“Lo sbilico”: romanzo estremo
di Pasquale Giannino
Si sta parlando molto della nuova prova narrativa di Alcide Pierantozzi. È un libro che non salva nessuno. Non salva l’autore: “È da tempo che non mi sento più uno scrittore […] Posso solo raccontare la melma dei giorni: continui episodi di dissociazione, allucinazioni, autolesionismo, corse al pronto soccorso, minacce e tentativi di suicidio che hanno annichilito la mia famiglia”. Non salva il lettore. Vale la pena domandarsi se, quantomeno, riesca a salvare se stesso.
Lo sbilico (Einaudi, 2025) prende le distanze da talune pratiche liberatorie di stampo psicoanalitico, presenti nell’opera di scrittori cui Pierantozzi si richiama (fra gli altri, Umberto Saba e Giuseppe Berto). Il lavoro sullo stile risulta notevole, in netto contrasto con quello asettico dei referti, che l’autore riporta fedelmente. Quello sul lessico sfiora le vette di uno scrupolo maniacale: “Sono sempre in cerca di parole assolute, che mettano il guinzaglio ai pensieri, che facciano un po’ d’ordine nella scompagine che ho in testa”. Un passaggio chiave del romanzo è quello in cui si arrende alla malattia: “Ormai da cinque anni la mia malattia mentale ha raggiunto la sua acme […] È come se mi mancasse quell’intelligenza di fondo che induce ogni persona sana non tanto a scacciare un brutto pensiero, o ad andare dal dottore, ma a comprenderne l’infondatezza, la portata fantastica”. La disfatta, nondimeno, si accompagna alla decisione coraggiosa di dare la parola a tali gravissime distorsioni del reale; di lasciare esprimere i tormenti più dolorosi e profondi, che la malattia innesca nel proprio animo. Ne discende una determinazione che non sembra suggerire una via di fuga, tantomeno di salvezza nella scrittura. Emerge semmai un’urgenza di tipo espressivo, la quale non si abbandona al talento narrativo, ma si corrobora costantemente con una ricerca attenta e scrupolosa – spinta fino ai limiti dell’ossessione – che non è solo di tipo formale. L’attenzione posta nel rendere lo stile gelido e asettico dei referti si riverbera nella “voglia di impugnare la matita e riscrivere questi fogli da cima a fondo, con altre parole, con un’altra tensione drammatica. Per raccontare le cose come sono andate davvero dovrei dare alle frasi un nuovo effetto di senso, un diverso nitore di traiettoria”. L’intento dichiarato è “raccontare le cose come sono andate davvero”. La ricerca stilistica e lessicale, dunque, non è fine a se stessa ma si pone al servizio di un’urgenza espressiva, che permetta all’autore non già di fuggire la malattia, ma di penetrarla a fondo, al fine di svelarne i recessi più oscuri e inquietanti. Ne risulta un’opera che assume i tratti di una drammatica testimonianza. Il racconto in prima persona della malattia, reso con una tale dedizione comunicativa, si rivolge anzitutto a quanti affrontano la medesima solitudine. Ma non parla soltanto ai malati. Parla a chiunque vi riconosca, ricordando Ludwig Binswanger, una forma di esistenza mancata: ovvero, se la malattia psichiatrica è tale, una specie di solitudine estrema. Parla a tutti, malati e presunti sani.
Alberto Moravia disse che l’artista è un essere profondamente anormale. Vincenzo Guerrazzi sosteneva che lo scrittore è un monco, un albero spezzato, uno che non si è realizzato nella vita. Sono due le forme di esistenza mancata, nel romanzo, che si corroborano e a tratti si confondono, con esiti apprezzabili dal punto di vista letterario. Non vi è traccia di momenti liberatori e tantomeno salvifici, in questo libro. Non è un’opera che indica vie di fuga dall’inferno esistenziale che rappresenta. Tuttavia, colpisce la lucidità narrativa con cui è pensata e costruita: nella struttura, nel contenuto, nelle scelte lessicali e stilistiche. Sembra che vi sia una contraddizione con la grave patologia dichiarata dall’autore, ma è solo apparente. Quelle due forme di anormalità non sono estranee fra loro, bensì due volti della stessa anima tormentata, reietta, dilaniata dalla malattia, che ha deciso di esprimersi e raccontare dal di dentro il proprio mondo, gremito di fantasmi e allucinazioni terrificanti. Così, quell’esistenza negata, colpevolmente stigmatizzata ed esclusa nel mondo dei cosiddetti sani, reclama il diritto di piena cittadinanza in quello non meno reale della letteratura.
