La Resistenza al di là delle celebrazioni (1970)

di Oretta Bongarzoni
Paese Sera, 25 aprile 1970
Per i giovani la Resistenza non solo continua, ma rinasce. Dicono: «I problemi sono ancora tutti in piedi, quindi non c’è che da andare avanti».
ESISTE la Resistenza? Oppure è soltanto esistita? Intendiamo chiedere: venticinque anni di vita, dalla primavera del ’45 a quella del ’70, sono il lungo ponte lanciato fra la vecchia vittoria e le lotte che si rinnovano, o somigliano a una balaustra massiccia e separatrice, da cui ci si affaccia a guardare il passato? Più di novemila giorni vissuti scavalcando la velocità del suono, della luce e del pensiero, insieme con i razzi e le missioni siderali, ci hanno trasformato in creature troppo vecchie o troppo giovani e insofferenti per avere voglia di voltarsi indietro, verso la strada alle spalle? La Resistenza è l’ultimo capitolo del «programma storia moderna» che comincia con una guerra durata anni e combattuta da processioni di cavalieri con la spada: o il prologo necessario di un’età nuova?
Raccontata in gran fretta
Nei libri di scuola, i diciannove mesi della guerra partigiana vengono di solito raccontati in gran fretta: poche righe «obbiettive» su una guerra civile tristissima nella quale il fratello versò il sangue del fratello, rovinando così una bella pagina di lotta contro lo straniero invasore. E questa sarebbe già una risposta, dal momento che veli pietosi e bugiardi si stendono sempre sugli oggetti che bruciano. Però esiste anche il fenomeno della retrodatazione millenaria. È significativo che oggi l’uomo preistorico susciti maggiore interesse di quello storico: dai trattati intelligenti e pignoli degli antropologi, agli allegri «antenati» dei fumetti che fanno ciao ciao ai missili e vanno in gita alla base spaziale. Si direbbe che il conterraneo dell’astronauta cerchi un messaggio diretto proveniente dalle caverne: come se si fosse svegliato all’improvviso, nudo e crudo, nell’anno zero. E la storia? Spazzata via dalla scienza totalitaria. Anche questa potrebbe essere una risposta: se non fosse equivoca e pericolosa come tutte le asserzioni che tagliano corto, spazzano via e magari trasformano questo 25 aprile in una celebrazione infiocchettata, cerimoniosa, piena di aggettivi e segnata in rosso sul calendario. Del resto in ogni celebrazione c’è il desiderio di annientare l’oggetto celebrato, fingendo di esaltarlo.
Una battaglia quotidiana
«E poi di quale celebrazione andiamo parlando?» esclama un giovane sindacalista della CISL, che si chiama Paolo Paramucchi. «La Resistenza non è mica finita; e non finirà finché le sue ragioni ideali saranno tenute in così poco conto. Si tirano fuori le parole libertà, giustizia, democrazia, rispetto della dignità umana (parole a cui gli uomini che vissero davvero la Resistenza davano un preciso significato). La libertà non è completa se non esiste ancora la libertà dal bisogno, dall’alienazione, se nelle fabbriche la libertà continua ad essere un obiettivo. La giustizia non si è realizzata se per vivere centinaia di migliaia di uomini emigrano o sono costretti a condizioni di lavoro disumane e con salari di fame. La democrazia rischia di essere un inganno amaro quando le occasioni di partecipare alle scelte politiche sono così rare e si devono appaltare le decisioni ai pochi che nelle segreterie dei partiti le gestiscono».
«E intanto c’è chi finge di credere che Agnelli e l’ultimo operaio della Fiat contano allo stesso modo perché danno un voto a testa. In Italia si rispetta la dignità umana tollerando le condizioni di vita di migliaia di famiglie nelle baracche, alla periferia delle grandi città; si rispetta la dignità umana e si consente lo sfruttamento nelle fabbriche e una sopravvivenza spaventosa in tante campagne. Guardiamo al di là dei nostri confini: dove c’è una parvenza di libertà, manca la giustizia; dove si persegue la giustizia, la libertà è un bene dimenticato. Guerre, bombardamenti, torture sono il tragico contorno di tutto questo, e spesso – cosa gravissima – c’è il tacito assenso dell’Italia ufficiale».
