Articolo precedente
Articolo successivo

Tigri e specchi. Su Silverfuture di Alice Spano

 

ph. Daniel Boudinet, “Sculpture dans un parc”, 1977

 

di Ornella Tajani

Leggendo Silverfuture di Alice Spano («Quanti» Einaudi, 2025) mi risuonavano in mente dei versi strepitosi di Patrizia Cavalli, ormai un po’ inflazionati dai social: «A me è maggio che mi rovina/e anche settembre, queste due sentinelle/dell’estate: promessa e nostalgia». Forse perché il racconto di Spano inizia proprio in estate, un frangente temporale separato dalla quotidianità: nella stagione extra-ordinaria non è dato sapere se ciò che accade investirà poi anche la vita normale, regolare, quella in cui restiamo concentrati sul da farsi più che sullo scorrere dei giorni. Cavalli ce lo ricorda sottolineando quanta smania abbiamo, ad ogni primavera, di spezzare il ritmo abituale delle cose, quanta promessa di felicità ci afferra verso maggio all’idea che ogni rivoluzione sia in fondo possibile; il tempo dei bilanci e dei rimpianti arriverà quando nell’aria fluttuano le foglie, diceva un altro poeta.
Nel testo di Spano l’estate berlinese si rivela effettivamente rivoluzionaria e apre le sue danze con l’apparizione della Tigre: all’interno del bar il cui nome dà il titolo al racconto,

[…] ferma per un attimo sulla soglia del bagno, una donna mi fissa ed è rossa – anche nel semibuio rosseggiante del locale io vedo che la sua pelle del collo e del viso è rossa come dopo una corsa, dopo una giornata di sole; ha i capelli quasi a zero, schiariti fino al bianco, gli occhi neri, vedo il nero dei suoi vestiti e il rosso inatteso della sua pelle e passando accanto al mio tavolino continua a guardarmi, sembra proprio che mi guardi mentre mi supera per andare verso il bancone, cammina a falcate lunghissime con gambe lunghissime; i suoi fianchi ondeggiano, penso che è bellissima, penso che non somiglia a nessuno, a niente, forse somiglia a una tigre – fasciato di nero il suo corpo è forte, largo in certi punti, sottile in certi punti, è un corpo di chi usa il corpo, di chi corre, pedala, solleva, balla, prende, salta, nuota – scopa, penso – e mentre attraversa la stanza la Tigre con i fianchi tocca lo schienale di una sedia, una persona, un tavolino, un bicchiere traballa, ma non è lei che urta le cose, sono le cose che la vogliono toccare.

Come si chiami la tigre non si saprà mai: la protagonista dice solo, verso la fine, che il suo nome, lungi da un ruggito, è «corto e dolce, un pigolio». La sua descrizione è però molto concreta e mescola il dato oggettivo, esteriore, alla proiezione che subito scaturisce nella mente di chi l’osserva; l’entrata in scena ha un che di cinematografico, la sua immagine si impone.
Nella bella introduzione al dossier sulla rappresentazione del desiderio lesbico nella narrativa italiana tra gli anni ’30 e gli anni ‘60, apparso su allegoria 88, Cristina Savettieri apre il suo discorso citando il Self-Portrait di Armen Susan Ordjanian, che campeggia anche sulla copertina della rivista:

L’immagine dell’autrice riflessa nello specchio, in corrispondenza del sesso, costituisce a suo avviso «una potente riflessione visuale sulla soggettività femminile, sul corpo in quanto corpo sessuato, sul pensarsi e “vedersi” come donne a partire dalla relazione con il proprio sé incarnato e situato». Savettieri ricorda come questa fotografia fosse già stata evocata da Daniela Brogi nella sua recensione al Portrait d’une jeune fille en feu, il film di Céline Sciamma in cui la pittrice, la modella e lo specchio venivano ulteriormente rimescolati per mostrare «un guardarsi e percepirsi nel mondo che solo nella relazione con l’altra, nel corpo sessuato dell’altra, può compiersi» (ancora Savettieri): nel film la pittrice Marianne, al momento di ritrarre il corpo nudo di Héloïse, appoggiava uno specchietto sul sesso dell’amante in modo da poter dare alla figura pittorica i propri tratti; le due donne si fondevano nell’incontro e nell’immagine, ma in tale fusione si riconoscevano e rappresentavano anche come singolarità.
Sono elementi che dialogano con il racconto di Spano, a partire da un ritratto che acquisisce una doppia valenza. La protagonista càpita a Berlino a casa di un amico fotografo. Nelle prime pagine descrive questo ambiente: appeso alle pareti c’è lo scatto di una ragazza che sta sfilandosi il maglione, il volto coperto, còlto un attimo prima di svelare la propria identità; è una fotografia che la narratrice apprezza sin da subito e che addirittura acquisterà per portarla con sé prima di lasciare l’appartamento e andar a vivere con la Tigre. L’indizio prolettico è evidente: un’altra figura femminile sta per entrare in scena, e la sua apparizione costituirà anche, per chi racconta, una forma di scoperta del sé, un’autorivelazione.
Al Silverfuture, infatti – un posto pieno di specchiere, «specchi in cornice e mosaici di specchietti sulle discoball», che di nuovo rimandano al Self-portrait –, comincia l’amore tra l’io narrante e la ragazza austriaca che somiglia a una tigre. Mi è tornato allora in mente Tigre adorata di Patrizia Zappa Mulas, racconto uscito per nottetempo nel 2006, che altrettanto cominciava in un bar (il caffè Di Marzio a Roma) e narrava un amore lesbico per un personaggio associato all’immagine di una tigre. Pochi elementi e forse pretestuosi, questi, per mettere in dialogo i due testi: eppure il tentativo è seducente, perché si tratta di due racconti singoli, entrambi molto belli, che rivelano, mi pare, uno scarto nella rappresentazione del personaggio lesbico.
Proviamo ad accostare l’apparizione della tigre di Spano, vista poco fa, alla descrizione della protagonista di Tigre adorata:

