Per una lettura biopolitica dell’Anoressia

di Lucrezia Lombardo

Nel 1997, la filosofa femminista Susan Bordo pubblicava Unbearable Weight: Feminism, Western Culture, and the Body, un saggio che rappresenta ancora oggi una delle più lucide analisi sociologiche dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), in particolare dell’Anoressia nervosa. L’autrice interpreta tali fenomeni non come mere psicopatologie individuali, ma come effetti sistemici di un assetto biocapitalistico in cui il corpo delle donne diviene oggetto di controllo, disciplina e marginalizzazione politica.

Bordo evidenzia come, nelle società occidentali a capitalismo avanzato, il corpo femminile sia al centro di dispositivi simbolici e materiali di potere, che ne condizionano l’esistenza. Le immagini veicolate dai media – pubblicità, televisione, cinema, moda, web – costituiscono un vero e proprio regime visivo disciplinante, capace, cioè, di produrre modelli di bellezza, magrezza e perfezione, che vengono interiorizzati dagli individui e dalle donne in particolare, agendo come imperativi morali più che estetici. In questo contesto, la magrezza non è più una semplice preferenza fisica: essa diventa piuttosto una categoria etica, un criterio di autovalutazione, una modalità di appartenenza sociale.

Non sorprende, quindi, che l’Anoressia nervosa sia oggi diffusa in misura significativa tra le donne dei Paesi occidentali. Secondo gli studi più recenti, infatti, la percentuale di donne affette da Anoressia nervosa varia dallo 0,9% al 4,3%, con punte che arrivano fino al 6,3% tra le giovani adulte, a seconda dei criteri diagnostici adottati (DSM-5) e del contesto analizzato[1]. Tali percentuali, apparentemente contenute dal punto di vista numerico, corrispondono a milioni d’individui; ciò ne fa un problema sociale strutturale.

Il riferimento al pensiero di Michel Foucault permette di comprendere ulteriormente la natura di questi meccanismi. Il potere, difatti, nel biocapitalismo non si esercita più in forma verticale e repressiva, ma si diffonde capillarmente attraverso dispositivi tecnologici, pratiche discorsive e forme di autogestione dell’esistenza. In questa prospettiva, l’Anoressia può essere letta come una forma di assoggettamento volontario: la donna si sottomette alle regole del potere senza coercizione diretta, ma attraverso la progressiva interiorizzazione dei valori imposti dalla società in cui vive.

Il corpo anoressico si presenta, così, come luogo di una soggettivazione alienante. L’ossessione per il controllo, la restrizione calorica, l’esercizio fisico estenuante e la negazione della fame si configurano come modalità disciplinari attraverso cui il soggetto tenta di raggiungere l’ideale normativo della magrezza assoluta e della bellezza femminile promossa dai media. Questo modello, apparentemente individuale, è in realtà il prodotto di una logica collettiva di controllo, che esclude le donne dalla dimensione politica, pubblica e decisionale, per relegarle nella cura del corpo e nella riproduzione dei canoni estetici dominanti. In tal senso, i DCA non possono essere compresi unicamente attraverso categorie psicologiche o sociologiche. Essi chiamano piuttosto in causa una dimensione ontologica e simbolica: il corpo che si affama e si consuma è spesso l’unico linguaggio possibile attraverso cui il soggetto femminile esprime un dolore muto, invisibile, e che chiede riconoscimento. La ferita autoinflitta diventa perciò un atto comunicativo estremo, un tentativo di uscire dall’anonimato imposto da una società che trasforma l’identità in merce e la soggettività in performance.

In questa cornice, la fame torna a occupare un ruolo centrale nelle società opulente. Donne benestanti scelgono – o sono spinte a scegliere – di patire la fame, non per mancanza di risorse, ma per conformarsi a un modello di bellezza che, in realtà, cela una volontà di potere e annientamento dell’individuo. Il controllo del cibo e del corpo diventa pertanto un dispositivo biopolitico di controllo sociale, che impone autodisciplina, rinuncia, docilità e conformismo come criteri di legittimazione esistenziale.

L’Anoressia -alla luce di quanto sostenuto sin qui- non è dunque solo una psicopatologia, ma un sintomo politico: essa manifesta, nel corpo, le contraddizioni di un sistema che produce soggettività obbedienti e corpi plastici, privati di unicità, autonomia di pensiero e progettualità. La logica tanatopolitica del biocapitalismo contemporaneo si altresì rivela nell’economia simbolica della magrezza: un modello in apparenza estetico che, in realtà, produce esclusione, sofferenza e autoannientamento. L’interiorizzazione d’ideali irraggiungibili e il rifiuto del sé corporeo sono infatti effetti diretti di un dispositivo di potere che si legittima tramite la seduzione, non più tramite la coercizione, poiché promette alle donne che, se raggiungeranno il modello promosso dal sistema sociale e mass-mediatico, saranno finalmente riconosciute e realizzate.

Potremmo dunque sostenere che i DCA rappresentano una forma di resistenza rovesciata: nel tentativo estremo di controllo, il soggetto femminile denuncia involontariamente la disfunzionalità del sistema in cui è immerso. Ed è proprio in questo paradosso – tra ribellione e assoggettamento – che si manifesta la natura profondamente politica della sofferenza femminile contemporanea.

L’anoressia nervosa, pertanto, al pari degli altri disturbi del comportamento alimentare, non può più essere interpretata esclusivamente alla luce di fattori clinici o psicologici individuali. Essa rappresenta, piuttosto, la manifestazione estrema di un dispositivo di potere che, agendo nel cuore delle società occidentali tardo-capitaliste, plasma le soggettività femminili attraverso l’illusione dell’autodeterminazione. Tant’è che nel corpo che si assottiglia fino a sparire, s’inscrive la traccia visibile di un consenso costruito, non imposto. Un consenso ottenuto attraverso la seduzione estetica, la normatività dell’immagine, l’autodisciplina elevata a virtù. È qui che il biocapitalismo contemporaneo raggiunge la sua massima efficienza: allorché la vittima si fa carnefice di se stessa, in nome di un ideale che non le appartiene. Pertanto, se la magrezza è oggi il sigillo simbolico dell’accettabilità sociale femminile, l’Anoressia diventa il volto tragico di una cultura che riduce la donna a corpo sessualizzato, il corpo a merce, e la libertà a performance. Denunciare questa dinamica significa non solo restituire dignità alla sofferenza silenziata di milioni di donne, ma anche smascherare il volto più raffinato – e perverso – del potere contemporaneo: quello che si nasconde dietro alle immagini, ai desideri indotti, e alla libertà apparente di scegliere di scomparire.

Bibliografia essenziale:

Bordo, S., Unbearable Weight: Feminism, Western Culture, and the Body, University of California Press, Usa 1997

Orbach, S., Fat is a Feminist Issue, Arrow Books, London 1978

Bartky, S. L., Femininity and Domination: Studies in the Phenomenology of Oppression, Routledge, New York 1990

Foucault, M., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975

Foucault, M., Histoire de la sexualité I: La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976

Agamben, G., Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995

Baudrillard, J., La société de consommation, Denoël, Paris 1970

Gill, R., Gender and the Media, Cambridge Polity Press, Usa 2007

*

Note

[1] I dati riportati sono stati elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità, nello specifico, sempre ricorrendo a tale fonte, si evince che, In Italia, vi è una presenza di Anoressia nervosa femminile pari allo 0,2% e lo 0,8% e di Bulimia pari all’1-5%, in linea con i dati forniti dagli altri paesi. Una ricerca condotta su un campione complessivo di 770 persone di età media di 25 anni, tutte diagnosticate con disordini alimentari e che si sono rivolte alla “Associazione per lo studio e la ricerca sull’anoressia, la bulimia, i disordini alimentari e l’obesità” a Roma e Milano, presieduta dalla dottoressa Anna Maria Speranza, ha rilevato una percentuale del 70,3% di Bulimia nervosa, il 23,4% di Anoressia nervosa, il 6.3% di “disturbi alimentari non altrimenti specificati” o di altra condizione, perlopiù corrispondente a obesità. Nel campione analizzato, la data di esordio del disturbo è mediamente tra i 15 e i 18 anni, con due picchi (15 e 18 anni), età che rappresentano due periodi evolutivi significativi, quello della pubertà e quello della cosiddetta autonomia, o passaggio alla fase adulta, che sono stati rilevati anche in molti altri studi sul tema.