Una volta superato l’impatto con la realtà distorta e spaventosa che Pierantozzi svela dal di dentro, il lettore non può fare a meno di entrare in empatia con l’autore, nelle pagine in cui il racconto si apre ai momenti della vita quotidiana, alla rabbia, all’indignazione, alla speranza: “L’unico sollievo è pensare che Milano c’è ancora, che via Plinio 33, dove abitavo, esiste ancora, che a un certo punto per me potrebbe tornare la vita di prima”. In quelle pagine, Alcide non parla solo del proprio mondo: parla di tutti noi, della nostra vita, delle piccole e grandi solitudini che ci riguardano tutti, per la colpa che abbiamo di essere vivi. Il riaffiorare del tempo trascorso con la nonna in campagna, durante l’infanzia, può spiazzare il lettore. Sembra un capitolo a sé, quello di un’altra esistenza possibile, idilliaca e felice intravista dall’autore da bambino: “Il dolore e la voglia di morire sparivano solo mentre correvo da nonna […] Le galline razzolavano libere in mezzo alla strada, i contadini dormivano sulle sedie di paglia davanti agli uscioli, avvoltolati nell’ombra”. Appare troppo marcato il contrasto con l’urgenza che promana dai brani più sofferti e laceranti. Sennonché, quella rappresentazione bucolica idealizzata è infranta dal rito macabro dell’uccisione delle bestie, nel quale si insinua potente il pensiero della morte: “Il cortile si riempiva di strilli […] Gli occhi del coniglio andavano all’indietro fino a mostrare le sclere bianche e nude. Faceva un ultimo strillo, povero amico mio, e si contraeva in una quiete flemmatica […] La morte è un coniglio con i centri motori andati in panne, pensavo. Si muore sbaragliati da una pressione che schiaccia a terra tutte le cose, la stessa che sentivo anch’io, come un accento sopra la «o» della testa”.
Dunque Lo sbilico non salva nessuno: né l’autore né il lettore. Pierantozzi lo ribadisce nelle ultime pagine: “La scrittura, per me, non è un progetto di salvezza […] Io vivo un passo alla volta, una riga alla volta, resisto un’ora alla volta, vado da A a B”. Riesce almeno a salvare se stesso? Per quanto mi riguarda, la risposta va cercata in quei momenti di vita ordinaria, comune che fanno da sfondo al romanzo, ma che a ben vedere costituiscono la struttura portante dell’opera; il fil rouge che permette di comporre in un mosaico unitario i tasselli di una vita frantumata dalla malattia, che Alcide racconta senza filtri psicologici, espressivi e morali. È quello sfondo di “normalità” che rende credibile questa prova di scrittura e la giustifica dal punto di vista narrativo, oltre la prospettiva esasperata dell’io narrante, che si impone con prepotenza sulle altre figure minori lasciandole nell’ombra: il trasferimento dall’Abruzzo a Milano per studiare Filosofia, l’attività di scrittore, le speranze e i disincanti, i rapporti con i familiari: il legame con la madre a tratti simbiotico, morboso; l’incomunicabilità con il padre (il Negazionista, colui che si ostina a negare sia la malattia che l’omosessualità del figlio); la presenza discreta ma preziosa del fratello vivente; la figura del fratellino morto che aleggia nel racconto. È un quadro che si compone lentamente, tassello dopo tassello. Si completa nelle ultime pagine. Appare nitido e profondo, nel finale poetico e struggente che l’autore ci consegna.
