Napoli, un ritorno

di Sara Marinelli

Su una bancarella di Napoli, al corso Umberto, si vendono blatte. Un euro l’una.
Camminando sul marciapiede affollato di turisti e ingombro di tavolini, venditori di cocco, granite di limone e souvenir, mi salta agli occhi un banco ricoperto di scarafaggi, con le antenne dritte e lunghe, i corpi piatti addossati gli uni sugli altri, alcuni capovolti a zampe all’aria, altri disposti nell’atto di arrampicarsi su per le assi del banco di vendita.
Ho distolto immediatamente lo sguardo e accelerato il passo per lasciarmi questo orrore alle spalle.

 

 

 

 

 

 

 

 

Non ho mai visto tante blatte ammucchiate assieme se non nel primo episodio della serie “L’amica geniale”, che ho seguito lontano da Napoli, negli Stati Uniti, dove vivo da molti anni. La scena degli scarafaggi, che a fiotti emergono dai tombini e si riversano per le strade del rione, velocissimi e con una destinazione ben precisa, la casa di Elena, mi aveva riportato a ciò che avevo rimosso. Nell’episodio le blatte avanzano determinate e compatte su per le scale del palazzo, si infilano sotto la porta di ingresso e invadono l’appartamento scorrendo come un fiume nero sul pavimento; poi salgono sul letto dei genitori di Elena, saltando sul corpo della madre addormentata, ed entrano nella sua bocca dischiusa nel sonno. Accompagnata da una musica che imita un ronzio aggressivo, la sequenza sintetizza in un minuto molte pagine del romanzo, nelle quali Elena narratrice ricorda i terrori della sua infanzia e del rione.

La vista delle blatte finte, la mattina dopo il mio arrivo a Napoli nell’afa di luglio, mentre mi recavo alla metro, angosciata dal confronto imminente con il corpo inerme e disfatto di mia madre malata — ha rimestato un terrore antico, e smosso vecchie e nuove tensioni dentro di me riguardo a questo ciclico, ma sempre diverso ritorno a Napoli, che si ripete da più di quindici anni. È stato come un allarme; un indizio che mi allertava su ciò che mi aspettava, su ciò che non avrei voluto vedere.

Nei giorni seguenti ho evitato di guardare attentamente per terra, ho ignorato i rifiuti accostati ai muri, ho scansato tutti i tombini, e non ho messo scarpe aperte. Trovarsi davanti a una blatta vera avrebbe esacerbato il mio disagio in questa visita a Napoli, la mia inquietudine di sentirmi impreparata davanti a una catastrofe.

L’impatto visivo delle blatte rimette in circolo alcune paure della mia infanzia a Napoli, degli anni in cui percepivo il mondo esterno come una minaccia. Una minaccia fatta di elementi intangibili — il terrorismo dei tardi anni ’70, il terremoto dell’80, gli uomini predatori di mia madre giovane vedova, o di me e mia sorella bambine orfane di padre — che credevamo di tenere fuori casa barricando la porta con un palo di ferro. Le blatte invece no. Erano la minaccia dentro casa, annidata negli angoli, sotto i mobili, dietro i battiscopa, nell’antro oscuro del lavello in cucina, il secchio della spazzatura, e — terrore supremo — sotto il letto. Erano la rivelazione che persino le pareti domestiche potevano tenere nascosto un pericolo sempre in agguato. Allora soffocavo qualsiasi bisogno notturno e rimanevo atterrita nel letto, aspettando che facesse giorno per usare il bagno o bere un bicchier d’acqua in cucina.

Mia sorella ed io ci chiedevamo da dove venissero gli scarafaggi se la sera prima ne avevamo trovato qualcuno stecchito dal DDT. Ci dicevano che “gli scarafaggi non si schiacciano”, ma allora non sapevamo esattamente perché. D’altronde, noi non avevamo il coraggio di schiacciarli. Soltanto l’idea di un contatto, seppure con la suola di una pantofola, ci faceva schifo. Il corpo spiaccicato di uno scarafaggio e le sue viscere erano intollerabili alla vista, così quanto lo era il suo corpo vivo, caratterizzato da quel movimento rapidissimo che scatenava tensione al solo colpo d’occhio. La loro velocità o la loro paralisi suscitavano il medesimo disgusto. E anche quando li vedevamo immobili e capovolti con le zampe all’aria, non ci sentivamo mai sicure: sembravano indistruttibili, o che avessero il potere di rinascere. Senza contare che una volta accertata la loro morte, avremmo poi dovuto sbarazzarci di quel corpo spregevole, il che significava avvicinarci, toccare con mano l’abietto. E dall’abietto, si sa, si tende a fuggire — sino a quando non si hanno gli strumenti per affrontarlo.