10 Commenti

  1. Buongiorno, mi “ammalai” di anoressia nervosa nel 1978, nessuno sapeva di che cosa si trattava. Subii analisi mediche e cliniche, ero il primo caso a Torino, forse anche in un raggio più ampio. Poi fui costretta da una famiglia disfunzionale a cinque anni di psicoterapia assolutamente inutile. Il mio disturbo non aveva nessuna origine imposta da un potete che non fosse quello affettivo. Ancora oggi mi ritengo politicamente anarchica. E reputo che non sia generalizzabile l’origine di un disturbo così complesso, né sociologicamente né psicologicamente. Ogni individuo ( non dico donna volutamente) misura la visione di se stesso attraverso la lente di lettura che si costruisce anche con gli strumenti che si è saputo conquistare da solo. E credo che una lettura in termini di imposizione di modelli culturali sia troppo facile. Le grandi sante del passato erano quasi tutte anoressiche, ma non per sfilare in passerella…

  2. Grazie Anna del tuo commento, che credo ricordi una cosa importante: è difficile “generalizzare l’origine di un disturbo cosi complesso”. Sono d’accordo, e lo dico ovviamente da persona che non ha competenze né esperienze specifiche sull’argomento. Nello stesso tempo, penso che anche i disturbi più complessi siano “storici”, ossia legati un mondo storico-sociale specifico. E quindi trovo importante che si citino studi che si sono occupati anche dell’aspetto bio-politico dell’anoressia. Anch’io sono scettico sull’idea che sia possibile identificare una chiave unica per un tale fenomeno. Ma attenzione, i rischi di generalizzazione sono presenti anche in un’affermazione come quella che fai sulle sante del passato. Che ne sappiamo noi dell’anoressia di “quasi tutte le sante del passato”? Ma certo è anche questa una chiave di lettura interessante.

    • Buongiorno Andrea e grazie. Segnalo a questo proposito un bellissimo testo di Bell che lessi molti anni fa, “La santa anoressia”, digiuno e misticismo dal medioevo a oggi. La componente ascetica anche nell’anoressia attuale secondo me è molto forte. Saluti.

