Parlare o tacere su Gaza. Scrittori e artisti alla prova del genocidio

Di Andrea Inglese
Quando quello che sta succedendo sarà abbastanza lontano nel tempo, tutti si chiederanno sbigottiti come mai si è permesso che accadesse.
Omar El Akkad
Gaza è crollata sulle norme di un diritto internazionale costruito pazientemente per scongiurare la ripetizione delle barbarie della Seconda Guerra mondiale.
Jean-Pierre Filiu
Le corporazioni di artisti, scrittori, docenti universitari: un caso di studio
Il comportamento intellettuale che le corporazioni di artisti, letterati e professori universitari, in occidente, hanno avuto in seguito al 7 ottobre di fronte allo sterminio della popolazione palestinese di Gaza costituisce e costituirà un caso di studio sociologico per le generazioni future. Nella gerarchia dell’infamante accusa di complicità al genocidio[1] dei palestinesi queste corporazioni si situano al terzo posto per grado di responsabilità. Il primo posto lo occupano solidamente la maggior parte dei governi occidentali e le istituzioni internazionali come l’Unione Europea. Qui c’è poco da studiare: la loro consapevole e volontaria inerzia è sotto gli occhi di tutti, così come le loro responsabilità morali e politiche. Al secondo posto vi è la categoria dei giornalisti e degli opinionisti (occidentali)[2]. Molti di loro collaborano attivamente o hanno collaborato almeno fino a date recenti, a rendere plausibile la propaganda del governo israeliano. Altri, una minoranza, hanno deciso abbastanza presto di farsi canale di diffusione dei giornalisti palestinesi, gli unici a cui era consentito essere testimoni, a rischio della loro vita, dei massacri e delle distruzioni di Gaza. Infine, al terzo posto, i portavoce di una sedicente “coscienza critica” o dei sedicenti valori dell’”umanità”: artisti, scrittori, studiosi. Più questi portavoce si trovavano prossimi o interni a una zona di “ufficialità”, meno, nella maggior parte dei casi, si sono espressi chiaramente e tempestivamente in pubblico. Per parte mia, ho guardato a questo fenomeno con un misto di disincanto e d’incredulità. Ciò che conoscevo della storia europea, e del ruolo che le cerchie artistiche e intellettuali vi hanno giocato, mi portava ad attendermi un certo comportamento, ma nello stesso tempo lo osservavo incredulo. Come ora osservo incredulo il mutamento di tendenza, palpabilissimo sui social network.
La ragioni del silenzio
Perché – ci si chiede spesso negli ultimi tempi soprattutto sui social – gli scrittori, gli artisti, gli intellettuali (non si usa quasi più), i docenti universitari non parlano di Gaza, non prendono posizione su Gaza, non si esprimono contro la politica Israeliana, non denunciano il genocidio? Un genocidio in atto o, per i più prudenti, il rischio di genocidio in atto, dovrebbe riguardare tutti coloro che hanno l’occasione di prendere la parola in pubblico. Soprattutto se appartengono a paesi, i cui responsabili politici potrebbero intervenire sulla situazione, facendo pressione su Israele, bloccando la vendita di armi, ecc. Soprattutto se in qualche momento della loro vita pubblica o persino privata si sono dichiarati sensibili a questioni come il rispetto degli esseri umani in quanto tali, indipendentemente dalla loro origine etnica o dalle loro pratiche religiose o dalle scelte politiche, ecc. Ci sono, in teoria almeno, diverse ragioni perché gli scrittori, artisti, ecc. “progressisti”, avrebbero dovuto reagire pubblicamente, o almeno sulle loro bacheche social, di fronte a quanto abbiamo visto accadere a Gaza già nei mesi immediatamente seguenti al 7 ottobre. Dico, in teoria, perché da un po’ di anni a questa parte, e specialmente negli ultimi due anni, tutte le convinzioni, le opinioni sul mondo, che i “progressisti” avevano sono state messe a dura prova. I progressisti, infatti, hanno costruito le loro idee non su ingenue concezioni del mondo, ma su principi che si trovano anche alla base delle carte istituzionali dei paesi a cui appartengono, alla base di valori trasmessi dai loro sistemi pubblici d’istruzione, alla base delle istituzioni nazionali e internazionali che, soprattutto in occidente, rivendicano orgogliosamente una loro diversità, se non superiorità, rispetto a principi che agiscono in altre culture, in altri paesi, in altri regimi non-occidentali. Ebbene, un movimento profondo che tocca simultaneamente le mentalità dei cittadini occidentali come le loro istituzioni, le forme del discorso come le forme di vita, ha creato una divergenza sempre più evidente tra quello che i regimi politici e istituzionali fanno, da un lato, e quello che, fino a un po’ di tempo fa, avrebbero dovuto fare, in quanto eredi di tutta una serie di principi “progressisti”[3]. Un marxista ribatterà: “Ma questa divergenza c’è sempre stata!” È probabilmente vero, anche perché i principi “progressisti” di un marxista non sono gli stessi di un socialdemocratico, ecc. Ma la novità di questa fase storica, è che la divergenza non avviene in seno a concezioni concorrenti di un modello sociale, ma proprio all’interno del DNA progressista comune a tutto il mondo cosiddetto occidentale (e si consideri l’arco che va dal Nord America al Giappone), almeno dal dopoguerra in poi.
