Nella terza guerra mondiale
di Giorgio Mascitelli

Nella terza guerra mondiale (Deriveapprodi, Bologna, 2025, euro 15) è un libro a cura del collettivo politico ʃconnessioni precarie, che si propone tramite l’analisi di alcuni concetti chiave di esaminare la situazione internazionale individuando alcune linee di intervento politico dal basso nella situazione attuale. I concetti chiave individuati (transnazionale, Stato, militarismo, migranti, conflitti climatici, decoloniale, resistenza, strike the war) a cui corrispondono i vari capitoli vanno a formare un lessico politico che deve essere alla base dell’impegno per trasformare il presente.
Come si può capire da questi stessi lemmi, la riflessione sulla guerra intreccia una serie di temi salienti della contemporaneità. Proprio questa impostazione è funzionale ad abbandonare qualsiasi prospettiva geopolitica nell’affrontare il tema della guerra riportando al centro dell’attenzione il fatto che “nelle guerre definite mondiali la posta in gioco non è stata solo la lotta tra gli Stati per il predominio, ma in maniera altrettanto, se non più, rilevante il modo di esercitare il comando sul lavoro vivo”(p.12). Questo è il primo merito del libro perché il discorso geopolitico, sebbene resti un’analisi razionale rispetto a forme di spiegazione ideologiche o mitologiche come lo scontro di civiltà, finisce con l’oscurare l’aspetto strutturale, che è alla base della guerra mondiale, e in particolare quella guerra civile mondiale, analizzata con rigore da Maurizio Lazzarato, che il grande capitale ha cominciato contro le masse, ben prima che il conflitto coinvolgesse apertamente gli stati con l’invasione russa dell’Ucraina.
In questa prospettiva lo stato, che con la guerra sembra avere riacquistato una posizione di primo piano tramite il suo tradizionale ruolo di detentore del potere militare, dopo che la globalizzazione ne aveva messo in crisi il ruolo di garante dei processi di accumulazione dei profitti, si trova in realtà in una situazione di disarticolazione, qui chiamata disallineamento tra stato e capitale, nel quale il primo non riesce pienamente a essere funzionale agli interessi del secondo, che muta forma nella nuova situazione bellica. Ad esempio l’intervento nel 2023 per salvare alcune banche statunitensi da una nuova crisi finanziaria, coordinato tra stato e la banca privata J.P. Morgan, come del resto su un altro piano dell’azione statale il ruolo di Starlinks nella guerra in Ucraina, è una testimonianza di questo rapporto diverso rispetto al passato tra stato e capitalismo privato.
Il militarismo a sua volta viene individuato non come semplice ideologia bellica, che prelude a un’involuzione autoritaria della società sia nei suoi aspetti politici sia in quelli sociali (donne, lgbqt, migranti), ma come regolatore politico che “dà forma a politiche industriali e sociali che ridefiniscono le condizioni della produzione e della riproduzione e i rapporti di forza tra capitale e lavoro” (p.50). E qui è possibile notare uno scarto netto con la fase della globalizzazione, dove nonostante la serie delle guerre umanitarie, l’autorappresentazione ideologica era quella della fine della storia e di un mondo pacificato tramite il neoliberismo, mentre ora il principio della guerra e le sue eccezioni allo stato di diritto vengono rivendicati.
La guerra investe anche l’emergenza ambientale destrutturando o sospendendo le politiche di transizione verde. Queste politiche già in precedenza erano volte alla costruzione di “una grande fabbrica pulita internazionale” ossia al mantenimento delle logiche produttive capitalistiche globalizzanti, che sono alla base della crisi ambientale e dello sfruttamento dei lavoratori, mentre oggi si assiste a un ritorno, con il riarmo, del capitalismo tradizionale e a un interventismo dello stato, in un quadro in cui il movimento ambientalista tende a disperdersi in lotte frammentarie e incapaci di costruire connessioni stabili.
