La superficie vitrea e convessa del gorgo

di Matteo Petraccaro

Michi stende il braccio verso di me e mi chiede di passargli l’accendino. È girato dall’altra parte, e con la mano libera sta reggendo una bottiglia di rosso, una bottiglia da due euro e cinquanta al market di fronte scuola. Ha le braccia rinsecchite e le spalle strette, una lunga serie di vertebre scorticate spalmate sulla schiena e, oltre il colletto fradicio della camicia, una vaga peluria da tarantola e dei capelli biondi tagliati a spazzola; poi un ciondolo appeso al lobo sinistro dell’orecchio e un pezzo di guancia tartassato dall’acne. Dice   passami l’accendino   e allora io sfilo il mio accendino dalla tasca dei pantaloni e glielo passo, e con le dita gli tocco le dita. Michi appoggia la bottiglia su un ceppo, tira fuori una sigaretta e se la mette tra le labbra; si gira verso di me e mi fa un ghigno. Nel frattempo, poco più avanti, Leo continua a imprecare e a bestemmiare, e ci urla di muoverci, dice   muovetevi cazzo   Michi tira uno sbuffo di fumo e dice a Leo di aspettare un attimo e di calmarsi, soprattutto di calmarsi. Scuote l’accendino e se lo fa scattare nel pugno, poi alza il dito dal gas e lascia andare la fiamma.

Calmati adesso arrivo aspetta un secondo cristo

La pioggia trema sulle fronde degli alberi e sulla fronte di Leo, sui suoi riccioli neri come scorpioni.

Cristo santo che peso ai coglioni che sei

Michi fa scattare la fiamma. La pioggia riflette su di noi una luce larvale. Ecco cosa rimane del temporale quando finisce, penso, una sconfinata distesa di fango luminoso.

Stiamo per farlo. Io sto per farlo. Michi sta per farlo. Leo sta per farlo. Leo non ne può più. Sta provando a schiacciare la gatta sotto il ginocchio, ma quella continua a scappargli e a graffiarlo. Ha i polsini della camicia lordati di sangue e i pantaloni tutti tagliati. A lui è capitato il lavoro peggiore, proprio il peggiore.

Leo ci urla di muoverci e Michi affretta il passo. Penso che siamo circondati dai fusti dei pini, che è come se il bosco ci avesse inghiottiti. Il vino continua a rimanere immobile sul ceppo tagliato. L’acqua cola dai rami degli alberi e cade sul selciato e su di noi. La fiamma si dibatte nel ventre del bosco.

 

La benzina s’innesca, la bestia s’infuoca e comincia a urlare. Supera alcuni ostacoli, attraversa una serie di radici e foglie marce, poi scivola su una pietra ricoperta di muschio e si schianta col teschio contro la crosta dura di un albero, collassa sul terreno fradicio del bosco e muore. Una colonna di fumo si alza tra gli alberi. La puzza si spande nell’aria e ci raggiunge. Puzza di merda e di carne bruciata.

Gesù

Leo e Michi corrono verso l’animale.

Gesù

Il mio accendino cade per terra. Rimango da solo. Vedo il beccuccio metallico dell’accendino risplendere nel fango. Mi chino a raccoglierlo, lo pulisco sui pantaloni e me lo infilo in tasca; poi mi giro da un lato e nell’erba lascio cadere uno sputo di vomito. Raccolgo la bottiglia dal ceppo e me l’avvicino alle labbra. Tengo il vino in bocca per un po’; me lo passo sulla lingua e tra i denti, lo faccio sbattere sulle guance e infine lo sputo nell’erba.

Non credevo che l’avremmo fatto fino all’ultimo non ci credevo cazzo

Guarda che roba cristo santo

Non ci credo non ci credo non ci credo

Sta ancora bruciando porca puttana brucia ancora cristo

L’animale ha gli occhi spalancati e la bocca aperta, il pelo raschiato dal fuoco. Sta ancora bruciando. La pelle si consuma uno strato di grasso alla volta. Presto toccherà ai muscoli e più tardi arriverà anche alle ossa. Mi pulisco la bocca con la manica dell’impermeabile e tiro un altro sputo per terra.

Che fai ti fa impressione

È solo l’odore

I bordi delle orbite cominciano a squagliarsi e a colargli sugli occhi. Il fuoco gli ha già mangiato quasi tutta la testa e le orecchie.