Questa divergenza, per chi ne ha preso consapevolezza, dovrebbe di conseguenza riguardare anche le modalità di comportamento di quella provincia ristretta, ma non irrilevante, costituita dalle cerchie di artisti, scrittori, ecc., nei vari paesi occidentali. Anche qui le tendenze di fondo si sono fatte sentire. Anche qui “l’incrollabilità” di determinati principi è divenuta molto relativa: più del principio conta il consenso, conta la fluttuante opinione pubblica, che incide sul pubblico di questi stessi artisti e scrittori. Sono universi di valore divergenti, funzionanti secondo logiche diverse, che sono giunti violentemente a confronto. È più urgente difendere il rispetto della persona umana o il consenso del pubblico nei confronti della propria opera, eventualmente del proprio “brand” autoriale? Credo che potremmo azzardarci a formulare una legge non gloriosa, ma abbastanza realistica: “più il capitale d’interesse e simpatia del pubblico” è grande per un autore – e, quindi, più le sue prese di posizione pubbliche hanno visibilità –, meno questo autore si sentirà autorizzato a rischiare una perdita di questo capitale, formulando posizioni di minoranza, facilmente contestabili rispetto alle tendenze dell’opinione pubblica. I principi che riguardano il rispetto della persona umana sono senza dubbio condivisibili, ma oggi persino il presidente della superpotenza mondiale li mette in discussione. Quindi perché mai la responsabilità di difenderli dovrebbe ricadere sulle fragili spalle dell’autore, che si è guadagnato con grande fatica un capitale di consenso tra i lettori? Logiche neoliberiste di incremento del capitale simbolico e logiche umanistiche di difesa di “astratti” valori universali si combattono, con esiti che possono andare dal tiepido compromesso alla resa più incondizionata di fronte alla concretezza dei vantaggi forniti dalla preservazione del consenso.
Ma se anche ci basiamo, con occhio sociologico e retrospettivo, sul comportamento di artisti, scrittori, intellettuali nel corso del Novecento, non c’è nessuna ragione per pensare che queste cerchie della società, di fronte a scelte personali difficili, siano più propense a prendere rischi rispetto ad altre cerchie sociali. Anzi, ogniqualvolta queste persone, in virtù delle loro competenze e talenti, hanno acquisito ruoli eminenti (“ufficiali”), appare più evidente la loro incapacità di metterli in pericolo. Più sono celebri e inseriti nelle diverse istituzioni culturali, più autori, artisti e intellettuali hanno qualcosa da perdere, andando contro le opinioni della maggioranza o di governi poco democratici se non apertamente autoritari. Quindi il loro “conformismo” ha fatto scuola. È un dato, purtroppo largamente acquisito, che si è ampiamente verificato anche oggi in occasione del conflitto tra Israele e la popolazione palestinese. Conflitto che, nato come reazione a un terribile attacco terroristico, si è poi trasformato in una rappresaglia militare contro una popolazione intera, e ha proseguito in questa direzione, imboccando la strada macabra e infame di uno sterminio di popolo.
Insomma, io stesso in gioventù, leggendo Sartre, Fanon, Anders, Fortini, ci ho creduto. Ma non ci credo più da un pezzo: artisti, intellettuali, accademici, scrittori non sono di per sé la coscienza di un bel nulla, certamente non della società. Sono, semmai, soggetti più di altre categorie sociali, al conformismo, con tutto quel condimento d’ipocrisia e viltà che esso si porta dietro. Questo non è un fatto di cui scandalizzarsi – lo sapevamo –, ma un dato di cui ancora una volta prendere atto.