Da ragazza era stata uno splendore. Uno splendido ragazzo, direi. Alta, florida e con un ovale caravaggesco impossibile da dimenticare. La carnagione perfetta, il taglio d’occhi orientale, lo sguardo dorato – la sua bellezza metteva quasi soggezione. Faceva innamorare maschi e femmine indifferentemente. In quel periodo era l’assistente – e la complice – di Mario Schifano: affrontava con lui grandi tele coi colori acrilici, manovrava i video, gli stava accanto giorno e notte con una devozione da Sancho Panza che non toglieva niente al suo fascino di ragazzo divino. Già allora nascondeva il seno dentro larghe camicie infilate nei jeans e indossava scarpe inglesi coi lacci. Avevo notato che abbottonava il cappotto verso destra come gli uomini, e usava solo biancheria maschile. Aveva un modo speciale di camminare, con la mollezza del maschio sensuale sempre un po’ affaticato e ricettivo di ogni sorta di umore nell’aria.
Si chiamava Annalisa.

Più avanti:

A parlare non era lei ma il personaggio che interpretava, il maschio d’esperienza che è tenuto alla galanteria, vi è quasi costretto. La vidi improvvisamente sotto quella luce, come un dongiovanni invecchiato precocemente ma ancora capace di tutto, anche di rinunciare.

Colpisce subito questa rappresentazione della lesbica come uomo mancato: l’abbigliamento, il modo di camminare, i gesti; le formule «splendido ragazzo», «maschio sensuale», «maschio d’esperienza». Il fatto che il personaggio porti un nome così delicatamente femminile – Annalisa – non fa che evidenziare, per contrasto, la sua maschilità recitata, un po’ protonovecentesca: vengono in mente fotografie del bar lesbico Le Monocle di Parigi a inizio secolo, o certi scatti di Colette in abiti da uomo (la stessa autrice è peraltro citata dalla protagonista del racconto, che a un certo punto s’incapriccia «per un’aristocratica parigina che era stata l’amica della figlia di Colette»).
L’eccentricità della protagonista di Zappa Mulas è ribadita anche nell’andamento della storia d’amore di Annalisa con Costanza Shuster, un’attrice ebrea emigrata in Italia: è lei la piccola tigre che la conquisterà, trasformandosi in una moglie devota che cerca nella partner «un marito» (in corsivo nel testo). Così, i ruoli di uomo e donna, canonizzati dal sistema patriarcale, restano intatti persino all’interno della relazione lesbica, una relazione che si propone come necessariamente deviata, al di fuori della norma – e quindi inevitabilmente destinata a finir male. Si tratta di una storia non raccontata in prima persona, ma proposta in forma di confessione: sul modello classico della Manon Lescaut di Prévost, una narratrice di primo grado raccoglie la testimonianza di Annalisa, narratrice di secondo grado.
In Spano invece non c’è intermediazione, l’io agisce in prima persona; anche l’incipit è caratterizzato dall’immediatezza:

In quei primissimi tempi, quando ancora non abitavo stabilmente a Berlino, io e la Tigre facevamo lunghe telefonate in cui ci raccontavamo le nostre vite prima di conoscerci, prima di quella vita vera che era appena cominciata.