Non mi fa né caldo né freddo è l’odore che non sopporto

Passami il vino

Strappo un ultimo sorso dalla bottiglia e gliela passo. Lui la prende per il collo e ci si attacca con voluttà.

Non sembra morto sembra che possa risvegliarsi e scappare da un momento all’altro

Leo strappa un ramo di pino e comincia a frustare il cadavere dell’animale.

Ma non credo che lo farà

Lo colpisce sulla pancia e in faccia; poi lascia bruciare le punte del ramo e glielo getta sopra.

Non credo proprio

Continuo a sbavare nell’erba bagnata e fresca. Michi mi mette una mano sulle spalle. Leo mi passa la bottiglia di rosso. Dice che devo ubriacarmi un po’. Ha le mani che puzzano di benzina. Prendo la bottiglia per la canna e mi ci attacco. Ne tiro giù una sorsata. Michi prende la fiaschetta di benzina e ne fa cadere un filo sul corpo dell’animale. Si alza una fiammata fetida e feroce. Leo è andato nel fitto a raccogliere un po’ di legna. Penso che a breve dell’animale non rimarrà più niente, che ci sarà solamente il fuoco. Chiedo una sigaretta a Michi e gli dico che per me si è fatto tardi e che me voglio tornare a casa. Prendo la sigaretta dalle sue dita luride e mi chino per passare sotto i rami bassi di un pino. Il panorama è umido e frammentato, compresso nelle fasce di luce che passano tra le fronde degli alberi; essenzialmente brullo, fetido, fradicio, coperto di foglie ghiacciate e mosso solo dal vento d’inverno. Passo per le baracche fatte di lamiera e aggiro una montagna d’immondizia alta almeno due metri. Scavalco il guardrail e mi passo una mano sui capelli. Sento l’acqua cadermi sulle spalle e sul collo, oltre il bordo dell’impermeabile. Arrivo alla fermata e mi siedo, e un rigagnolo d’acqua stilla dalle cuciture degli stivali. Il velluto è fradicio, fangoso e chiazzato da alcune macchie di vino. Penso che appena arriverò a casa darò le scarpe a mia madre, e lei si occuperà di portarmele in lavanderia di farmele trovare nella scarpiera morbide e pulite. Sospiro. Alzo lo sguardo al cielo e decido di fumarmi la sigaretta di Michi. Faccio scattare l’accendino. Dalla punta della sigaretta si sprigiona una breve fiammata. La benzina brucia rapidamente metà della sigaretta. Aspetto che il fuoco torni a bruciare normalmente e infilo la sigaretta tra le labbra. Aspiro. Tengo il fumo in bocca per un po’, lo lascio scendere nei polmoni e lo sputo fuori. Alzo lo sguardo in cielo, oltre la curva del centro commerciale e le schiere piatte dei palazzi, dei cinema e delle aziende; oltre il catrame della strada; oltre le nuvole e i vapori dell’inquinamento; oltre la città stessa; oltre lo spazio. Chiudo gli occhi e mi godo la sensazione. Bisogna lasciarsi cadere fino in fondo,  penso, fino al fondo della vita.

 

Ma la vita non cambia. Dalla pensilina vedo i banchi di pioggia viaggiare tra le luci oblique dei lampioni. L’autobus non è ancora arrivato e, cosa ancor più strana, per tutto il tempo che ho passato seduto alla fermata non si è vista neanche una macchina. Decido di alzarmi e di camminare a ritroso per la strada, senza fretta, badando solo a non sporcarmi troppo le scarpe nel fango. Alzo il cappuccio dell’impermeabile e mi metto in marcia. Alla mia sinistra, illuminato appena dai lampioni, oltre il guardrail, il bosco si avviluppa in un vortice di forme sintetiche: fusti fosforescenti e fronde spettrali, ceppi ammuffiti, carte di merendine, cicche di sigarette e improvvisi bagliori di oggetti lontani. Penso a Leo e a Michi.

 

C’è una serie di fanali gialli che fende la pioggia in tutte le direzioni e una figura che ci cammina davanti. Mi paro gli occhi con le mani e provo a vedere di che si tratta. Vedo la figura ingrandirsi e muoversi goffamente verso di me. Sta cercando di dirmi qualcosa, ma non la capisco.