Per chi era inevitabile parlare
Quanto scritto fino a ora, non vuole però sostenere che tutti gli scrittori e artisti sono conformisti, né che la loro voce è irrilevante. In Occidente, dagli Stati Uniti all’Europa, e persino all’interno di Israele, si sono levate tempestivamente voci per denunciare quello che stava accadendo a Gaza, per situarlo in un preciso contesto storico, per mostrare come esso contrastasse con la maggior parte dei principi che dovrebbero cementare le nostre società. Queste voci costituivano, però, nel coro mediatico, una minoranza, e in molti casi hanno subito attacchi molto forti, anche perché giungevano da persone interne a una certa “ufficialità”. Assieme a queste voci si sono fatte sentire, accompagnate da azioni di vario tipo (manifestazioni, presidi, occupazioni), quelle di coloro che non avevano né arte né parte: gli studenti liceali e soprattutto universitari. E in modo inequivocabile gli studenti senza arte né parte, con la loro voce anonima, hanno dato una lezione ai loro padri, alle grandi firme del mondo accademico. “Ma come – dicevano questi studenti – ci avete rintronato le orecchie dalle scuole elementari con i valori della pace, dell’uguaglianza, della democrazia, dell’autonomia dei popoli, della pericolosità del razzismo, della sacralità dei diritti umani, e ora di fronte a bombardamenti di case, luoghi religiosi, scuole, università, ospedali, campi profughi, civili, fate finta di niente? Dite che tutto questo è legittimo, tollerabile?”
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Provo a parlare ora al di fuori della “generalità”, per aggiungere una riflessione che tenga conto anche della mia diretta esperienza personale. Io faccio parte di quelli che hanno sentito l’esigenza di parlare molto presto di quanto si stava delineando all’orizzonte di Gaza, in seguito al 7 ottobre. Ho deciso di farlo pubblicamente, nel modo più inequivocabile possibile, ossia su un blog pubblico, e non solo sulla mia bacheca social. Non faccio parte di nessun ufficialità letteraria, pur essendo scrittore, né di nessuna ufficialità accademica, pur essendo un ricercatore (senza cattedra). Quindi non ho meriti particolari per averlo fatto. Insomma, non mi muovevo in una zona di “grande visibilità”. L’unico merito che rivendico è quello della coerenza. Sono uno scrittore che sostiene l’importanza di una visione politica sul mondo, anche se questo non si traduce per forza in qualche forma riconoscibile di letteratura impegnata, e quindi era inevitabile che quanto stava succedendo a Gaza m’interpellasse, e mettesse in secondo piano progetti e scritture “letterarie”. Con questo non intendo dire che la scrittura letteraria dovrebbe tacere di fronte al genocidio di Gaza; dico solo che, per me, era inevitabile scrivere su Gaza, perché c’era qualcosa di abnorme in corso. E siccome la scrittura è per me una forma di esplorazione, di ricerca (anche documentaria) e di tentativo di comprensione, era necessario farlo, per uscire dalla paralisi intellettuale e dall’effetto oscurante della propaganda mediatica.
La difficoltà di scrivere su quanto stava accadendo a Gaza, già nelle settimane seguenti al 7 ottobre, credo che sia dipesa innanzitutto dall’impossibilità di abbordare il discorso su un piano esclusivamente umanitario. Qualcuno ha anche tentato di farlo, ma con scarsa efficacia analitica. Il conflitto tra Israele e Gaza esigeva, come esige tutt’ora, di essere affrontato attraverso una prospettiva politica, ossia di parte. Questa prospettiva non implica la negazione dei principi “progressisti” di cui ho parlato precedentemente, né di quelli del diritto internazionale, che quei principi tentano di rendere concreti nella realtà. La prospettiva politica semplicemente richiede la consapevolezza di entrare in un dibattito in cui, pur non essendo né palestinesi né israeliani né membri delle due diaspore (nel mio caso), quello che si dice, prende partito inevitabilmente, e si presta quindi alla contestazione e all’attacco di uno dei soggetti in causa. Accettare di parlare in una prospettiva politica significa perdere la neutralità, che un giudice super partes potrebbe avere, e significa perdere quel consenso che una semplice difesa di un astratto principio morale garantirebbe. E non solo l’autore di un tale discorso si rende vulnerabile rispetto a contestazioni e attacchi di qualcheduna della parti coinvolte nello scontro, ma anche si espone al proprio errore, insito in ogni risposta politica.
Nel primo pezzo che ho dedicato, qui su Nazione Indiana, agli eventi di Gaza (16 ottobre 2023), scrivevo, ad esempio, questa frase: “Israele potrebbe al limite ammazzare tutti i membri di Hamas, e con essi un numero enorme di “vittime collaterali” innocenti, ma non potrà comunque sterminare tutti i palestinesi. Questo gli stessi cittadini israeliani (la maggior parte di essi) alla fine non lo permetterebbero”. Non so cosa significhi “alla fine”, ma è chiaro come sia stato ingenuo e poco realistico. Per più di un anno e mezzo, solo una minoranza coraggiosa di israeliani si è opposta veramente alla politica di sterminio che il governo ha reso sempre più evidente con il passare di mesi e la crescita delle vittime civili.