Silverfuture mira dunque a mostrarci la «vita vera», una storia d’amore bella come tante, vissuta intensamente, finita per motivi che non è dato sapere perché non interessa sapere. Il primo incontro avviene in un bar perché a questo spazio, che è al contempo «immagine del reale, ma anche potente luogo dell’immaginario», è dedicata la serie di «Quanti» Einaudi, come recita la presentazione editoriale. Nel ritrovo gay di Berlino in cui la protagonista un po’ disorientata ordina un gin tonic, si guarda intorno, di tanto in tanto tasta gli oggetti che ha in borsa per darsi sicurezza mentre dentro le sta montando «un’inquietudine da sala d’aspetto, la sensazione che tra poco sarebbe toccato a me», comincia la sua relazione con la Tigre, che proverà per lei un amore simile a

un monolite inscalfibile, ottuso, sordo, ignaro, ignorante – un amore che diceva sì, sempre sì, mai forse, mai non lo so, mai vediamo, parliamone, potrebbe essere. Perché è così che fa la realtà – è così che fa l’amore: si staglia e dice sì, è questo: questo è.

Così vediamo le due donne uscire insieme, convivere, amarsi, viaggiare, litigare. Poi un giorno succede «quello che succede sempre»: qualcosa s’incrina irrimediabilmente. Le protagoniste si rivedono un numero imprecisato di anni dopo, stavolta in un bar di Roma; indossano ancora oggetti appartenenti alla loro vita comune, che costituiscono una strana forma di eredità materiale della relazione: vestiti e accessori conosciuti, regalati, prestati. Oggetti che trapassano il tempo e sono lì a testimoniare la verità di ciò che è stato: una relazione, un capitolo della vita di un individuo – una stagione, certo più lunga di un’estate, ma pur sempre una stagione. Sta a chi legge – a chi vive – stabilire quanto questa avrà cambiato il corso degli eventi: è solo una questione di percezione, cioè di narrazione.

 

2 Commenti

  1. Cara Ornella, davvero ricco di suggestioni questo tuo pezzo. La foto di Ordjanian mi pare si possa riallacciare all’iconografia barocca della Venere allo specchio (Rubens, Velázquez), un’immagine che – per restare al cinema francese– ha più volte giocosamente richiamato Agnès Varda (già fotografa, e poi visual artist): i suoi film sono infatti pieni di corpi di donne, specchi e autoritratti, e spesso hanno al centro proprio il tema dello sguardo sui corpi femminili.
    Parole in libertà le mie, che forse non c’entrano molto col tuo discorso… ma era per dire che mi è piaciuto!

  2. Grazie, Daniele! è un pezzo a cui ho lavorato a lungo, soprattutto perché mi spingeva a esulare dal discorso, e invece il corredo di altre riflessioni che ho poi cassato era materiale forse per altro.
    Grazie per la suggestione pittorica, che in effetti è all’origine di una foto come questa. Mi fa sorridere la coincidenza che citi Varda, perché proprio ieri ho visto per la prima volta un classico di Jacques Démy, che mi è piaciuto molt(issim)o: Les parapluies de Cherbourg. Anche in questo mio commento sto però esulando dal discorso… un abbraccio e a presto

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

L’insostenibile incertezza dell’età

di Paola Ivaldi
"Provai uno strano miscuglio di malinconia e di speranza e mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii placata". Così termina la sequenza conclusiva del film di Woody Allen "Un'altra donna" (Another woman, 1988) magistralmente interpretato da Gena Rowlands.

Mots-clés__Foglie

di Paola Ivaldi
Foglie _ Serge Gainsbourg, Kaurismaki, Nazim Hikmet

Distanza, speranza. In scena a Napoli «La Distance» di Tiago Rodrigues

di Ornella Tajani
Che cos’è la speranza? L’irraggiungibile traguardo di una lotta costante, che quotidianamente si confronta con l’imperfezione del mondo, o l’ideale di una vita drasticamente migliore, seppur svuotata di storia, di arte, di quanto insomma definibile come cultura umana?

Le parole “mondo” dei Greci

di Neil Novello
Noi ritorniamo da dove siamo venuti. L’adagio figura due immagini di un medesimo fenomeno culturale. Anzitutto narra che la «parola», la vivente parola greca, allo scopo di fondarla risale la via della cultura occidentale. E racconta che la stessa parola...

Dove finisce questo teatro inizia forse il mare: su “Il mare nascosto” di Luca Calvetta

di Ornella Tajani
Se è vero che il sud è una regione dell’anima, come diceva Ettore Scola, Il mare nascosto si configura come un viaggio in una Calabria dai tratti sfumati, che per sineddoche diventa uno dei tanti sud del mondo

Mots-clés__Visitatori

di Federico Spagnoli
Interessante. I suoi visitatori. Chiunque essi siano. Cosa mi può dire di loro? A questa domanda non so mai cosa rispondere.
ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di critica della traduzione e di letteratura francese contemporanea. È autrice dei libri Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell'opera di Annie Ernaux (Marsilio 2025), Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS 2021) e Tradurre il pastiche (Mucchi 2018). Ha tradotto, fra i vari, le Opere integrali di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato opere di Rimbaud, Jean Cocteau, Marcel Jouhandeau. Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: