La risposta

di Enrico Galantini
Le parole del dottor Richards sono state un pugno nello stomaco. No, non è il solito ingrossamento della prostata, ha detto. È un tumore, avanzato, tra il terzo e il quarto stadio, probabilmente al quarto. Forse è operabile ma comunque è possibile trattarlo con la radioterapia. Decideremo insieme quale tipo d’intervento quando ne sapremo di più. Ma non bisogna perdere tempo. Non bisogna perdere altro tempo.
Daniel deve respirare a fondo per rimediare all’improvvisa mancanza d’aria, proprio come gli succedeva quando, giovane boxeur nella squadra di pugilato di Harvard, veniva colpito da un gancio sotto lo sterno. Guarda per terra, poi guarda il medico negli occhi. Ok, risponde, cominciamo anche adesso. Che cosa dobbiamo fare?
Tutto è iniziato così. Prima c’erano stati i soliti disturbi che ogni uomo che ha superato i sessanta conosce. Un po’ trascurati, è vero, ma c’era il progetto della mostra e del
libro fotografico sui Castelli Catari da portare avanti, con il lungo viaggio in Francia, in quella meravigliosa regione che si stende dai Pirenei al mar Mediterraneo, nella quale otto secoli fa si svolse una crociata che rappresentò una delle pagine più vergognose della Chiesa di Roma.
E prima di partire c’erano state le lunghe settimane di preparazione logistica – i contatti da trovare e poi da prendere e, ancora, gli accordi da fare, con i sindaci e tutti coloro che avevano a che fare con le rocche e con i ruderi che sua moglie Paula e lui avrebbero fotografato, per la mostra, il libro e anche per il loro blog.
Davanti a tutto questo, è vero, aveva taciuto la difficoltà di andare in bagno, i dolori, a volte forti ma anche saltuari. Li aveva taciuti, è vero. Ma non era stato tempo perso. Anche se su questo il dottor Richards non sarebbe mai stato d’accordo.
Tempo perso o meno, da quando l’urologo gli aveva prospettato la necessità di intervenire con urgenza, Daniel non si era tirato indietro. E praticamente dal giorno dopo era iniziato il tour de force. Prima le ultime analisi allo Sloane Kettering che avevano stabilito definitivamente che si trattava un tumore maligno al quarto stadio, un tumore che cioè oltre alla prostata aveva invaso i tessuti adiacenti. Poi l’incontro con l’oncologo dell’istituto newyorchese, il professor Barnes, che gli aveva spiegato come s’imponesse la radioterapia invece dell’intervento. Se ben fatta, e qui abbiamo una grande esperienza e una casistica da record, aveva detto, la radioterapia dà buone probabilità di successo senza i rischi che comporterebbe l’intervento. È vero, ci possono essere degli effetti collaterali, spiegò, ma tutto sommato sono gestibili.
Dopodiché era iniziata la preparazione, con la Tac di centratura e i micro tatuaggi puntiformi per definire con la massima precisione possibile la zona da trattare. E poi il trattamento. Lungo. Estenuante. Era durato otto settimane, cinque giorni alla settimana. Sedute brevi, sette minuti l’una.
Ancora si ricordava la prima seduta. Quando si era sdraiato sul lettino, nella stanza vuota di persone, aveva pensato che ormai per lui quella di morire non era un’idea astratta, una paura quasi atavica, ma una possibilità concreta. E aveva pensato che se fosse successo avrebbe saputo finalmente se c’era davvero qualcosa dopo. E che cosa.
Non ti voglio incontrare, disse al Dio in cui avrebbe voluto credere ma che non l’aveva mai degnato del minimo segnale. Non voglio sapere che ci sei e non mi hai mai risposto in tutti questi anni. Avrei voluto lottare strenuamente come Giacobbe con l’Angelo, piuttosto che essere bloccato in quel silenzio assurdo a cui mi hai condannato nelle mie lunghe notti in attesa. E quando il tecnico entrò e vide le lacrime che gli solcavano il viso disse che no, che non gli aveva fatto molto male, che erano solo brutti pensieri.
