Il verso cetaceo di Vincenzo Frungillo
di Toni D’Angela
La parola, scriveva Maurice Blanchot ne L’infinito intrattenimento (1969), è non-rapporto, anzi: follia. Le parole e le cose, come sapeva Foucault, non vanno d’accordo: c’è dualismo, discontinuità e differenza. Parlare non è vedere. In un capitolo di quel libro Blanchot scrive: “Scrivere non vuol dire far vedere la parola” e vedere, continua Blanchot, “presuppone una separazione misurata e misurabile”. Parola e sguardo non si raccordano. “La parola è guerra e follia per lo sguardo”. I versi cetacei della plaquette (Premio Ciampi 2024) suddivisa in quattro sezioni Cani, gatti, topi vegliano sulle necropoli di Vincenzo Frungillo, edita nel 2024 da Valigie Rosse, sono questa follia che, in fondo, dice anche quel male che “ha invaso la storia”. Follia animale, il dire di Frungillo è animale, altro. Homi Bhabha nel libro I luoghi della cultura del 1994, chiama questo straniamento traduzione. La traduzione, scrive Bhabha, è lingua in actu (enunciazione, posizionamento) piuttosto che lingua in situ (enunciato, proposizione). Se la nominazione fissa, la traduzione fa risuonare i diversi spazi e tempi, è movimento. Bhabha si ispira a Benjamin e al suo concetto di “estraneità delle lingue”, per cui il compito della traduzione non è ricondurre il diverso all’identico ma tenere aperta la comunicazione e perfino l’intraducibilità. Questa “estraneità” non è un punto debole, ma mantiene il linguaggio costantemente aperto, come un confronto sempre aperto. Sapere è eresia, cioè passare da un sistema eterogeneo all’altro, è quello che ha sempre cercato Pasolini nei romanzi, nelle poesie e soprattutto nei film. Questa estraneità è quella che, pure nell’età delle catastrofi e del “crollo verticale” (delle Torri Gemelle che segna un “confine di due ere”) della sezione “I topi” Frungillo chiama “il rovescio che ci tiene insieme”, forse un altro nome per dire animalità, quell’animale che dunque (non) sono.
Kafka, alluso nella prima sezione della plaquette, come un’ancora, ci trattiene, ci piomba nel nostro incessante allontanarci, fluttuare nella tempestosa fiumana digitale che accumula rovine e ce le rovescia ai piedi, come diceva Benjamin, o forse tra i files da cestinare, tra i flussi di parole e numeri di cui parla Don DeLillo in The Silence (2020). Il rumore bianco, cui allude anche Frungillo, è ormai uno schermo ininterrotto che a volte diventa nero. “I codici della rete cadono su una sagoma arenaria”, scrive Frungillo, come se fossimo dentro un ibrido arcaico/tecnologico cronenberghiano. La tempesta, il male nella storia, lascia dietro di sé “residui umani” ma anche “versi” perché “il mausoleo è fatto di parole” (Quarta sezione, “Le necropoli”). Ancora una volta in Frungillo la parola (si) leva e nella parola “tutti saremo risorti”. La parola che, a dispetto della catastrofe, quella della storia e quella, magari, che è la leopardiana dolenza (quasi una sorda dolenzia rispetto al kantiano “cruccio” della storia così chiassoso), suona, profuma, è panorama nonostante le macerie e tiene la terra. La parola è “il battesimo”. Nel racconto (l’ultimo) di Kafka Giuseppina la cantante ossia il Il popolo dei topi, l’umano e l’animale sono in un rapporto di reversibilità. Kafka ironizza su tutti i rapporti di gerarchia, mostrandone l’artificiosità. La parola è estraneità, è il topo che danza a Washington Square e spezza “i molossi di vetro” ma anche “il punto della vita da cui fare entrare luce”. Le colpe, le ombre di un sogno tradito (quando l’umanità ha sognato per l’ultima volta, come scriveva Toni Negri nell’anno 2000) ma poi Washington Square, quantomeno, è anche quella non solo di Dylan, ma pure di Buddy Holly. “Spezzano il giorno” i topi di Frungillo spezzano il giorno, quelli di Kafka tentano di scuotersi di dosso “tutti gli affanni della giornata”. I topi parlano? La loro è voce? Ci lasciamo alle spalle Aristotele e Heidegger, di cui conosciamo le risposte ormai insopportabili. I topi fischiano. Quel nulla di voce kafkiano si impone e trova la via, nomina quella cosa che non è parola e nominandola testimonia il non-rapporto, la differenza, quel nulla di voce è, come scrive Frungillo alla fine della plaquette, “musica delle sfere”.
L’animale trova la via: è il verso cetaceo, quel nulla di voce. I cetacei sono un infraordine, un ordine o raggruppamento inferiore, “di scarso valore sistematico” recita la Treccani. Ma è questa animalità mostruosa (il cetaceo per Aristotele è ketos) che, nonostante l’irriducibile differenza, mantiene fluida la comunicazione, il passaggio da uomo a animale, vita a morte, parola a cosa. La parola di Frungillo è fusiforme, ha uno strato grasso che altrove abbiamo chiamato, classicamente, materialismo. Come il fischio dei topi kafkiani, che libera dalle “catene della vita quotidiana”, così i topi che danzano, i gatti che sono testimoni e i cani che vegliano di Frungillo. Animali (topi, gatti, cani) sono vibrazioni, un nuovo linguaggio, una via d’uscita: il linguaggio, la via d’uscita?
La poesia di Frungillo è questo strato animale, questa fatica di tenere insieme, perfino il prima e il dopo, e non solo quello marcato dal crollo newyorkese o dall’analisi di Baudrillard, perché “il tempo è eterno” o, con Rilke, è quello dei “giorni immemorabili”. Fare poesia, scrive Frungillo, è “tracciare linee”, come fa il coyote di Donna Haraway. Allora la scrittura è e deve essere ancora tassonomia, tenere insieme. La scrittura è animale.
“Tutto è nato con gli animali
e tutto finirà con gli animali
I loro occhi sono il contatto
tra ciò che proviamo
e ciò che diciamo”.
Ecco il transito, l’Ubergang kantiana, il passaggio tra le differenze irriducibili, “transiti per altri mondi”. I versi di Frungillo sono questi cani che vegliano e transitano. Loro non muoiono, come le parole. “Gli animali indicano l’aperto”, scrive Frungillo. Nel 1946 Heidegger (A che poeti?) vuole rendere omaggio a Rilke ma nel suo pensiero abissale opera ancora il ricordo dei Concetti fondamentali della metafisica del 1929-30. Jean-Christophe Bailly (Il versante animale, Contrasto, Roma 2021) ritorna sui famosi versi di Rilke dell’“Ottava Elegia”. Lo sguardo dell’animale è aperto, sospeso sull’immenso, non è un occhio teso come una rete che vuole catturare l’aperto, come l’occhio umano. Ma, come ricorda Blanchot, scrivere non è vedere. Gli animali, e con essi le parole, i versi che sono animalità, “contemplano la genesi”, scrive Frungillo, come, e lo diciamo con Rilke, il mondo si rivelasse “nel calmo volto d’animali”, che, scrive Frungillo, sono “emblemi di un’altra era”. Le parole come cani soffiano nella polvere, ci guardano dentro e mangiano il male che ci mangia. Siamo (sempre e ancora) sulla soglia, ci dicono Rilke e Frungillo.