Vengo ora alle conclusioni. Scrivere pubblicamente contro un’opinione di maggioranza, e in un contesto di propaganda bellica, comporta sempre dei rischi per chi lo fa. Ma questi rischi sono proporzionali alla visibilità, all’ufficialità di chi scrive. La bancarotta morale e politica degli Stati Uniti, dell’Europa e di tutto l’Occidente è non solo palese, ma irreversibile. In questa bancarotta, sono coinvolti anche i settori culturali, oltreché quelli politici e giornalistici. Per quanto riguarda artisti, scrittori, studiosi, più vergognosi sono stati i silenzi, le prudenze, i ritardi, di coloro che, in tempi ordinari, rivendicano una visione politica della scrittura o, comunque, si rifanno spesso ai principi “progressisti”, largamente condivisi. Non biasimo né gli scrittori impolitici né quelli radicalmente pessimisti, che non credono nei principi “progressisti”, senza per questo aderire a qualche forma di fascismo o di ideologia reazionaria. Il loro silenzio, condivisibile o no, è quanto meno coerente. Lo è molto di meno quello di coloro che amano parlare di “morale”, “umanità”, “bellezza”, ecc., o di temi più politici come “uguaglianza”, “classe”, “femminismo”, “ecologia”, ecc.
È molto interessante, infine, da un punto di vista sociologico, vedere l’evoluzione delle opinioni e dei comportamenti intellettuali di maggioranza. A partire da quando, la gente, sui social, comincia davvero a interessarsi al destino dei Palestinesi e alle malefatte dell’esercito israeliano? A partire da quale momento, da quale sommovimento collettivo in parte inconsapevole si mettono like su certi interventi e si condividono certi articoli?
Sarebbe interessante studiare le bacheche di scrittori e scrittrici “ufficiali”, ma anche di quelli più “politici”, per vedere come il discorso “social” è progressivamente evoluto. Io ho fatto una piccola ricognizione sulla mia bacheca Facebook, per quel poco che un tale conteggio abbia di significativo.
Il mio primo articolo sulla vicenda è del 17 ottobre, e nasce come risposta a un articolo di Paolo Giordano apparso il 9 ottobre sul “Corriere della Sera”. S’intitola La tentazione di decontestualizzare e il dovere della narrazione. Sul conflitto tra Israele e Hamas. Giordano, dalla sua posizione “ufficiale” di romanziere popolare e di editorialista del “Corriere”, fornisce un tipico tassello al discorso di propaganda: la strage di civili realizzata da Hamas è il colmo dell’orrore, e non ha alcun senso inserirla in un contesto storico-politico. (Più di un anno dopo, ho ritrovato la firma dello stesso Giordano sotto un appello formulato da Paola Caridi e altri, dal titolo “L’ultimo Giorno di Gaza 9 maggio – L’Europa contro il Genocidio”. Cambiare idea e posizione è spesso un buon segno, ma chissà se, nel caso di Giordano, ciò si è accompagnato a un’autocritica pubblica.)
Comunque, pubblicato sulla mia bacheca FB, il post riceve 39 like e 10 condivisioni. Un’adesione stranamente generosa, rispetto ad altri articoli miei linkati nei mesi successivi. 15 dicembre 2023, condivido un importante articolo di Mediapart sulle caratteristiche specifiche del colonialismo israeliano, un articolo che raccoglie testimonianze di vari specialisti, e che presenta la questione come sottoposta a dibattito; come al solito accompagno l’articolo con un commento per contestualizzare, e con la traduzione di un passaggio: nessun like. 8 dicembre 2023, condivido un mio lungo articolo apparso su NI intitolato La trappola e il diniego: riflessioni a margine della guerra; 6 like. 1 maggio 2024, condivido un altro mio intervento La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca; 4 like. 17 dicembre 2024, è la volta di Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler;16 like e 1 condivisione. In tutt’altro contesto di “dibattito social”, uno dei miei ultimi post molto informativi sulla questione (l’annuncio di Macron di riconoscere la Palestina come Stato di fronte all’ONU) ha ricevuto 104 like e 10 condivisioni.
Certo, sappiamo ormai che Facebook in particolare ha operato fino a una certa data lo shadowban, ossia una politica di moderazione non esplicita, diretta a rendere meno visibili certi contenuti. Ma trovo comunque interessante riflettere sul modo in cui la “bolla” culturale (scrittori, artisti, ecc.) ha funzionato durante tutti questi mesi, e in termini non solo di consapevoli scelte individuali, ma anche di meccanismi collettivi meno evidenti.