  3. Ho letto più volte il testo. Trovo ci siano spunti interessanti e che, come scrivi tu, Andrea, disturbi complessi richiedano anche una storicizzazione e una lettura che non guardi solo a una causa ma che sia di ampio respiro. Eppure, nel complesso, sento che qualcosa stride – e il commento/testimonianza di Anna Giuba conferma alcune riflessioni che il testo mi ha mosso. Innanzitutto credo che, come qualcuno diceva, non bisognerebbe parlare di “anoressia” al singolare ma di “anoressie”, come pure “bulimie” anziché “bulimia”. Perché se è necessario storicizzare e contestualizzare un problema, è pur vero che quando si tratta di patologie psichiche o di sintomatologie gravi, è necessario entrare nel cuore del problema attraverso una maggiore attitudine alla soggettivizzazione. Ogni essere al singolare, con una propria storia biografica, dove il sintomo dice qualcosa di preciso, puntuale, e che assume connotazioni anche strutturali altamente diversificate. Siamo certi che nel corpo anoressico che si riduce a un osso s’inscrive la traccia visibile di un consenso costruito, non imposto. Un consenso ottenuto attraverso la seduzione estetica, la normatività dell’immagine, l’autodisciplina elevata a virtù. È qui che il biocapitalismo contemporaneo raggiunge la sua massima efficienza: allorché la vittima si fa carnefice di se stessa, in nome di un ideale che non le appartiene.?
    Io non credo. Il testo non menziona il fatto che una percentuale altissima di persone che si ammalano di anoressia o bulimia abbiano, ad esempio, vissuto abusi in età precoce, sia di natura psicologica all’interno di contesti ambientali disfunzionali, sia di natura fisica e spesso sessuale. (in rete si posso trovare facilmente le casistiche). E da lì: un corpo che più che adeguarsi e “ammobiliarsi” si riduce, si fa corpo scomparso, corpo negato, corpo che, forse, se ridotto al suo estremo, può (finalmente) essere rifiutato, scartato. In questo senso la dinamica si produce paradossalmente nel suo opposto: non la ricerca di un corpo accettabile, conforme a ciò che l’Altro sociale vuole, piuttosto un corpo che si scarnifica per scomparire all’occhio invasivo di un altro minaccioso.
    Quando si parla di anoressia, infatti, non si tratta di un corpo “magro” “bello” “perfetto” – e che dunque si conformerebbe a un ideale di bellezza imposto dal sistema capitalistico (senza nulla togliere al fatto che questa dimensione sia sicuramente presente, ma è una dimensione maggiormente presente in altre tendenze dell’attuale meno invasive), ma un corpo piuttosto mostrificato, scheletrificato, emaciato. E la bulimia, rappresentata peraltro da una percentuale maggiore secondo le stesse fonti citate nell’articolo, mostra tanto più quest’evidenza. Un corpo martoriato anche nell’interno, che espelle fino a distruggersi organi e battiti cardiaci.
    Credo sia sempre rischiosa un’analisi di manifestazioni sintomatiche così gravi quasi solo alla luce di considerazioni di natura storica, politica e sociale – e lo dico a partire da una formazione sociologica.
    Sono assolutamente d’accordo con questo paragrafo:
    Bordo evidenzia come, nelle società occidentali a capitalismo avanzato, il corpo femminile sia al centro di dispositivi simbolici e materiali di potere, che ne condizionano l’esistenza. Le immagini veicolate dai media – pubblicità, televisione, cinema, moda, web – costituiscono un vero e proprio regime visivo disciplinante, capace, cioè, di produrre modelli di bellezza, magrezza e perfezione, che vengono interiorizzati dagli individui e dalle donne in particolare, agendo come imperativi morali più che estetici.
    Ma questo è estendibile ad un generale “trattamento” del corpo femminile (e della donna) – che tocca tutte le donne – al di là delle patologie psichiche. Quando si entra nel patologico, nella sofferenza manifestata in forma di sottrazione, là c’è la singolarità. Il sintomo si riproduce nelle stesse modalità, ma il punto di partenza resta nel soggettivo. Ho conosciuto donne anoressiche, e quasi tutte avevano una storia profondamente sofferente alle spalle – e che nulla (mi verrebbe quasi da dire “ahimè”) aveva realmente a che fare con dispositivi biopolitici. Piuttosto, un dispositivo biopolitico per eccellenza è proprio il DSM citato. La categorizzazione, l’elencazione sistematizzata di sintomi a fini diagnostici e che porta all’idea di albero rotto che va raddrizzato, un’immagine, se non erro, portata ad esempio proprio dallo stesso Foucault. Un disciplinamento del corpo e dei corpi, un tentativo di normalizzazione.
    Se l’articolo avesse preso in esame, ad esempio, i tentativi odierni della ricerca di un’omologazione di volti e corpi esposti modificati, operati, ricostruiti dalla chirurgia plastica, in una rincorsa a modelli effettivamente imposti (nemmeno troppo velatamente dal sistema), e che vediamo ogni giorno fuori e dentro la rete, sarei stata d’accordo su tutto. Quando però si entra nel reale scabroso della patologia che segna il corpo, che lo distrugge, mi verrebbe da fare un passo indietro. O di lato.