Adesso che ritorno nella stessa casa per accudire mia madre inferma, persino quei ricordi di bambina timorosa mi inteneriscono, perché allora lei era in piedi sulle sue gambe svelte e abbronzate, cercava suo malgrado di tenere me e mia sorella al sicuro dal mondo predatore esterno, e di trovare il modo di annientare le blatte, con la casa sempre pulita, accogliente, ordinata.

Perché allora mia madre era ancora madre e io figlia, e non viceversa.

E mentre mi muovo per la casa che è stata la mia casa, ma nella quale oggi mi sento fuori posto, vorrei tornare a quei momenti lì, a quelle sere d’estate in guerra con qualche blatta in cucina. Quando esisteva la salute di mia madre e tutto il tempo che lei aveva ancora davanti.

Questa è —forse — la mia unica nostalgia di emigrante, che ha imparato a non pensare tanto al passato, a concedersi una sorta di amnesia.

Ma la memoria involontaria si mette al lavoro senza chiedere permesso. In ogni mio ritorno a Napoli, frammenti del passato irrompono intorno a me. Frammenti ai quali talvolta non so esattamente che posto dare.
Come gli insetti in vendita che mi hanno colto di sorpresa, dai quali sono fuggita affrettando il passo quasi fossero veri, per il timore insensato che lo fossero, e che l’abietto potesse strisciarmi addosso. Che tutto ciò che mi fa male di Napoli potesse assalirmi.

In quel primo incontro sul corso Umberto, non ho osato fermarmi e guardarli in faccia quei simulacri. Poi ho riflettuto sulla mia reazione. E se ne comprassi un paio per appiccicarli sul pavimento della mia cucina a San Francisco in ricordo di ciò che è stato rimosso? Freud e Julia Kristeva ci hanno ben descritto le dinamiche scatenate dal perturbante e dall’abietto e gli espedienti per superarlo.

Così due giorni dopo vado dal venditore di blatte. Mi interessa capire cosa sta succedendo a Napoli e alle memorie che ho della città che trovo stravolta, alterata, intrappolata nella morsa di un turismo sfrenato che rasenta la follia. Fino ad almeno tre anni fa, nei miei ritorni, credevo che soltanto io fossi cambiata, che Napoli “non tanto”. Adesso non più. Adesso sono testimone di una metamorfosi in corso: il volto della città mi appare imbruttito sotto un trucco pesante, e la sua anima messa in vendita. Tutto è in vendita nel centro storico; la città stessa — coi suoi luoghi, i suoi archetipi, le sue culture — è una merce, svilita e trafficata in immagini e statuette ricordo.

Per le strade, noto una produzione smodata di calamite da frigo e oggetti senza valore. Molti turisti indossano la maglietta del Napoli col numero 10 e portano la faccia di Maradona sul petto. I ristoratori mi invitano a gustare la loro pizza, la pasta, lo spritz. Scuoto la testa; sbotto dicendo che non sono una turista. Napoli è riuscita a uniformarsi, a perdere la sua singolarità. Oggi si mostra come una città turistica uguale alle altre, forse con un tocco di follia in più, per il quale, in mezzo a questo suo grande mercato scoperto, si vendono pure le blatte.
Persino di una vecchia paura si è fatto un souvenir da bancarella.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ma come le è venuta in mente quest’idea?” chiedo al venditore di blatte, che reagisce visibilmente seccato. Si allontana attraversando il marciapiede sul quale mi sembra che venda anche qualcos’altro, ma sono troppo presa dal suo rifiuto di parlarmi per notarlo veramente. Le blatte potrebbero essere la sua unica mercanzia.
“Non ci sta niente da dire. Se vuoi fotografare, fotografa”, mi dice burbero dal ciglio della strada.
Per un momento insisto: “Volevo sapere come vi è venuta l’idea.”
Poi la sua espressione contrariata mi dissuade. Scatto tre fotografie sorridendo sotto il suo sguardo perplesso, o meglio spazientito, e vado via.

