La resa dell’ordine mondiale

di Isabella Cafagno

Il bombardamento dei siti nucleari iraniani da parte degli Stati Uniti, avvenuto il 22 giugno 2025, segna un ennesimo strappo nell'ideale di un ordine globale regolato da norme condivise. Non è solo l’escalation militare a preoccupare, ma la sfrontata trasparenza con cui la forza si impone senza neanche il bisogno di una narrazione giuridica. Le regole, un tempo fondamento della convivenza fra Stati, sembrano ridotte ad orpelli retorici: oggi decide chi può, non chi ha ragione. E domani, più che una soluzione, ci attende soltanto un nuovo equilibrio del terrore.
Il contesto non è nuovo. Nella Striscia di Gaza, il genocidio palestinese perpetrato da Israele ha prodotto una devastazione umanitaria di proporzioni abissali, tollerata o apertamente giustificata da alleati storici, mentre le istituzioni internazionali si sono ridotte a meri spettatori. In Ucraina l’invasione armata su larga scala iniziata nel febbraio 2022, pudicamente definita dal presidente russo una “operazione militare speciale”, ha innescato un sanguinoso conflitto che si trascina implacabile da oltre tre anni, senza che il Consiglio di Sicurezza sia mai riuscito a pronunciare una condanna efficace, paralizzato dal veto di Mosca.
Ciò che accade oggi, tuttavia, non è solo un tradimento del diritto, bensì anche la conferma che quel diritto – il diritto internazionale, formalmente neutro ed universale – è percepito da gran parte del mondo come uno strumento al servizio dell’Occidente.
Dal Sud globale, l’inclinazione dei leader mondiali a fare delle regole giuridiche teatro di formule burocratiche, mentre sottotraccia i fatti procedono inesorabilmente in senso opposto, sembra invocare giustizia quando a violare l’ordine sia il nemico geopolitico; silenzio o complicità quando ad infrangerlo siano gli alleati. L’ordinamento internazionale, nella sua pretesa universalistica, si rivela così una costruzione profondamente asimmetrica, in cui la neutralità non è altro che un velo dietro il quale si celano rapporti di forza.
In un tale scenario, l’insofferenza crescente di intere regioni del mondo nei confronti dell’ordine giuridico globale non nasce da una rinuncia al diritto, ma da un suo disvelamento: gli stessi Stati che proclamano la sacralità della legalità internazionale sono coloro che ne hanno condotto una violazione sistematica, erodendone lentamente e silenziosamente i principi.

Quanto accaduto in Iran si inserisce, dunque, in un disegno riconoscibile, in cui l’uso della forza militare, diretto o per procura, porta all’eclissi di ogni vincolo di legalità internazionale, a vantaggio di decisioni unilaterali sempre più spregiudicate, relegando la diplomazia a pura scenografia.
Abbiamo creduto, per qualche decennio, che le ferite inferte dalle guerre mondiali si fossero
cicatrizzate, che la memoria dell’orrore potesse immunizzare il mondo dal ritorno dell’arbitrio armato. L’illusione è caduta nel momento in cui la cicatrice è tornata a dolere, mostrando quanto i pilastri sorti sulle ceneri della Seconda guerra mondiale – dalle sentenze di Norimberga alla nascita dell’ONU a San Francisco – siano friabili.
Il diritto internazionale sopravvive finché qualcuno lo reclama, nelle aule dei tribunali, nelle
assemblee parlamentari, nella coscienza collettiva; se aridamente trascurato, prevale la legge del più forte, sostenuta da una coltre d’indifferenza: l’ombra nera che oggi grava sull’Occidente.
Cosa accade, allora, quando le società che hanno a lungo subito abusi strutturali, in nome di un ordine “liberale” mai realmente vincolante per chi l’ha imposto, smettono di riconoscere nel diritto un baluardo di giustizia ed iniziano a scorgere l’ingranaggio di un meccanismo di dominio? Accade che si spezza il legame simbolico su cui si fondava la legittimità dell’Occidente: la convinzione che le sue regole potessero, un giorno, valere per tutti.
L’Occidente rischia oggi di perdere non solo legittimità morale, ma anche una lingua condivisa con il resto del mondo, perché i segni di una menzogna accuratamente costruita, veicolata dalle narrazioni ufficiali che invocano “interventi mirati per la stabilità regionale” mentre violano ogni residuo principio di legalità internazionale, hanno già cominciato ad emergere, portando l’epilogo a riaprire il primo capitolo di una storia già letta. Non è la fine di un conflitto, bensì l’inizio della resa dell’ordine mondiale.

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giuseppe acconcia
giuseppe acconcia
Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente di Storia delle Relazioni internazionali all'Università di Milano Statale e di Geopolitica del Medio Oriente all'Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze Politiche all'Università di Londra, è stato Visiting Scholar all'Università della California (UCLA – Centro Studi per il Vicino Oriente), docente all'Università Bocconi e all'Università Cattolica di Milano (Aseri). Si occupa di movimenti sociali e giovanili, Studi iraniani e curdi, Stato e trasformazione in Medio Oriente. Si è laureato alla School of Oriental and African Studies di Londra, è stato corrispondente dal Medio Oriente per testate italiane, inglesi ed egiziane (Il Manifesto, La Stampa, Huffington Post, The Independent, Al-Ahram), vincitore del premio Giornalisti del Mediterraneo (2013), autore del documentario radiofonico per Radio 3 Rai “Il Cairo dalle strade della rivoluzione”. Intervistato dai principali media mainstream internazionali (New York Times, al-Jazeera, Rai), è autore de Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), The Great Iran (Padova University Press, 2018), Liberi tutti (Oedipus, 2015), Egitto. Democrazia militare (Exorma, 2014) e La primavera egiziana (Infinito, 2012). Ha pubblicato tra gli altri per International Sociology, Global Environmental Politics, MERIP, Zapruder, Il Mulino, Chicago University Press, Le Monde diplomatique, Social Movement Studies, Carnegie Endowment for International Peace, Policy Press, Edward Elgar, Limes e Palgrave.
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