Rivoluzionari e scandinavi
Cinque anni fa, l’argomento Resistenza avrebbe diviso i giovani in due schiere: da una parte, un’indifferenza tecnica galleggiante in un sogno di benessere scandinavo; dall’altra, un’impazienza «rivoluzionaria» pronta a gettare pietre sulle cose vecchie e ansiosa di inventare le barricate «vere». Qualunquismo da miracolo economico ed esplosione generosa ma sterile erano — ciascuno a suo modo — la radice quadrata di un costume e di una mentalità cosmopolita antichi quanto l’impero romano e «benedetti» a suo tempo dalla chiesa cattolica, romana e universale. Cinque anni fa, la Resistenza era per i giovani la presa della Bastiglia, la battaglia di San Martino, il viva l’Italia di Giuseppe Verdi. Oggi è un fatto ovvio. Continua. Rinasce attraverso la rabbia organizzata degli operai che si sanno forti, attraverso i cortei degli studenti e le nevrosi sbigottite dei piccoli borghesi che forse non sono più capaci di giuocare con l’automobile giallo-banana o con i servizietti di plastica per andare a mangiare felici sull’erba.
Sempre attuale
«Che cosa è per te il 25 aprile?» I giovani reagiscono con stupore, fastidio, imbarazzo. «Perché lo chiamano anniversario della liberazione?» chiede Roberto Brancaccio, V anno all’Istituto tecnico «Enrico Fermi». «Non fu soprattutto una rivoluzione? E allora bisogna avere il coraggio di dirlo, altrimenti è come non averla fatta. Liberazione dallo straniero: certo, così ognuno può gonfiarsi di orgoglio patriottico e la Resistenza diventa qualcosa di simile alla conquista di Trento e Trieste: qualcosa da impacchettare e da applaudire a distanza. Molto comodo ma sbagliato».
«E allora, cosa bisogna fare?».
«Bisogna continuarla, quella rivoluzione. I problemi di allora sono stati risolti? No, sono ancora tutti in piedi; quindi non c’è che da andare avanti. E invece nel ’45 calò il sipario addirittura».
«Non poteva non calare – afferma Raoul Mordenti, che fa parte del movimento studentesco universitario e che non ha troppa voglia di rilasciare dichiarazioni («il movimento è in una fase delicata, forse non è opportuno esporsi, noi stiamo lottando per raggiungere un equilibrio interno…») – Non poteva non calare perché ci furono gli accordi di Yalta, le basi americane in tutta Italia e delle forze popolari ancora esigue». Sorride, con uno sguardo trasparente e spavaldamente mansueto: per lui oggi non scade un bel nulla perché tutto deve ancora scadere.
Mauro Casotti fa il V anno di ingegneria e allarga le braccia: «La velocità ultrasonica, i razzi interplanetari, gli anni che sono secoli? Sarà anche vero, ma accanto a questo esibizionismo fantascientifico ci sono anche guerre “artigiane” e terribili come quella combattuta dai vietnamiti. Lo so, lo so, è un luogo comune ormai ma io continuo a ripeterlo. I modelli della Resistenza si rinnovano ancora oggi, dal Vietnam al Guatemala; e quindi esistono, fanno parte della storia come l’avventura della Luna. Anzi di più, perché quelli costano sangue e questa solo miliardi di dollari. E voglio dire anche che la corsa allo spazio, se non ci fossero sulla terra i partigiani vietnamiti e i guerriglieri dell’America Latina, sarebbe solo uno scandalo ignobile. Così, invece, è una speranza per quelli che verranno dopo; per coloro che, come dice Brecht, dovranno pensare a noi con gentilezza».

Suor Antonia Maria
«Lei pensa che il mondo sia gentile?», domandiamo a Suor Antonia Maria, 25 anni, infermiera in una clinica di Monte Mario, due occhi lucidi e chiari come castagne e molta paura che il nostro colloquio venga scoperto da una madre superiora dolce e vendicativa.
«Il mondo gentile? Oh no, è terribile, più terribile delle grandi calamità della Bibbia.
«Per questo è diventata suora e crede nell’aldilà?».
«Io sono diventata suora anche perché ero povera. E credo in Dio. Ma faccio l’infermiera per aiutare gli altri».
«Sa che cos’è il 25 aprile?».
«È la festa della Liberazione. È una bella festa, io sono d’accordo».
«È d’accordo perché fu la fine della guerra?».
«Gli italiani hanno fatto bene a combattere contro i tedeschi e contro i fascisti. Io… avrei voluto esserci».
«E avrebbe sparato?».