Soltanto nella foto leggo ciò che ha scritto sulla bancarella: “Per scherzare con amici.”
Forse si tratta semplicemente di questo? Per esempio, infilare una blatta di plastica nella borsa di un’amica per vederla andare fuori di testa e urlare per strada? Da sempre gli uomini scherniscono le paure altrui. Forse si tratta soltanto di riderci sopra? O forse anche lo scarafaggio fa folklore napoletano? È diventato un simbolo di Napoli, “un ricordino” — come la pizza, il corno rosso e Pulcinella.

A pensarci bene, il turismo è una grande festa per le blatte. Che sia anche per questo che le loro colonie sono cresciute fortificate? Non potendole debellare, se ne fa ironicamente un souvenir. Del resto c’è una discrepanza, sempre più accentuata, tra quello che Napoli è per chi ci vive e per chi la visita; tra lo scarafaggio vero — memoria degli anni decadenti della città, quando ad esso si associava sporcizia, spazzatura, o povertà (che ne facevano meta da evitare) — e la sua copia, un memento come un altro. C’è una discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vuole esibire; e nell’epoca dell’esibizionismo sfrenato dei social, anche uno scatto fotografico alle blatte di Napoli, che siano vere o da bancarella, desta stupore, attira “Mi piace.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I napoletani hanno sempre scherzato sulle blatte.
“Ogni scarrafone è bell’ a mamma soja” — “Ogni scarafaggio è bello per la propria madre,” recita un proverbio che ci ha fatto sempre ridere.
Da ragazzine, io e mia sorella ci raccontavamo questa barzelletta:
Il bambino dice al padre: “Papà, papà, ma le olive nere camminano?”
“No,” risponde il padre.
“Azz! Allora mi sono mangiato uno scarafaggio!”

Molti anni dopo, in un mercato di Oaxaca, Messico, ho mangiato le chapulines. Non si tratta di scarafaggi, ma di un tipo di cavallette che vengono tostate e condite con aglio, succo di limo, e sale di verme d’agave, e comunemente servite come snack. Tuttavia dinanzi alle montagne di insetti neri, somiglianti alle blatte per via delle antenne, zampette, e ali, e la loro abilità di strisciare o saltare, ho provato la stessa ripugnanza. Ma non assaggiarle sarebbe stato privarmi di un’esperienza singolare non soltanto culinaria (sapevo che le chapulines sono croccanti e saporite grazie alle spezie, oltre che ricche di fibre e proteine), ma di una prova di coraggio, di superamento del ribrezzo verso gli insetti scuri con antenne e zampe che provavo sin da bambina. Ho quindi mangiato le cavallette più di una volta in quel viaggio in Messico, e l’ho fatto con leggerezza, divertimento e anche orgoglio. Nel masticare e ingoiare quegli insetti, sentivo che stavo affrontando una mia repulsione e addomesticando una mia paura.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma c’è una differenza.
Non ho mangiato una blatta, come la protagonista del romanzo di Clarice Lispector, La passione secondo G.H., che dopo averne schiacciata una nell’anta dell’armadio, ne assaggia la materia lattiginosa che fuoriesce dal ventre. Né mi sono imbattuta in una colonia di blatte vere sul corso Umberto a Napoli. Come per G. H. nel noto romanzo della scrittrice brasiliana (e per soltanto richiamare alla mente l’allegoria de La metamorfosi senza scomodare troppo Kafka), l’incontro con l’abietto rappresentato dalla blatta è però bastato a insinuarsi nelle mie riflessioni su di me e il mio ritorno, sul rapporto con le memorie, con la casa che ho lasciato e che ritrovo in un’altra fase della vita, quella dolorosa della malattia e del declino di mia madre. Ha portato alla luce il mio malessere nascosto — o che tento di nascondere — in questa visita a Napoli non da turista ma da donna ormai un po’ straniera nei propri “ritorni” sempre più cruciali, più primordiali.
Ritorni più vicini, o più stretti, a chi e da dove è partito tutto.
All’origine che non riconosco più.

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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