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Immagine interna: manifestazione di studenti a Philadelphia per il cessate il fuoco.
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NOTE
[1] Questo discorso avrebbe senso anche se sostituissimo il termine “genocidio” con “massacri a tappeto” e “crimini contro l’umanità”. Io per primo, senza mai denigrarne l’uso, sono stato riluttante a impiegarlo nel suo senso “giuridico”, per semplice rispetto nei confronti della memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa da parte dei nazifascisti. Dopo che il parlamento israeliano ha votato a fine ottobre (2024) le leggi per smantellare le attività dell’UNRWA a Gaza, cominciando a strangolare il già limitato arrivo di cibo, medicinali e acqua, ne faccio uso convintamente.
[2] Si potrebbe benissimo fare un discorso sull’inerzia e il cinismo del mondo arabo, ma non ne faccio parte e lascio a chi lo conosce meglio di me questo compito.
[3] Ho parlato di questo movimento di fondo, che giunge a compimento con l’era Trump 2, attraverso le analisi realizzate già venticinque anni fa da uno studioso di formazione marxista come Giovanni Arrighi: Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo | NAZIONE INDIANA
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Andrea, sono ormai più di vent’anni che ci frequentiamo quindi è inutile ribadire quanto condivida ragionamenti e frustrazioni. E al di là della mia teoria espressa alla ultima Festa di NI ( che oscilla fra il “ho sempre avuto rapporti puerili con il Potere” e il “Non me ne frega un cazzo delle conseguenze!”) cerco in questo momento difficile un minimo di utilitarismo della serva. Leggendo i commenti sui pochi social che frequento è un continuo sbeffeggiare chi è arrivato ben ultimo di fronte all’orrore: “Ben svegliato”, “Se n’è accorto solo ora?”, “Dove sei stato fino ad adesso?”.
Beh’, ma davvero, chi se ne frega ora? Che facciamo, l’esaltazione della purezza? Sono arrivato prima io, io ho sempre saputo, io ho sempre avuto ragione, io sono il più puro?
Certi atteggiamenti (e non è il tuo, sia chiaro) li trovo ridicolmente snob, come di chi non ascolta più il suo gruppo di rock preferito (che ascoltava quando erano in tre a farlo) perché ormai lo ascoltano tutti.
Oggi più che mai, dopo la grande lezione degli studenti che si sono presi insulti e mazzate (come hai ricordato) abbiamo bisogno che anche i tiepidi, gli indifferenti, gli opportunisti, i distratti, che più persone possibile insomma facciano pressione affinché tutto cessi.
La Resistenza l’hanno fatta non solo gli antifascisti della prima ora ma anche chi durante il Fascismo aveva persino fatto carriera. Oggi abbiamo bisogno di tutti.
Riposizionarsi sarà un bel modo per molti di consolidare la propria visibilità. Vabbè, tanto a me “non me ne frega un cazzo!” Quello che conta è che tutto questo orrore abbia termine. E da questa posizione (per quanto artata e utilitaristica per molti) ricominciare a imporre regole internazionali di convivenza necessarie e urgenti.
Restiamo umani.
Caro Gianni,
sono del tutto d’accordo con te sul fatto che ben venga questa sorta di “spostamento dell’opinione pubblica”, e che fa pure impressione il mutamento di “atmosfera” che si respira sui social. E che non si tratta, proprio adesso, di decidere (e da che cattedra poi?) chi abbia diritto di denunciare e chi no, e come… Pero’ quello che sta avvenendo a Gaza (e non solo) costituisce qualcosa d’inedito nella storia dell’occidente dal dopoguerra in poi. Quindi, oltre all’orrore che ogni giorno ci manifesta, avrà conseguenze profonde sulla storia di palestinesi, israeliani, arabi, americani, sulle due diaspore, e su noi tutti, negli anni a venire. E’ a partire da questa consapevolezza, che non mi sembra inutile riflettere su quello che è accaduto sul piano del discorso pubblico in occidente. E di questo discorso artisti, scrittori, ecc. costituiscono comunque una provincia. Quindi cerchiamo di capire cosa è successo anche su questo piano. Per quanto mi riguarda, l’ho scritto subito: essendo fuori dall’ufficialità letteraria o accademica o artistica, non ho particolari meriti per avere scritto delle cose (non so quanto lucide) sulla faccenda. Lo hanno avuto invece tutti coloro che, da zone di ufficialità, sono andati tempestivamente contro l’opinione dominante. E l’hanno avuto tutti coloro che hanno anche, come gli studenti, subito forme di repressione o anche solo di stigmatizzazione violenta.