La radioterapia con fasci a intensità modulata era pensata per risparmiare il più possibile gli organi sani, ma il più possibile è un concetto relativo. Bruciori interni e malesseri vari vanno messi in conto, gli avevano detto i suoi medici, ed erano stati facili profeti. Alla fine di maggio il cancro sembrava sconfitto. Ma il paziente stava tutt’altro che bene. Gli effetti collaterali erano stati pesanti, soprattutto quelli sulla vescica. Gli oncologi pensano che il tumore se ne sia andato – scrisse Daniel sul suo blog – ma i trattamenti mi hanno distrutto dentro. E chi non se n’è andato è la paura che il cancro torni.
Per recuperare la funzionalità della vescica gli consigliarono un fisioterapista che viveva e lavorava nel New Jersey. Cinquanta minuti di macchina all’andata e altrettanti al ritorno per una seduta di quarantacinque minuti che però funzionava. Non era facile, non era piacevole ma Ken, così si chiamava il fisioterapista, era una bella persona. Duro, quando serviva ma anche disponibile. E lui piano piano riduceva lo sfascio recuperando autonomia. Sei mesi dopo però, tra novembre e dicembre, ci furono ancora dei problemi seri e dovette affrontare due interventi chirurgici d’emergenza, uno dei quali il giorno di Natale. Daniel disperava ormai di guarire davvero. Nella settimana tra Natale e Capodanno fece anche testamento.
Quello del 2019 sarebbe stato assai probabilmente il suo ultimo Capodanno e festeggiarlo non fu semplice.
Con Paula lo passarono a rivedere vecchie foto di loro due che fotografavano ruderi e rovine, una specie di backstage del loro blog. Potremmo farne dei post, disse lei sorridendo. Guarda, gli disse, qui è quando mi misi a cantare nella chiesa di San Vittorino a Cittaducale, quella del film di Tarkovskij. Mi ricordo, fece lui sorridendo, un Bach un po’ stonato ma molto suggestivo, con il rumore della sorgente in sottofondo. A mezzanotte si abbracciarono e restarono abbracciati a lungo, come a darsi coraggio, mentre fuori esplodeva la gioia un po’ inconsulta di chi spera sempre che il nuovo anno sia meglio di quello vecchio.
E in effetti verso fine gennaio le cose cominciarono a funzionare di nuovo e a metà febbraio Daniel cominciò a sentirsi bene, incredibilmente bene, come non si sentiva da tanto tempo. Così sembrò loro normale e anzi doveroso fare progetti per un nuovo viaggio in Europa.
Torniamo in Italia, andiamo in Sabina, disse Paula.
Sì, concordò Daniel, prima passiamo qualche giorno in Toscana, da Piero, in Maremma. Poi scendiamo verso la Sabina. Potremmo stare qualche tempo da Brunello, incalzò Paula, se ci ospita. La sua villa è nella posizione perfetta, vicino a tanti ruderi e rovine, castelli, chiese, interi villaggi, che aspettano solo di essere fotografati di nuovo da noi. E adesso abbiamo la maturità per farlo nel modo migliore.
Con quella felice prospettiva in mente Daniel si mise in macchina per andare da Ken. Nello stereo suonava una bella edizione del Trionfo del tempo e del disinganno di Haendel, e così i cinquanta minuti del tragitto passarono in fretta. Finito il trattamento decise di fermarsi a mangiare qualcosa in un bar non troppo lontano, come aveva fatto già più di una volta nei mesi passati.
La signora coreana che lo gestiva, Sun, una donnina bruna con i capelli sale e pepe, prese l’ordine e poi, quando gli portò l’insalata che aveva scelto, prima fece per andarsene ma poi si girò e gli si fermò accanto in silenzio. Lui la guardò senza dire nulla, ma la sua espressione perplessa parlava per lui.
Posso disturbarla un momento? disse la donna un po’ titubante.
