L’altra morte

di Enrico Santoro
C’era una croce di pietre bianche non distante dalla riva, dove erano stati seppelliti i cadaveri. Gli uomini le si avvicinavano come verso un patibolo, come se i corpi verso cui si dirigevano fossero i loro e gli toccasse di sdraiarcisi dentro a fissare per sempre un immobile buio. Uno in coda alla fila, si chiamava Byron, disse che il mare in quell’ora suonava come una condanna pronunciata tra lo scherno dei gabbiani, che il cielo scendeva su ogni cosa come una luminosa mannaia.
Due soldati facevano strada nel pomeriggio bianco, portavano ognuno una vanga e parevano i diarchi di una tribù del deserto, gemellata da millenni all’orizzonte. Quando raggiunsero la croce si voltarono verso gli altri per accertare la necessità di quel sacrificio, sentirono parlare in una lingua che non comprendevano finché un ufficiale gli ordinò di procedere.
Percy Shelley ed Edward Williams erano morti più di un mese prima, i loro amici avevano insistito per riesumarli come fosse un diritto delle loro anime, scontata una celeste quarantena. Eccetto loro, tutti i presenti vedevano in quel gesto qualcosa a metà tra il sacrilegio e la violenza. L’ufficiale, impartecipe sia della pietà del popolo che dell’idealismo dei signori, credeva si trattasse di una immane vanità, che quegli uomini sarebbero morti una seconda volta e il mare avrebbe sommerso le parole di chi li amava.
Ci volle quasi un’ora perché i resti di Williams affiorassero nel solleone guasto. I soldati scavavano e bevevano e un uomo dagli occhi scuri li fissava come fossero spettri emanati dalla sua volontà per compiere azioni al di là del pudore umano. Di tanto in tanto abbassava lo sguardo su un fazzoletto di seta ritrovato scavando, ne leggeva il ricamo, E.E.W., sorpreso che “le viscere di un verme dureranno più del fango di cui sono fatti gli uomini”, che quelle iniziali non si scucissero come la carne di chi le aveva possedute e fossero al contrario la più valida testimonianza che quel corpo non fosse chiunque. Pensò che tre lettere bastavano a reggere la storia di un uomo, dai giorni che aveva vissuto a quello in cui per l’ultima volta qualcuno si sarebbe ricordato di lui. Si chiese se il suo nome, Edward Trelawny, fosse degno di rappresentare la sua vita e gli parve di no.
Si incendiarono le spoglie tra i segni di un rito che non apparteneva più a nessun uomo e che era più antico degli uomini stessi. Mentre quelle bruciavano, Byron e Trelawny avevano preso il largo e fissavano il fuoco divampare sulla riva come un secondo, decadente sole. Byron notò che ormai tutti gli elementi avevano infierito su quel corpo, senza che si potesse dire se in ciò vi fosse amore, contesa o una perfetta indifferenza. Disse che temeva il cadavere di Shelley, e pensava a quello di Cristo, alla sua puntuale ed opportuna sparizione, l’astuzia di Dio affinché gli uomini credessero per sempre. “Vedremo il suo corpo e quello annienterà ogni fede.”
Trelawny sorrise come davanti alla superstizione di un selvaggio, poi si fece serio, spiegò che non sarebbe cambiato nulla. “Ogni corpo è lo stesso, dall’inizio dei tempi. Ogni morto è tutti i morti”. O Dio ci muore accanto o non esiste.
*
Williams sedeva a riva in un orlo di luce, i piedi scalzi e la camicia setacciata dai pesci, un fazzoletto di seta gli si avvolgeva attorno al collo con una importuna eleganza. Tra le mani teneva uno stivale che riempiva e svuotava di sabbia, come un dio che distrattamente imponesse lo scorrere del tempo. Non sentì l’amico avvicinarsi, sederglisi accanto.
“Che ti è successo, Edward?”
“Quello che succede a chiunque, immagino.”
“In genere se ne vanno più asciutti.”