Non la sento può parlare più forte eh può parlare più forte non la sento

Devi andartene via da qua dall’altra parte hai capito dall’altra parte

Finalmente ci troviamo uno di fronte all’altro, sotto la pioggia, lui col cappello calato in testa fino agli occhi, io col cappuccio e le mani infilate dentro le tasche, a tormentare la pietruzza incandescente dell’accendino.

Levati le mani dalle tasche

Va bene

Mi levo le mani dalle tasche.

Da qui non passa stasera se vuoi tornare in città devi prendere la sostitutiva sull’altro lato della strada

Con le dita mi indica un punto.

Per di là vedi

Come mai

Una macchina è andata addosso a un camion c’è stato un incidente

Ci sono stati dei morti

No

Sorpasso l’agente e passo davanti alle luci dei fanali. Butto lo sguardo nella zona recintata, oltre le macchine della polizia e i nastri segnaletici. Ci sono i due veicoli incidentanti e dei pezzi di carrozzeria sparsi qua e là, e mi pare di vedere riverso nella strada il corpo di un grosso animale, vivo, o meglio, semivivo, lacerato da tagli profondi come tubature, che con le gambe scalcia sull’asfalto bagnato e si dispera. Un cavallo, penso. Un cavallo dalle gambe sottili e gli zoccoli ferrati e lucenti, dal folto crine selvaggio e bagnato, dall’occhio vivo, bianco, pieno di terrore. Un cavallo riverso a terra nel suo stesso sangue e nell’acqua, tra le carcasse dei due mezzi, delimitato anche lui nella zona incidentata dal nastro segnaletico fosforescente, cosa tra le cose.

Attraverso la strada e cammino per un centinaio di metri, aggiro l’incidente e, in effetti, comincio a vedere della gente in coda per la sostitutiva. Proprio come aveva detto lui, penso. Sento l’odore di carne e di zuppe salire dal fitto del bosco. Mi fermo in un punto in cui gli alberi si diradano, centocinquanta metri prima della fermata e, dalla strada, intravedo delle bambine che giocano con le pistole – ridono e si sparano addosso. Alcune, le bambine disarmate, dicono: dai adesso fa sparare me non è giusto ora tocca a me sparare hai già sparato tu   Nel frattempo, gli adulti le esortano a smetterla chè è ora di cena e bisogna venire subito a mangiare, e allora le bambine corrono, lasciano le pistole per terra (la scocca metallica delle pistole risplende nel fango, come l’accendino, come gli zoccoli dei cavalli) e scattano verso le voci degli adulti ed escono dal mio campo visivo, e com’erano arrivate se ne vanno, risucchiate dal bosco.

La gente alla fermata è immobile. È martedì primo dicembre e sono le sei e trequarti; fa freddo e aspetto l’autobus insieme a una schiera di persone col viso illuminato dagli schermi dei telefonini. Mi sporgo dal marciapiede e giro il collo a sinistra. L’autobus non arriva; in compenso, altre persone luminescenti stanno percorrendo la strada che ho appena percorso. Penso che sarà difficile trovare un posto a sedere, oggi.

 

Sono seduto sul divano e ho il corpo avvolto nell’asciugamano, ancora umido dalla doccia. Mia madre è in piedi davanti a me. Penso che le somiglio: un po’ per la postura e anche per la forma del viso, credo. Inclino la testa oltre la sua figura e tento di vedere qualcosa alla televisione, senza successo.  Aggrotto la fronte e metto su un aria torva, assorta, minacciosa. Mia madre dice   amore che vuoi oggi per cena   Io le rispondo   carne   Mi alzo dal divano e vado a sedermi in camera, ancora nudo, coperto solo dalla spugna verde dell’accappatoio. Mi siedo davanti al televisore e accendo la playstation. Infilo un disco e comincio a giocare. Dopo po’, mia madre mi bussa alla porta e io dico: avanti   e lei entra con il mio hamburger su un piattino. Lo prendo con la sinistra e ne stacco un pezzo. Il ketchup esce dall’altro lato del panino e ricade sul piatto; fa: plof.  Ha un buon sapore. Sollevo il pane e vedo delle larve camminare sulla superficie grigia dell’hambuger e sbucare dal centro, dal punto in cui con gli incisivi ho trapassato la carne. Squilla il telefono. Metto in pausa e poso il panino sul piatto.

Teo devi venire nel bosco è successa una cosa terribile devi venire subito cazzo oddio non ci credo ti prego Teo vieni non ci posso credere

 

 

 

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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