Prego, rispose lui.
Devo dirle una cosa, fece Sun, ma non vorrei che lei pensasse che sono pazza.
Lui la guardò scuotendo la testa, come a dire Ma le pare, anche se dentro di lui l’idea s’era affacciata. E invece le disse Si sieda, per favore, l’ascolto.
A proposito, aggiunse, so che lei si chiama Sun, io mi chiamo Daniel.
Lei viene qui ogni tanto, signor Daniel, esordì Sun, non raccogliendo l’invito a sedersi ma restando in piedi accanto a lui. Lei non mi conosce ma io vivo qui negli Stati Uniti da molti anni.
Vengo dalla Corea e sono, cioè ero, buddista. Da tempo mi sono convertita al vostro Dio. È stata una mia amica che vive ancora in Corea a suggerirmi di pregarlo, il vostro Dio che adesso è anche il mio. È potente, mi ha detto Lin, e si prende cura di chi si rivolge a Lui. Se gli parli ti risponderà.
Sì, tranne se ti chiami Daniel, pensò lui amaramente.
Io le ho dato retta, continuò Sun, e dopo averlo fatto la mia vita è cambiata da un giorno all’altro. Vede, il mio compagno, Sean, è americano. Come molti di voi beveva. Beveva troppo e quando beveva non era più lui. Mi prendeva a male parole, mi picchiava, mi rubava i soldi. Ho chiesto aiuto a Dio, l’ho pregato di darmi una mano. E dopo averlo fatto mi sono già sentita più serena.
La mattina dopo ho detto a Sean che avevo pregato Dio perché lo aiutasse a smettere. Lui mi ha guardato e s’è messo a piangere: proprio la sera prima aveva preso la decisione di non bere più. Ci siamo guardati, ci siamo abbracciati e da allora tutto è cambiato. Ci siamo sposati, siamo venuti qui e da allora Sean e io viviamo in armonia.
Daniel si girò verso lei, uno sguardo interrogativo negli occhi.
La capisco, continuò Sun, lei si chiede che cosa c’entri questo con lei. Ci arrivo subito. Dovevo dirle queste cose perché capisse che non sono pazza. Insomma, io con Dio ci parlo. E in questi giorni, mentre gli chiedevo che cosa potevo fare io per Lui, visto quello che Lui ha fatto per me, Lui mi è mandato nella mente il suo viso, signor Daniel, e mi ha detto di parlare con lei e di dirle che il suo cancro è guarito. Io non sapevo come farlo ma Dio mi ha detto di fidarmi di Lui e di dirglielo, così, semplicemente.
Daniel queste ultime parole non le sentì nemmeno, travolto dalle precedenti. Era rimasto senza fiato. Sun stava lì accanto, timorosa, in attesa di una sua reazione. Ma lui non la vedeva. Era una vita che aspettava che Dio gli parlasse, gli rispondesse, gli si manifestasse. E ora, sia pur per interposta persona, era successo. Era già stato qualche volta in quel locale, ma con Sun non aveva mai parlato se non per ordinare qualcosa da mangiare. E lo studio del fisioterapista non era vicino. Lei non poteva sapere del suo cancro. Eppure gli si era avvicinata per dirgli che era guarito. E che era stato Dio a chiederle di comunicarglielo.
Tornò a casa avvolto da un turbine di pensieri. Quando disse a Paula quello che era successo, lei prima lo guardò come se il pazzo fosse lui, poi gli prese le mani e restarono così a lungo, senza parlare.
Si fece raccontare tutto un’altra volta, lo interruppe per qualche spiegazione, sempre guardandolo fisso negli occhi. È successo, disse poi. Non so come sia possibile e certo non lo sai neanche tu, aggiunse. Ma con questo devi farci i conti. È un fatto e negare i fatti è stupido, oltre che inutile.