Il cielo era un battesimo di luce, stelle sparse lo attraversavano come rondini lungo i sentieri di un’ancestrale migrazione, quelli per cui forse il mondo era uscito dal buio, nel suo primo giorno.
“Tu sai cosa ci è successo?”
“Abbiamo imprecato su un sole scomparso e l’acqua ha ingoiato le nostre voci, come fosse una nascita inversa, un’origine storta, per ritrovarci dall’altro lato del mondo. Ma dove siamo adesso, siamo solo di passaggio.”
Williams approvò, ricordò a Shelley la notte in cui gli aveva sentito urlare quel destino dal suo letto. “Hai sognato questo stesso corpo che vedi adesso, sulla soglia della tua stanza”.
“Tu mi gridavi di sbrigarmi, che l’acqua ci invadeva e le cose crollavano. E io guardavo fuori e il mare mi pareva identico a una bestia in assalto, incolpevole e fedele solamente alla sua fame.”
Williams si voltò verso l’amico, vide gli occhi scintillare come perle nel viola sfigurato del suo volto, le dita come coralli. Pensò che il mare avrebbe voluto tenere quel corpo ma la terra l’aveva reclamato a sua volta, che infine l’avevano preteso gli uomini, perché il corpo del poeta equivale le sue parole, altri se ne appropieranno per conficcarvi le loro insopportabili morti, la gioia. “Domani bruceranno il tuo cuore e nascerai l’ennesima volta.”
Shelley vide nella propria immortalità e si sentì come uno condannato a scrivere per sempre il proprio poema sulla sabbia, a cominciarlo da capo quando le onde del mare vi passano sopra, inseguendo una parola irraggiungibile e finale. “Io che credevo nell’effimero dei giorni.”
Williams si alzò in piedi. “Condannato alla vanità delle cose immortali” disse, e prese a camminare. Il poeta lo guardò immergersi, sparire nello scintillio lunatico del mare, sciogliersi nell’acqua come un’ostia nera.
Shelley fece qualche passo a sua volta, un vento orientale si precipitava assurdamente verso il mare e gli imponeva a tratti di chiudere gli occhi, riaprirli di volta in volta su un mondo nuovo, di cui nessuno avesse ancora mappato i cieli. Si sdraiò perché quella furia sprofondasse i frantumi del suo corpo, come una cosa perduta lì da millenni. Allora sperò di morire per sempre.
*
Al mattino gli uomini replicarono in silenzio i gesti del giorno precedente, nell’azzurra violenza di un cielo nuovo. Scoprirono il corpo “come un branco di lupi che dissotterri la sua preda”, lo gettarono tra fiamme di cui Trelawny volle appuntare l’aspetto.
Byron pensò che il duplice martirio di quei giorni fosse abbastanza per erigere un tempio, che da allora fino alla fine del mondo qualcuno si sarebbe recato su quella spiaggia con il proprio equivoco olocausto, a celebrare un dio dal nome e dai disegni sconosciuti.
Pensò che ci fosse più verità in quel corpo che in qualsiasi poema, che il giorno seguente alla fine del mondo, dimenticate le sue opere e ogni scrittura umana, i superstiti avrebbero continuato a leggere pretendendo il divenire tra le viscere rovesciate di una bestia, un linguaggio anteriore alla creazione stessa.
Quando fu il momento gli uomini svuotarono la fornace, la raffreddarono tra il gorgoglio dell’acqua e al poeta parve di sentirvi sussurrato un indecifrabile elogio. Poi vide il mare rintanarsi in un immemore silenzio, al riparo dal suo splendore e dai suoi peccati, e ne provò invidia.

Una bella fotografia in prosa di un momento così iconico e drammaticamente sublime! Si avverte l’eco di una vitale e sfilacciata fratellanza spirituale.. poiché ancora oggi c’è chi crede che il poeta (il vero poeta) sia una sorta di frale semidio smarrito tra gli uomini, una guida inattuale e un custode desolato di virtù e bellezza.
Grazie a Davide Orecchio per averlo pubblicato, non sono riuscito a contattarla via mail.