, collocato però in uno dei quartieri in cui le logiche della gentrificazione e della privatizzazione di sono fatte più violente negli ultimi anni.

L’intenzione, quindi, non è solo quella di creare consapevolezza attorno alla specifica condizione della Sardegna, ma di stabilire una relazione, incoraggiare e promuovere quelle pratiche che creano comunità – e si utilizza qui promuovere nel senso etimologico del termine: pro-movēre, muovere innanzi, determinare un movimento là dove tutto sembra immutabile e ineluttabile; aprire spazi di dialogo per ridare senso e tornare a decidere di ciò che è bene pubblico. Va da sé che la questione ci riguarda tutti.

 

Il Pubblico Bene
Regia, drammaturgia, testi poetici e attuazione di Simone Azzu.
Musiche e suoni di Martino Corrias.
Progetto video di Claudia Virdis, materiale video tratto da Sardegna Digital Library – concessione: Regione Autonoma della Sardegna e dall’Archivio Fiorenzo Serra degli Eredi Serra: Simonetta, Antonio e Paolo.
Una produzione SHIP e Compagnia Meridiano Zero, con il sostegno di Circolo Sardegna Bologna e DAS – Dispositivo Arti Sperimentali.

 

NOTE
  1. 1 Per queste riflessioni si rimanda in particolare a Wu Ming 2 (a cura di), Bologna. Deviazioni inedite raccontate dagli abitanti, Ediciclo, Portogruaro, 2022, pp. 138-139.
  2. 2 M. Farinelli, Città nuove, colonizzazione e impero. Il caso di Fertilia, in «Passato e presente», XXXI, gennaio-aprile 2013, n. 88, p. 68.
  3. 3 S. Atzeni, Scritti giornalistici (1966-1995), a cura di G. Sulis, Il Maestrale, Nuoro, 2005, pp. 628-629.
  4. 4 M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2012, p. 159.
  5. 5 C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1991, p. 72.

1 commento

  1. Vero, il colonialismo in Sardegna è una questione che riguarda tutti. Bellissimo articolo. Complimenti all’autrice.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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