Dieci giorni dopo Daniel dovette andare a Seattle, dall’altra parte del paese, per discutere della possibilità di una serie televisiva legata alla storia e alle vicende del loro blog. S’imbarcò sul volo delle otto di sera dal JFK. L’aereo era semivuoto e silenzioso. Gli era toccato un posto di corridoio verso la metà dell’aereo. Dopo il decollo tirò fuori il kindle e si mise a leggere un romanzo di Graham Greene.
Una mezz’ora dopo gli si avvicinò l’hostess e gli chiese se andasse tutto bene. Lui le sorrise – era alta e bionda, un bel tipo – e fece un cenno con il capo. Sì, andava tutto bene, grazie. Poteva portargli per favore un bicchiere d’acqua? le disse. Dopo qualche minuto lei tornò con l’acqua e gli chiese di nuovo se andasse tutto bene. Solito sorriso e solito cenno con il capo.
Provò ad appisolarsi, come i suoi compagni di volo. Ma il sonno non voleva saperne di venire.
Rimase a guardare il soffitto mentre la mente vagava sull’incontro dell’indomani.
Più tardi, una mezz’ora prima che iniziasse la procedura d’atterraggio, mentre intorno tutti dormicchiavano nelle luci smorzate della carlinga, gli si avvicinò di nuovo l’hostess e questa volta non gli chiese come stesse. Mi chiamo Jane, gli disse inginocchiandosi accanto a lui, e mi è stato detto di dirle che il suo cancro è guarito e che quando si volterà a guardare indietro, tutto questo le sembrerà solo un piccolo incidente di percorso.
Daniel la guardò e con un filo di voce le chiese (ma sapeva già la risposta), Chi le ha detto di dirmi questo?
È stato Dio, disse Jane, con un sorriso sereno sulle labbra.
È stato nostro padre, disse sua sorella Amanda, quando Daniel le raccontò della ristoratrice coreana e dell’hostess. È stato lui nell’alto dei cieli che ha convinto il Buon Signore a parlarti in questo modo. Papà ti conosceva bene, sapeva quanto sei testardo. Sapeva che se Dio ti avesse parlato direttamente tu non gli avresti dato retta – tu non dai mai retta quando uno ti parla – e allora gli ha suggerito di rivolgersi a te per interposta persona. E, per sicurezza, di farlo due volte. Mentre gli diceva questo un sorriso affettuoso contrastava con la durezza delle sue parole.
Papà o non papà, pensò Daniel, se prima le parole di Sun erano un fatto, adesso con l’hostess i fatti erano due. E non poteva far finta di niente. Perché nessuna delle due lo conosceva e nessuna delle due poteva assolutamente sapere di quel cancro che entrambe gli avevano detto essere guarito.
Un pensiero insistente gli girava per la testa. Perché io? si chiedeva. Perché Dio aveva voluto salvare lui e non Marcus, il suo vicino di stanza allo Sloane Kettering quando l’avevano operato a Natale? Per Marcus non c’era stata salvezza. Era morto pochi giorni dopo aver affrontato un’operazione non troppo dissimile dalla sua. Aveva vent’anni meno di lui, una moglie e tre figli ancora piccoli.
Perché lui e non Kara, quella splendida ragazza poco più che trentenne che s’era spenta il giorno di Santo Stefano poche stanze più in là per un cancro all’utero?
Qual è la logica che guida il tuo intervento, Signore? chiese sapendo che nessuno gli avrebbe risposto direttamente, ma anche che ormai un qualche dialogo con Dio s’era instaurato. Perché io? Perché hai scelto proprio me? Ma Dio non gli rispose.
L’estate intanto si avvicinava e con essa il tempo del loro prossimo viaggio. Il loro blog riciclava sui social materiale vecchio. Vabbè che parlava di rovine e di ombre del tempo, ma la logica di Internet chiede sempre roba fresca. Con tutto quello che gli era successo non aveva avuto più voglia nemmeno di andare a cercare nel loro sterminato archivio fotografico per farsi venire qualche idea per nuovi post. Paula gli aveva proposto di scrivere dei viaggi virtuali per i loro lettori, unendo in itinerari inventati qualcuno dei siti che avevano già trattato: i villaggi abbandonati del Centro Italia, le chiese romaniche del Massiccio centrale in Francia, le rocche sul mare nelle Asturie. Le idee erano buone e il materiale già l’avevano. Quella che mancava era la sua volontà, la capacità di concentrarsi per tirarne fuori nuove storie, quella che in altri tempi avrebbe chiamato “ispirazione”.