    • Buongiorno, ti ringrazio moltissimo, Mariasole, per questo commento che va al cuore del problema. Soprattutto alla fine, con l’elencazione, la catalogazione in DSM, con la presunta arroganza di schematizzare e richiudere l’individuo ( mi ostino a parlare in termini anche maschili) in scatole scientifiche o pseudo tali che nulla hanno a che vedere con la storia di un’anima. In fondo credo si tratti di questo e che il corpo, per un’anoressica/o, sia percepito talmente estraneo e punibile nell’autodistruzione da privilegiare altri “canali”di percezione. Mi spiego. Quando pesavo ormai pochissimo, il mio cervello era divenuto prodigioso. Facevo la quinta ginnasio e riuscivo a tradurre versioni complicatissime senza vocabolario o altri ausilii. I docenti, che venivano a trovarmi in ospedale, non riuscirono mai a spiegarsi un tale rendimento in quelle condizioni fisiche. Ero in un’altra dimensione. Più mortificavo il corpo, più la mente si elevava. Perdonate il riferimento personale, ma credo che il fatto di aver vissuto questo calvario mi dia una microscopica percentuale di autorevolezza nel discuterne, e mi fa molto piacere farlo qui dove sono stata pubblicata per anni. Il presunto DSM viene applicato a qualsiasi disturbo mentale, ignorando ( il ricordo di Basaglia è solo un ricordo), il vissuto, che tiu Mariasole giustamente sottolinei, la famiglia, causa precipua di tutto. Basta recarsi in un centro di salute mentale per vedere fantasmi gonfi di aghi e sieri che non riescono nemmeno a pensare. Ricordo l’etimologia della parola “psichiatra”, per chi la ignorasse. Colui che si prende cura dell’anima, del soffio vitale che è dentro l’essere umano.

      • Rinnovo il ringraziamento Anna per questa tua testimonianza. E credo che il riferimento personale sia in questo caso necessario, proprio per la nozione di “singolarità” che Mariaosole sottolineava.

  4. Grazie Mariasole. Io, come ho ripetuto, non ho nessuna certezza in materia, e quindi m’interessa la discussione e le obiezioni che il pezzo ha suscitato.Trovo molto interessante la divaricazione tra generalità (e generalizzazione) e singolarità, proprio in riferimento alla malattia. Forse la malattia è proprio una modalità di sfuggire il sociale e la sua violenza in un forma di singolarità (come se il dolore vissuto in prima persona permettesse di rompere la comunicazione “obbligata” con il consesso sociale). Continuo a interrogarmi pero’ anche sulla dimensione collettiva e storica della malattia. E questa dimensione, in una società dominata dall’immaginario capitalista, non sfugge forse del tutto a qualche forma di condizionamento. Penso che il paradigma bio-capitalistico possa avere qualche senso con feomeni amplificati dalle piattaforme come lo #SkinnyTok, e le comunità ossessionate dagli elogi al controllo fisico e della propria immagine (in un senso o nell’altro – vita strettissima o all’opposto seni prosperosi).

  5. Una sola, ultima cosa: ricordare che è una patologia borghese. Nasce in contesti dove spesso non si sa che cosa siano la miseria e la fame. Grazie a tutti.