Arrossisce e ha un’aria spaventata: «Non lo so se avrei sparato. Ma avrei voluto esserci».
«Quelli della guerra e della Resistenza le sembrano fatti lontani, passati, o attuali e vivi ancora oggi?».
«A pensarci sembrano cose lontanissime, ma poi se ci si guarda intorno si vede che la gente muore e soffre come sempre. E allora si capisce che il mondo è ancora allo stesso punto, nonostante tutto, e si vorrebbe fare di più. Ma per favore non mi chieda altro, io debbo andare via». E scappa, bianca e grassottella, per il corridoio di linoleum verde sorvegliato da una madonna che tiene in mano una lampadina accesa.
Un salto compiuto
Per ultimo, incontriamo un giovane netturbino che si chiama Sergio Ferrante ed è iscritto al partito comunista. «Il 25 aprile non è la fine della Resistenza ma la fine della lotta armata. Dopo, è continuata e continua ancora, nonostante quelli che allora hanno combattuto e che oggi sono d’accordo con la Nato. Da dove nascerebbero, se non da quella spinta, le rivendicazioni degli operai, degli studenti, di tutti coloro che non sono d’accordo? Noi le vediamo le grandi masse che si muovono e crescono e parlano. Chiedono sempre di più e ottengono sempre di più. Esplodono oggi ma sono lì, pronte, da più di vent’anni. E lo sanno tutti, a cominciare dai partiti conservatori: tant’è vero che dal ’45 ad oggi, hanno tentato più di una volta i colpi di mano, dai tempi di Scelba, al Sifar, alla repressione organizzata in questi ultimi tempi».
L’odio per la memoria enfatica
Parla con calma, pazienza, durezza, per quasi un’ora. E il 25 aprile è dimenticato, perché non si può parlare di un ricordo quando si ha a che fare con la realtà. È la migliore conferma di un salto compiuto. È l’odio per la memoria enfatica. È la diffidenza verso coloro che dalle poltrone ufficiali allargano le braccia e dicono: «Ecco qua, ragazzi, sappiate che tanti anni fa siamo stati bravi anche noi». I giovani dell’Italia del ’70, dinanzi a questi discorsi, socchiudono gli occhi e neppure si irritano più. Hanno lo sguardo adulto e le bocche infantili. Vestono male, dormono poco, non sanno tradurre il greco, perdono tempo. Ma corrono per le strade tutti insieme cantando «viva la libertà» e imparando che la libertà non è una parola meravigliosa, ma è il gesto di una dura disciplina.
Sono «ammalati» di politica ma non si tratta solo di una moda, dal momento che hanno il coraggio, in nome della politica, di usare un linguaggio troppo noioso. Corrono verso la politica perché debbono capire e sanno finalmente che non vi sono altre strade. Sanno — come disse Giaime Pintor che morì partigiano a poco più di vent’anni e che quindi è loro coetaneo — che «non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il compito di lasciare che i morti seppelliscano i morti». Perciò lasciano ad altri il compito di «celebrare» il 25 aprile.
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Nota
Ecco un articolo su 25 aprile e Resistenza che arriva da un altro tempo. Quando parlare di guerra civile era ancora politicamente, e storiograficamente, un gesto reazionario. In piena esplosione di eventi planetari o locali che oggi sembrano ancora più lontani della stessa Resistenza: la conquista dello spazio, il Vietnam, il movimento studentesco e operaio dopo il ’68, l’esistenza di un partito comunista italiano. È un piccolo documento storico, un’inchiesta pubblicata da Oretta Bongarzoni, una giornalista, nel 1970 su Paese Sera, quotidiano popolare italiano “fiancheggiatore” del Pci. Ha le sue suggestioni, in quest’anno, il 2025, altrettanto celebrativo del 25 aprile, sul quale anche su Nazione Indiana abbiamo ampiamente lavorato. Ha qualcosa, molto o poco, da dirci. Ognuno si faccia la sua idea. Parla persino una suora (idea geniale). Parla un coro neanche troppo sommesso di insoddisfazioni di classe e generazione, e critica dell’esistente, dell’eredità, della celebrazione sterile. Allora come oggi la più importante festa laica italiana divideva le menti dei più lucidi tra fierezza e frustrazione.