Sì, era decisamente tempo di muoversi. Dovevano ripartire. Fare le valigie, preparare il materiale tecnico, cercare magari qualche nuova macchina fotografica o qualche nuovo obiettivo da sperimentare. O magari questa volta avrebbero potuto anche decidere programmaticamente di fotografare all’antica, senza le comodità del digitale, ma con le difficoltà e gli splendori della pellicola. L’importante era muoversi, fare scorrere nuova linfa nei vecchi rami.
Questo pensava mentre percorreva le strade del New Jersey diretto allo studio di Ken. Quando ne uscì si rese conto di stare molto meglio, di aver recuperato in buona parte la funzionalità della vescica. Forse sono davvero guarito, pensò mentre entrava nel bar di Sun, che lo salutò con il solito sorriso timido e un piccolo inchino di capo e spalle insieme. Le sorrise di rimando e si sedette al solito tavolino d’angolo.
Quando lei venne da lui, Daniel ordinò la solita insalata. Dopo avergliela portata, lei si sedette lì accanto e gli disse che era andata su Internet a cercare il suo blog, l’aveva visto e lo aveva trovato molto bello. Però…
Però cosa? le chiese lui curioso.
Ho letto i suoi post, disse Sun, e mi hanno fatto sognare. A volte però ho avuto incubi. Sono luoghi bellissimi ma anche tristissimi quelli che lei, signor Daniel, e sua moglie Paula fotografate. Non c’è più vita tra quei muri che però in molti casi trasudano dolore. Il dolore non si lava via con la pioggia, come succede con la felicità. Il dolore resta attaccato alle cose. E se lo vedi, se lo senti, ti fa male. Ma scommetto che chi legge il suo blog di solito non si accorge di questo. Nessuno le ha mai detto qualcosa del genere, non è vero?
Daniel rimase colpito dalle osservazioni di Sun e quella sera riprese le immagini di un borgo abbandonato che avevano fotografato in un loro viaggio in Italia alcuni anni prima. Si trattava di un villaggio a cinquanta chilometri da Roma, costruito su un’altura tra due fossi, ma abbandonato all’inizio del 1600 perché colpito da un terremoto. La torre che lo sovrastava svettava nel panorama circostante. Ma il villaggio vero e proprio, con le sue mura diroccate che però erano ancora in piedi, era stato invaso da alberi e arbusti tanto che da lontano nessuno avrebbe potuto dire che là, sotto la torre, c’erano ancora le rovine del borgo. Paula e lui erano tornati a più riprese in quel luogo magico, che si trovava a solo un quarto d’ora dalla villa di Brunello, il loro ospite in Sabina.
Avevano scattato centinaia di foto e lui ne aveva utilizzate sì e no una decina in due post consecutivi che aveva dedicato al luogo. Ricordava di non aver usato quelle dell’interno di una casa il cui solaio era crollato lasciando nel muro l’incavo incongruo di un camino, ben identificabile accanto a una nicchia con i ripiani di stucco ancora al loro posto.
Lo scatto di Paula era stato davvero magistrale: aveva colto quasi miracolosamente un raggio di luce che si era infiltrato tra i rami e che era durato lo spazio di un respiro. La luce di quell’immagine toglieva il fiato e lui non aveva trovato parole adeguate a commentarla, così aveva finito per non usarla. Ma quando Sun gli aveva parlato del dolore che restava attaccato alle cose, gli era venuta subito in mente. La cercò, la trovò e ci scrisse attorno un post. Il dolore che vive nelle cose, così intitolò quello che aveva scritto, ebbe un successo inaspettato.