  6. Grazie per le vostre osservazioni e i vostri commenti, che sono fonte di arricchimento. Vorrei rispondere con una riflessione: siamo circondati e feriti, tutti quanti, da una tale violenza, di cui neppure ci rendiamo conto. Violenza sociale, verbale, visiva, politica, economica, familiare… Una violenza che ferisce e le cui tracce, seppure latenti, ci accompagnano negli anni. Ho avuto anch’io esperienza diretta dell’Anoressia, con una parente vicina che ne ha sofferto, e di Anoressie nel mio lavoro di docente, durante cui ho incontrato decide di ragazze affette da DCA. Il mio interesse per questo tema è nato proprio in conseguenza a tali esperienze dirette e dopo una formazione in counseling e psicoanalisi. Ebbene, le spiegazioni che la psicologia forniva non mi bastavano, seppure il metodo psicoterapeutico rivestiva e riveste un’ importante centrale nel trattamento dei DCA, al pari dell’ approccio medico. Eppure, nonostante le teorie e le storie familiari, nonostante le pratiche, il mistero profondo dell’assenza di senso e della perdita dell’amor di sé, a cui le Anoressie conducono, restava senza comprensione. E proprio qui, a partire da tale cortocircuito, si è generato un approccio differente al fenomeno in questione: un approccio che non voleva escludere la psicologia e le sue eziologie, bensì completarle con una riflessione più profonda, che toccasse proprio il potere e la sua subdola violenza. Certamente, nel Medioevo, e direi in tutte le pratiche ascetiche e mistiche (anche in Oriente e specie lì), il digiuno, e la conseguenza Anoressia, sono presenti, ma hanno un valore diverso rispetto ai digiuni contemporanei: allora ci si asteneva per distaccarsi dal corpo e per raggiungere la contemplazione divina annientando le passioni, oggi si digiuna contando le calorie e per raggiungere la magrezza assoluta. E cosa rappresenta questa magrezza, tipicamente frutto della nostra contemporaneità e associata innegabilmente al corpo femminile? Nel passato, infatti, la bellezza era data da altri parametri… Essa, dunque, costituisce oggi un ideale irraggiungibile, e proprio per questo, da bramare a tal punto da votarsi interamente ad esso. Il corpo sfinito si fa “lluogo” in cui trovare ordine e controllo in mezzo al disordine dilagante. La magrezza, allora, lungi dall’essere via di contemplazione divina grazie all’astinenza, diviene una forma di violenza sul corpo femminile (date le proporzioni dei DCA e delle Anoressie nelle donne), una violenza subdola perché auto-inflitta e indotta dai modelli che normalizzano certi parametri patologici (penso alle passerelle su cui per anni hanno sfilato ragazze pelle e ossa). La magrezza diviene una delle subdole strade che il potere delle immagini propone, come via di fuga dalla sofferenza, alle donne. Ecco che l’Anoressia di oggi, le cui radici sono nella psiche e nei suoi traumi (familiari, infantili, affettivi, sessuali etc.) diventa, altresì, qualcosa a cui subdolamente il potere invita le donne, per renderle docili, associandole ancora una volta al corpo, tanto che il grido di dolore muto di molte si trasforma adesso in smaterializzazione e rinuncia totale alla vita. Quel grido d’insoddisfazione, che potrebbe portare a uno sconvolgimento, viene invece subdolamente disciplinato dal potere e diretto verso il dominio del proprio corpo, nuovo terreno su cui si giocano le dinamiche del potere contemporaneo, specie quello applicato al femminile. L’articolo, allora, intende, seppur in estrema sintesi (sono condensati una tesi dottorale e anni di studi), fare luce proprio su simoli dinamiche di potere, inconsce e collettive, che a partire da modelli estetici (in relata etici) veicolati attraverso le nuove tecnologie -e non solo- creano soggettività resettate e incatenano, grazie all’introiezione. Non si parla più, difatti, di un potere verticale ma orizzontale, in cui il soggetto stesso si auto-disciplina senza rendersene conto. Laddove il dolore personale e psicologico e’ canalizzato in forme autodistruttive e distruttive, del resto, e’ sempre intravedibile un meccanismo disciplinare. Le donne, così, si fanno spesso “complici” inconsapevoli di tali modelli disciplinari perfetti per incanalare una legittima sofferenza, che non sa trovare modo costruttivi per esprimersi. Si tratta quindi di un meccanismo di interiorizzazione, derivante da un’azione di martellamento costante e di manipolazione non manifesta a cui soprattutto il sesso femminile è sottoposto ancora oggi per via della associazione arcaica tra femminile-corpo-sessualità. Nella misura in cui viviamo nella società mimetica delle immagini, in cui il confronto è indotto di continuo e, con esso, il senso di frustrazione che deriva dalla competizione e dal non esser mai alla pari con i modelli di perfezione irraggiungibili promossi dal mercato, tutte le donne sono potenziali “vittime” di certi fenomeni. Lo dimostra altresì la chirurgia estetica e plastica, a cui ormai fa ricorso un gran numero di donne occidentali e non solo, assecondando ancora una volta il modello dell’eterna giovinezza e attrazione sessuale a cui il gentil sesso pare essere votato… Si parla di Sindrome di Grimilde, in questo caso… Ancora una volta subdole forme di violenza e meccanismi di disicplinamento che si rivolgono al femminile attraverso una rete orizzontale di imperativi, che fanno sì che l’individuo si auto-disciplini (Foucault e Girard ne hanno a lungo parlato, e Hun ha poi ampliato).

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023 (Premio Pagliarani 2024). Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato i volumi collettivi Teoria & poesia, Biblion, 2018 e Maestri Contro. Brioschi, Guglielmi, Rossi-Landi, Biblion, 2024. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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