Il fallimento politico dell’Europa e più in genere dell’occidente di fronte al massacro dei palestinesi, mi sembra evidente. Possiamo, e vale la pena di farlo, discutere sul grado di fallimento nel comportamento dei massmedia (giornalismo televisivo, digitale e di stampa) e nel comportamento di artsisti, scrittori e intellettuali.
All’inizio molti si sentivano in dovere di premettere a qualunque riflessione una frase precauzionale sul 7 ottobre per non esporre il fianco alla facile e immediata accusa di antisemitismo, sempre diffusa ovunque e adatta quasi per ogni circostanza, pare. L’indagine storica su quella data non è ancora ben avviata e chiara, quindi personalmente sospendo un giudizio morale, ammesso che abbia senso da parte mia un giudizio in merito (avrebbe potuto trattarsi di un’azione soltanto finalizzata alla cattura di ostaggi da scambiare, andata male per mille ragioni o per qualcosa che resterà sempre oscuro). Più severo è il mio giudizio su Hamas o i militi che vorrebbero rappresentare i palestinesi dal momento in cui, con l’incremento dei massacri e la perdita delle posizioni, hanno pensato (o solo qualcuno l’ha pensato ma il risultato è come se l’avessero deciso) di offrire il martirio della loro gente, centinaia di migliaia di persone (i morti secondo me sono più di quelli dichiarati, considerati i dispersi, i feriti gravi, quelli rimasti sotto le macerie, gli affamati che ancora moriranno), in cambio di un piccolo Stato arabo, non ebraico, anche questo su base etnico-religiosa, quando intorno perdipiù vi sono diversi Stati arabi, non tutti ostili. La posizione di questo gruppo militante mi rendo conto che ha il suo fascino, rappresenta il ribelle contro l’oppressore, sicuramente più onesto, con tutti i suoi sbagli, dell’esercito supertecnologico ed efferato dei massacratori di bambini, però, nel mio piccolo, non ritengo si possa accettare questo scambio: vite umane di civili e minori disarmati per avere un riconoscimento politico a livello internazionale. L’obiettivo è nazionalista e, forse, religioso. Ma anche in relazione a obiettivi più universalistici e internazionalisti, quel tipo di scambio per me non è accettabile. Non si dispone della vita degli altri in quel modo. Quando ci sarà stata un’ecatombe totale, cosa avranno ottenuto?
Ciao Roberta, sono sostanzialmente d’accordo con te. Non ho nessuna simpatia per Hamas, che di tutte le possibili realtà politiche palestinesi è quella che più ha fatto comodo all’estrema destra israeliana. La loro strage è stata un fallimento anche sul piano strettamente politico-militare, seppure si volesse neutralizzare la dimensione morale. E io non riesco a neutralizzare la dimensione morale di fronte al massacro di civili disarmati e innocenti. Anche se nella gerachia delle responsabilità, Israele è lo stato che controlla, occupa o mette sotto assedio (ancor prima di scatenare le rappresaglie e distruzioni massive dopo il 7 ottobre), Hamas ha una sua responsabilità innegabile su quanto accade a Gaza.
In realtà io capisco Hamas, riesco a mettermi nei panni di un gruppo oppresso che cerca di ribellarsi all’oppressore. E’ vero, hanno ucciso 1200 persone, fra cui molti soldati, non si sa se per una decisione programmata o per errori umani, cioè una degenerazione dell’azione che avrebbe dovuto essere limitata alla cattura di ostaggi e invece ha travalicato i limiti prestabiliti. E’ facile immaginare che la rivolta di un oppresso non sia beneducata, gentile, pacata e riflessiva perché le premesse di quella rivolta sono la rabbia e l’umiliazione, a lungo soffocate. Ed è facile immaginare, guardando alla storia, che tanti atti di ribellione, insubordinazione, vadano male. Persino nella rivoluzione francese, che ora è un nostro mito, una pietra miliare per noi contemporanei, abbiamo avuto episodi disdicevoli e derive sanguinarie non necessarie e persino controproducenti, non per niente si parla ancora adesso di un periodo del Terrore. Non volevo condannare in toto il tentativo di Hamas e altre milizie locali. Si comprende la rabbia, lo spirito ribelle, l’aspirazione alla libertà. Capisco meno la motivazione religiosa, che sconfina in un’intolleranza folle, simile a quella del loro oppressore, mirante a uno Stato unicamente ebraico. Ma soprattutto c’è il prezzo. Anche nelle azioni militari, passato un certo limite nella sconfitta, i capi percepiscono che non c’è più niente da fare e a quel punto l’obiettivo è salvare vite. Perché? Ammettiamo che un capo militare sia completamente anaffettivo o un asceta fanatico che non prova niente per gli umani peccatori. Anche in quel caso deve salvare vite: perché quelle vite possono essere il futuro della sua causa. Arrivati a questo punto, la mia idea (in base ad articoli letti) è che Israele avesse già in mente dall’8 ottobre e già prima di cancellare ogni traccia dei palestinesi e occupare la Striscia. Ma, anche considerando la furia vendicativa ed espansiva degli israeliani, probabilmente con la mediazione di altri Stati arabi e Usa i capi di Hamas avrebbero potuto e potrebbero ancora restituire gli ostaggi e trattare per salvare la popolazione rimasta a Gaza.