Molti dei suoi lettori commentarono l’immagine, chi concordando con le sue parole, chi invece dissentendo. Tutti quelli che scrissero comunque gli diedero il bentornato, augurandosi che riprendesse a scrivere a pieno ritmo. Lui, che all’inizio della sua malattia aveva avvertito i suoi lettori di non stare bene, anzi, di avere seri problemi di salute, e poi aveva dato solo sporadiche notizie di sé, ne fu molto contento e ne trasse impulso per progettare il nuovo viaggio.
Rivide Sun due settimane dopo, questa volta era in anticipo e passò al bar prima di andare da Ken. Entrò, si sedette e la salutò. Lei andò da lui e, come sempre senza preliminari, gli chiese perché non avesse scritto sul suo blog della malattia e della guarigione, del messaggio che Dio gli aveva mandato.
Lui rispose che ci aveva pensato, ne aveva discusso con sua moglie, ma che era sembrato a entrambi un argomento troppo privato e insieme troppo delicato per scriverne sul blog. E aggiunse che non sapeva neanche come scriverne. Non credo troverei le parole giuste, le disse, non è facile, mi creda.
Ma Dio vuole che lei lo faccia, gli replicò Sun guardandolo dritto negli occhi, tranquilla come sempre. Me lo ha detto ieri. Vuole che lei racconti tutto. Così com’è successo, né più né meno. Vuole la sua testimonianza.
Tornando a casa Daniel si disse che non sarebbe più andato in quel bar, da quella donna che cercava di costringerlo a fare una cosa che non voleva, che non sapeva fare. Come poteva Sun davvero pensare – o forse doveva dire: come poteva Dio davvero chiedere – che lui raccontasse a tutti sul suo blog questa storia così privata, così difficile da credere quasi come era difficile scriverne? Non era pronto.
Non riusciva ancora a sentirla sua, anche se riguardava lui e solo lui. Si chiese se fosse vergogna, quella che provava. Si chiese perché non riuscisse ad accettare quello che era successo. In fondo per tutta la vita aveva chiesto a Dio che gli parlasse, che gli rispondesse, che entrasse in qualche modo nella sua vita. E adesso non solo l’aveva guarito da una malattia di cui molti morivano, ma aveva voluto farglielo sapere. Gliel’aveva detto, sia pure per interposte persone. Gli aveva parlato. Forse era proprio questo che trovava difficile da scrivere.
Quella notte risognò un sogno che aveva fatto a diciott’anni. Quel sogno lo aveva salvato, in un periodo difficile in cui non riusciva ancora a capire chi fosse e che cosa volesse fare davvero della sua vita. Nel sogno c’erano due uomini che aveva fatto prigionieri e presto s’erano tramutati in cavalli bianchi. Scalpitanti. Desiderosi di libertà. Bellissimi. Uno era riuscito a saltare la barriera del recinto in cui li aveva rinchiusi entrambi ed era fuggito via. L’altro stava ancora lì, fremente. Lui sapeva che doveva liberarlo – la bellezza non può essere tenuta in un recinto a disposizione di pochi – ma sapeva anche che, liberandolo, si sarebbe condannato a morire. Allora chiese, in cambio della libertà del cavallo bianco – che una volta fuori dal recinto si sarebbe trasformato in Pegaso e sarebbe volato via alto nel cielo –, chiese che gli venisse concessa un’altra settimana di vita per salutare i suoi genitori. E mentre abbracciava il padre e gli diceva piangendo che gli voleva bene, sapeva che stava morendo ma sapeva anche che avendo visto Pegaso, avendo visto la bellezza, era pronto a morire.