Quella giornalista, l’autrice, prima o poi dovevo dirlo, era mia madre. Pubblico questo suo articolo in una settimana sempre complessa per me che si apre col giorno della sua nascita (oggi, 3 novembre 1939) e si chiude col giorno della sua morte (9 novembre 1995). Sono quindi trent’anni esatti dalla morte di mia madre e qualcosa dovevo fare per ricordarla “pubblicamente”. Approfitto (spero, senza avere esagerato) della libertà di espressione e pubblicazione che mi consente Nazione Indiana, rivista alla quale ho la fortuna di appartenere. Addiopiacendo tra un paio di mesi compirò gli anni che aveva mia madre quando morì, e inizierò a superare la sua ultima età. Non ha visto quasi nulla della mia vita e io non ho potuto accompagnare il prosieguo della sua. Avrei voluto vedere mia madre divertirsi molto più a lungo. Fu giornalista negli anni ’60-’80, in un ambiente professionale e in un tempo storico di dominio maschile. Faceva i turni di notte al giornale e una mia maestra la convocò pensando che fosse una prostituta. Per dire dei tempi. Era invece redattrice, breadwinner, capofamiglia. Oggi voglio ricordarla col rispetto che merita. E chi passa di qui, se vuole, lo faccia insieme a me (d.o.).

Leggendolo, stamattina, pensavo: che articolo intelligente, che spigliatezza nel cogliere nessi tra cose lontane e non evidenti: l’interesse per la preistoria, l’interesse per la conquista dello spazio extraterrestre, a fronte del disinteresse per cio’ che dovrebbe essere ancora vivo, ancora in corso. E poi questa frase: “Del resto in ogni celebrazione c’è il desiderio di annientare l’oggetto celebrato, fingendo di esaltarlo”. Ecco, nel proseiguo del pezzo poi vedo il figlio che smentisce la madre. E trova una misura di celebrazione che non cancella. E gli siamo grati di aver legato un destino individuale a quello collettivo. Anzi un destino familiare a quello collettivo (e proprio qui su NI).
Se non ci fossero state le mobilitazioni (flottiglie comprese) per il popolo palestinese, contro il genocidio, l’intelligenza artificiale, con la quale si sono diretti i droni che bombardavano gli edifici civili di Gaza, sarebbe stata uno scandalo. Ecco, un piccolo esempio, per attualizzare un articolo che ci parla ancora, nonostante tutti gli anni passati. Grazie Davide. Ps Il coro di voci raccolte dall’autrice, conferma in me la definizione di democrazia, come regime uscito dal rifiuto della guerra e del fascismo: un progetto da costruire E difendere nel corso delle generazioni.
Ti ringrazio Andrea per questa tua lettura che presentifica, quindi nel migliore dei modi ravviva un articolo antico. Grazie davvero.
Un articolo del 1970 che sembra fresco fresco, pronto per descrivere le condizioni attuali: «La Resistenza non è mica finita; e non finirà finché le sue ragioni ideali saranno tenute in così poco conto. […] Guerre, bombardamenti, torture sono il tragico contorno di tutto questo, e spesso – cosa gravissima – c’è il tacito assenso dell’Italia ufficiale». Beh, si potrebbe scrivere tutto un ‘nuovo’ programma politico a partire da questa consapevolezza, da questa memoria non museificata, ovvero non ‘il passato’ bensì quanto dal passato ad oggi ancora reclama udienza ed elaborazione (e, magari, rivoluzione). Gli ultimi mesi di mobilitazioni mostrano che questa corrente è viva ed è fatta da molte generazioni che ancora “corrono verso la politica perché debbono capire”. Dicono che sono proteste inutili o velleitarie, ma in effetti, quando mai non l’hanno detto? E noi che rispondiamo? Resistenza è la parola più bella che abbiamo in italiano, e potremo sempre ripeterla di nuovo.
E poi che piacere questa scrittura così libera, così poco modulata sul giornalese che siamo abituati a leggere adesso, con quel montaggio di voci inaspettate (lo studente, la suora, il netturbino!) Siamo a più 55 anni da allora ma “non scade un bel nulla perché tutto deve ancora scadere”.
Grazie Davide per questa ripubblicazione, che ci ricorda l’attualità di una lotta contro le forze egemoniche estrattive e violente, e come passi per delle storie incarnate in persone. E grazie a Oretta Bongarzoni per aver rinnovato la riflessione, per aver registrato quelle voci e quei corto circuiti tra passato e (l’allora) presente in modo così vivido, e, naturalmente, per tutto il resto.