Caro Andrea, è uno di quei casi in cui la scelta di essere senza potere ci ha fatto bene: in Nazione Indiana si è riusciti a dire e pubblicare alcune cose (posizioni chiare, testi creativi, riflessioni, testimonianze) molto concrete da subito, cercando di far circolare aria nella cappa irrespirabile che si andava creando. Di contro, ‘cortesi’ email, avvertimenti, shadowbanning, invettive, censure, epurazioni, licenziamenti: c’è stato di tutto.
E c’è stato, va detto, anche un progressivo sprofondamento: l’anno scorso, quando eravamo in quattro gatti a tentare di aprire un discorso – ricordo: conversazioni sfiancanti online, traduzioni di autori palestinesi, incontri con gli studenti in occupazione, letture di poesia per raccogliere fondi, volantinaggio, cagnare con amici/e di sempre – non avrei mai creduto che saremmo arrivati a questo presente, alla minaccia dell’occupazione definitiva di Gaza e della diaspora palestinese che si sta materializzando in questi giorni, SENZA ANCORA UNA SINGOLA AZIONE GOVERNATIVA, italiana, europea o americana, per fermare Israele. La svolta nella sensibilità social e nella percezione sociale generale si avverte ormai bene, anche se in Italia chi è in posizione di comando cerca di sedare il dibattito buttandola sull’umanitarismo generico, e annacquando le responsabilità (certo, sono aiutati da uno stuolo di cooptati).
Mi pare interessante far notare che la reazione al crescente orrore di fronte ai crimini genocidari in corso si va attestando su strategie “anti-woke”. Insomma, per qualcuno se il discorso sulla questione palestinese è diventato centrale (o meno marginale), è per conformismo liberal, dicono, per “moda”, non per “vera” maturazione di una riflessione, politica e/o umanistica. La trovo un po’ una replica da manuale MAGA. Ecco qui un campionario di esempi: chi obietta è retoricamente ridotto a un “pro-pal”; chi prende le parti dei palestinesi è vittima di riduzionismo “buonista” e di semplificazioni storiche, non ha un vero “pensiero critico”; le immagini, video, testimonianze che arrivano sono truccate, nel migliore dei casi dal sentimentalismo dei meme, nel peggiore dalla “propaganda” antisemita prezzolata dai “veri” manipolatori del mondo (una volta il burattinaio supremo era Soros, oggi mi sa, per ovvie ragioni, non più).
È una evoluzione “interessante” (leggi:penosa) di un dibattito tutto italiano che riesce a rendersi inane anche di fronte allo sterminio.
Insomma, nella “stagione dei paradossi” (l’ha chiamata così ieri Giovanni Della Luna sulla Stampa), se ne aggiunge un altro, che secondo me interessa da vicino chi crea lavoro intellettuale: non solo nella società della sorveglianza si ha paura di esporsi per non subire ritorsioni (e fin qui niente di nuovo), ma chi prende parte sarebbe un inconsapevole, o addirittura un debole, mentre chi non lo fa sarebbe uno “più libero”. Stiamo assistendo a un assorbimento così viscerale del nuovo totalitarismo (controllo esterno + auto-controllo), assunto dentro di noi peggio dell’oppio o del padre nostro, che spiega, indirettamente, il perché qualcuno crede che ogni neonato nasconda un nemico.