La mattina dopo, verso le cinque, Daniel accese il computer. Aprì un nuovo file. Scrisse il titolo, La mia testimonianza, e incominciò a scrivere. Non ho mai scritto un post così – iniziò –. Un post in cui parlo così direttamente di me. Ma quello che mi è successo non lo posso tenere solo per me e per chi divide la sua vita con me. E visto che voi, miei cari lettori, mi avete seguito, ci avete seguiti per tutti questi anni, credo di dovervela raccontare bene, questa storia. Lo devo fare perché non voglio che ci siano fraintendimenti tra di noi. E anche perché questo è il primo post che scrivo nella mia vita non solo per il piacere di farlo ma per avere risposta.
Scrisse ancora per un paio d’ore raccontando tutto quello che avete letto fin qui. Quando finì – era senza dubbio il post più lungo che avesse mai scritto – selezionò il
bottone PUBBLICA e premette il tasto invio. Era fatta. Adesso era il momento delle risposte. Si alzò per sgranchirsi le gambe, andò in terrazza con una tazza di caffè e la visione del grattacielo di Ground Zero gli sembrò un’ulteriore benedizione, un momento di pura bellezza.
Le risposte non tardarono ad arrivare. Da tutti gli Stati Uniti, all’inizio, poi, complici i fusi orari, anche da chi lo leggeva nel resto del mondo.
A volte una sola parola: incredibile, straordinario, sconcertante; a volte la condivisione di ricordi personali, di grazie inaspettate; a volte solo fiumi di affetto e di comprensione.
Lui replicò diligentemente a tutti – era una sua abitudine da sempre, in questo caso gli sembrava ancora più importante farlo.
Nel pomeriggio andò a passeggiare un po’ verso l’Hudson, facendo indigestione dell’aria buona e salata del fiume. Quando rientrò c’erano più di dieci commenti di lettori e lui rispose fino a mezzanotte a questi e a tutti gli altri che si erano aggiunti nel corso della serata.
La mattina ricominciò allo stesso modo e andò avanti così fino alle quattro del pomeriggio, quando rispose a un commento che veniva dalla sua amata Sabina, dall’amico che li aveva ospitati più volte. Poi arrivarono altri messaggi che non ebbero risposta.
Sul blog, il giorno dopo, comparve un post firmato da Paula. Il nostro Daniel, diceva, è morto ieri verso le cinque. Il suo grande cuore ha ceduto all’improvviso mentre stava seduto davanti al computer. Fino all’ultimo ha lavorato a questo progetto che per lui era più importante della sua stessa vita. Riposa in pace, Daniel.

Nota
Questo racconto è un estratto in anteprima dalla raccolta Chi disegna e chi squadra, che uscirà a dicembre per le edizioni Gottifredo. Come precisa l’autore in una nota del libro, ”per quanto incredibile sia”, La risposta “è una storia vera, solo un po’ cambiata, nei nomi e in qualche punto per esigenze narrative”. Per chi volesse approfondire, in questo post c’è il modo di farlo. Il protagonista del racconto è ispirato a Dennis Aubrey, un blogger che, assieme alla moglie P.J., aveva realizzato un blog intitolato Via Lucis, sull’arte gotica e romanica. Il post in cui Aubrey racconta la propria vicenda è qui. Di storie come questa, in Chi disegna e chi squadra, ce ne sono molte altre. E ci ho ritrovato tutta la cultura, la raffinatezza e la sobrietà dell’autore, che ho conosciuto come collega e amico per molti anni, ma nel quale ora scopro un’ambizione narrativa, un desiderio esaudito di racconto, che invece è una sorpresa. Molte di queste storie (alcune “quasi vere”, altre vere del tutto, altre più fittizie che vere…) sono state scritte durante i mesi del Covid, e tutte – credo – sono state scritte in Sabina, una regione ricca di monti, boschi, borghi e comunità monastiche, dove l’autore si è trasferito da anni; un paesaggio, un territorio, che è anche protagonista di molte pagine della raccolta. Nello stile di Enrico Galantini non mancano delicatezza e ironia. Soprattutto quando racconta le sfide del tempo umano e biologico, la malattia e la vecchiaia. Il suo raccontare ha il talento della saggezza. È una qualità molto importante, quando si parla di scrittura (d.o).