In un quadro di terza guerra mondiale a pezzi, per usare la perspicua formula bergogliana, dove quindi le linee di conflitto sono più articolare e intrecciate e, in una parola, meno chiare rispetto ai due conflitti mondiali precedenti, se non altro perché tra i paesi del G7 e quelli dei Brics non sussiste uno stato di guerra aperta, ma tutt’al più per procura secondo modalità da guerra fredda, anche la nozione di decoloniale deve essere rideclinata. Secondo gli autori “a differenza della rottura decoloniale dei primi anni Novanta, il discorso decoloniale alimenta le divisioni belliche in campo, ma ha smesso di produrre crepe all’interno del tentativo di comando globale sul lavoro vivo che la Terza guerra mondiale punta violentemente a riaffermare” (p.79); in altre parole, rispetto alla fase della globalizzazione, in cui i movimenti decoloniali esercitavano un ruolo diretto di critica dell’organizzazione capitalistica, la guerra ha messo in primo piano posizioni nazionaliste che non svolgono più una contestazione all’ordine globale, ma si posizionano all’interno della logica bellica magari a sostegno dei capitalismi emergenti scambiati per resistenze all’imperialismo occidentale. E’ insomma il rischio del campismo (il termine indica il sostegno a regimi autoritari, retrivi e a loro volta capitalistici semplicemente perché generano l’illusione che siano forze anticapitaliste per il solo fatto di essere antioccidentali) quello che viene paventato. E’ indubbio, sul piano storico, che il movimento no global, che a Genova nel 2001 aveva espresso un suo punto alto, fu messo in crisi dalla guerra promossa da Bush dopo l’attentato alle Due Torri, così come l’affermazione sulla scena mondiale di potenze non occidentali che puntano a un mondo multipolare, in primo luogo la Russia putiniana, non coincide certo con uno sviluppo di forze democratiche né tanto meno antimperialiste. D’altra parte l’ascesa di Cina, India, Brasile e in misura minore Sudafrica, basti pensare all’espansione cinese di Africa a colpi di accordi commerciali, ha portato rispetto a trent’anni fa a un parziale ridirezionamento della ricchezza verso i paesi del Sud, anche se ha fatto nascere all’interno dei singoli paesi una borghesia nazionale (e nazionalista) e quindi una questione sociale che pone la necessità di una radicale ridistribuzione all’interno di quelle stesse società. D’altra parte sappiamo grazie a Piketty che l’economia occidentale oggi è essenzialmente un’economia della rendita finanziaria, la quale per funzionare ha bisogno di una moneta di riferimento internazionale, che a sua volta diventa tale sia per un primato economico sia politicomilitare del paese che la emette ossia degli Stati Uniti, ed è evidente che linee alternative, specie se globali, di distribuzione della ricchezza mettono in discussione tale primato. E la guerra, insieme a politiche economiche aggressive (dazi, dumping, attacco ai debiti pubblici), è uno degli strumenti del suo mantenimento.
Nella prospettiva, giustamente evocata dal libro, di uno sciopero generale transnazionale contro la guerra è dunque importante disporre di un’analisi puntuale delle origini del conflitto per costruire una piattaforma politica con risposte all’altezza delle domande che la situazione pone. E non vi è dubbio che questo libro porti un contributo importante in tal senso, anche da un punto di vista metodologico in quanto la scelta di costruire un lessico politico della Terza guerra mondiale si rivela feconda per il lettore mettendo in luce sconvolgimenti e cambiamenti che lo scenario produce sulle grandi questioni dell’agenda politica contemporanea.

“E’ insomma il rischio del campismo (il termine indica il sostegno a regimi autoritari, retrivi e a loro volta capitalistici semplicemente perché generano l’illusione che siano forze anticapitaliste per il solo fatto di essere antioccidentali) quello che viene paventato.”
In effetti. E ahimé, il campismo, sia quello più evidente sia quello più “implicito”, lo si percepisce in certi discorsi oggi della sinistra anticapitalista, come se antioccidentale fosse sufficiente per essere anche anticapitalista o antiimperialista o antirazzista.