Cara Renata,
sono contento che tu sia intervenuta, perché assieme ad altri indiani, proprio su questo sito, hai avviato tempestivamente un lavoro molto importante; tu lo hai fatto aprendo direttamente una finestra su una voce palestinese di Gaza, una voce di uno scrittore, di un poeta. E’ del dicembre 2023, il tuo primo post di Yousef Elqedra: https://www.nazioneindiana.com/2023/12/02/memorie-da-gaza-1/. E dietro c’è anche l’impegno delle traduttrici Sana Darghmouni e Pina Piccolo. E forse fare certe scelte a monte (di “non ufficialità”), prende senso in casi come questi: la libertà che uno cerca, nel nostro caso, nell’invenzione poetica o più genericamente letteraria, la si ritrova poi nel partecipare a un certo tipo di progetto collettivo e nel prendere la parola in circostanze difficili e incerte. In ogni caso, tutti coloro che hanno agito per far sentire e circolare il punto di vista, la testimonianza o la parola poetica palestinesi hanno svolto un grandissimo lavoro. Ma questo vale anche per coloro che hanno permesso la circolazione delle voci dissonanti in Israele e poi nella diaspora ebraica. Aggiungo, poi, che questo mio pezzo si è nutrito anche di un tuo spunto, letto sulla tua bacheca FB. Parlavi di anni di “spoliticizzazione”, e penso che ti riferivi agli ambienti culturali. Ed è come se tutti fossimo stati raggiunti dalla forza distruttiva, che la negazione della politica puo’ avere, sia per chi ne è direttamente protagonista, sia per chi ne è testimone terzo.
Quanto alla reazione italiana, di una cerchia di opinionisti da stampa e da social, che cercano di denigrare questo mutamento dell’opinione pubblica, forse come dici tu c’è proprio il fastidio di constatare una volontà d’intervento, di presa di parola, che non chiede il permesso, non rasenta i muri, ecc. C’è quella vecchia reazione, che probabilmente ebbe già la borghesia colta dei tardi anni Sessanta: ma in virtù di quali titoli parlate? E quindi una tendenza a trasformare tutto in un dibattito accademico tra ponderati specialisti e rigettare ogni critica dal basso come una forma di cagnara provicata da zoticoni intellettuali. Dietro tutto questo c’è in fondo il vecchio discorso di conservazione del potere (di corporazione giornalistica, accademica, politica, ecc.): solo certuni possono parlare di queste cose in modo pertinente, tutti gli altri farebbero meglio a stare zitti.
Secondo me non è inutile chiedersi “perché solo ora”.
Ebbene, considera che una spiegazione possibile al “risveglio” del pubblico sul tema Gaza è questa: noi percepiamo, più che le reazioni del pubblico, quelle dei grandi media, che sono nella maggioranza dei casi espressione del potere economico di gruppi multinazionali. Anticipo che non credo a nessun tipo di complotto. Semplicemente, penso che la questione Gaza, la stessa parola Gaza, sia diventata – dopo quasi tre anni – controproducente per il potere economico. Ripeto, nessun complotto, ma tanti casi isolati che si influenzano a vicenda. Esempio, Università americane e Jewish Studies. Semplicemente, i rettori si accorgono che perdono iscrizioni, che la gente guarda a Israele con occhi diversi. Implicitamente, si diffonde l’idea che Israele possa rappresentare l’avanguardia più aggressiva di un occidente tollerante solo con chi si piega. Il caso Iran amplifica questa visione. I redattori dei grandi giornali Usa, tipo NY Times e W Post, si rendono conto che perdono abbonati. I consumatori comprano meno prodotti israeliani, a partire dalle arachidi per finire coi medicinali. Per riconquistare iscritti, clienti e abbonati si comincia ad appoggiare una visione più critica di Israele, che si diffonde velocemente agli stati satellite, leggi UE. Gli articoli sul genocidio vengono letti, i corsi meno radicali ricevono iscrizioni. Pian piano, anche gli artisti si accorgono che possono parlare di genocidio senza subire censure e rischiare un tracollo della carriera.
Questo spiegherebbe il cambiamento nei grandi media. Cambiamento che non si riflette nell’azione dei governi.
Scendendo più in profondità, è stato probabilmente fondamentale il ruolo di internet e dell’informazione non ufficiale, ma non solo, vedi il caso Onu/Albanese.
Sugli artisti, sono d’accordo con te. Spesso la nostra visione degli scrittori, dei musicisti, come anime illuminate fa parte di una visione romantica dell’arte. Che è fatta, certo, di talento e sensibilità, ma anche di lavoro, tentativi frustranti, accordi più o meno puliti con l’industria culturale. Purtroppo, in molti casi gli artisti non sono diversi da noi comuni mortali. Anche se è bello pensare che lo siano…
Caro Giacomo grazie del commento. E trovo una perfetta sintesi questa frase:
“Pian piano, anche gli artisti si accorgono che possono parlare di genocidio senza subire censure e rischiare un tracollo della carriera.”
Ecco, è successo qualcosa del genere, e senz’altro, nonostante il lavoro di fondo fatto in rete dalla contropropaganda, la svolta di alcune testate giornalistiche di rilevanza mondiale (io penso anche al caso Le Monde in Francia) hanno avuto il loro peso sul mondo culturale.