L’indifferenza come architettura dell’Occidente

 

di Isabella Cafagno

Qualcosa si è incrinato, in modo forse irreversibile, nella traiettoria – fondata sull’idea di un
progresso politico lineare, razionale, tendente per inerzia alla tutela dell’umano – che l’Occidente aveva tracciato per sé.
L’attuale moltiplicazione dei conflitti, così come la restaurazione della forza quale argomento politico, la violazione sistematica del diritto internazionale, il logoramento delle istituzioni democratiche, oltre a costituire un insieme di crisi, evidenziano l’emergere di una mutazione antropologica. Ci troviamo di fronte ad un lento disarmo morale, ad un addomesticamento dell’orrore, ad un’indifferenza che non è più difetto, ma condizione; e questa torsione collettiva dello sguardo ci consente di vedere tutto e, tuttavia, non sentire più nulla.
Gaza è un corpo ormai dilaniato dai bombardamenti israeliani, qualificati come genocidari da organizzazioni internazionali; l’Ucraina è sospesa, con il suo illegittimo occupante, la Russia di Putin, in una guerra d’usura che ne devasta la struttura civile e demografica; gli Stati Uniti, spalleggiando Israele, si fanno promotori di un piano di “pace”, che non fa altro che certificare la continuità del predominio coercitivo, garantendo la quiete del potente e non la libertà del popolo oppresso; e, intanto, la crisi climatica, forse la più profonda ed inesorabile di tutte, ridisegna i confini della vita stessa sul pianeta. Ebbene, la nostra coscienza collettiva, immersa nel flusso delle proprie abitudini, riesce a percepire questi fatti come si percepisce un banale brusio di sottofondo.
Il nucleo centrale della riflessione risiede, infatti, nella constatazione radicale ed inquietante che, se mai l’Occidente abbia saputo vedere, ha progressivamente disimparato a reagire. Il sentore del dolore, della sopraffazione, dell’ingiustizia altrui si è ridotto ad una facoltà intermittente, incapace di tradursi in una risonanza concreta che travalichi la soglia del privato ed invada la sfera del collettivo e del necessario. Il mero atto di osservare, senza che segua un impulso trasformatore, è una forma di anestesia che detta il ritmo delle nostre società e la misura della loro resilienza etica.
Quest’indifferenza diffusa costituisce la premessa e, in un certo senso, il motore silenzioso delle crisi sopra citate. Il male fiorisce quando viene percepito senza che vi sia risposta, cresce nella tolleranza e prospera laddove il senso di responsabilità individuale si dissolve nell’inerzia collettiva, nell’abitudine a considerare l’orrore come problema di altro luogo, di altri corpi, di altre storie, nei contesti che hanno reso l’intollerabile accettabile e compatibile con il nostro benessere.

Tale condizione non è nuova nella storia delle civiltà occidentali e, tuttavia, la sua forma
contemporanea è particolarmente sofisticata e pervasiva. I totalitarismi del Novecento, per
esempio, non nacquero dal furore immediato della storia, ma dal torpore delle coscienze: dal lento scivolamento dell’opinione pubblica nella normalità della sopraffazione, nella rassegnazione a credere che la sospensione dei diritti fosse inevitabile e giustificata, fino all’irreversibilità della catastrofe. Ciò che oggi appare nuovo – la tecnologia, la globalizzazione, la sovrabbondanza informativa – ha affinato questo schema, generando una forma di saturazione percettiva: le persone faticano a cogliere la profondità dei fenomeni perché sommerse da immagini, dati, testimonianze, frammenti capaci di produrre indignazione per qualche minuto e cancellati dalla notizia successiva. Così, l’iperconnessione e l’iperesposizione agli eventi del mondo, anziché promuovere la partecipazione, divengono causa di una stanchezza morale e di una sensazione di
anestesia che hanno l’odore della decadenza.
Le conseguenze politiche e sociali di tutto ciò appaiono devastanti. La democrazia, che si nutre di impulsi, responsabilità condivisa ed attenzione diffusa, si svuota dall’interno; le istituzioni internazionali si inceppano, non tanto per carenza di strumenti, quanto per la scomparsa dell’opinione pubblica come agente reale di controllo; e, così, la violazione del diritto internazionale si trasforma in materia di analisi tecnica, limitata a contesti specialistici.
Eppure, mentre noi fluttuiamo in questa sonnolenza occidentale, nei territori del Sud globale, dove la precarietà non è accidente ma destino quotidiano, la percezione della realtà conserva una nitidezza forzata dalla necessità. Lì, la sofferenza produce solidarietà, responsabilità, lucidità; nel Nord ricco, invece, la sicurezza apparente e l’illusione di stabilità permanente hanno generato un habitat morale impermeabile, in cui la distanza dal reale diviene privilegio, ma opera, al contempo, come lenta corrosione delle capacità di giudizio e di reazione.
La metafora della “rana bollita” è qui non solo esemplare, ma quasi ossessiva: immersi in un’acqua che si riscalda impercettibilmente, incapaci di accorgerci del cambiamento fino a quando esso non diviene irreversibile, osserviamo l’erosione dei valori fondamentali con curiosità distaccata, senza cogliere la progressione dei mutamenti che, sommati, risultano fatali.
Non è affatto certo che da questa condizione si possa uscire; è più plausibile, piuttosto, che essa rappresenti la configurazione ormai strutturale delle democrazie tardo-occidentali, quali organismi politici immunizzati dall’esperienza del reale, in cui la distanza dal dolore costituisce il prezzo della stabilità. In tale prospettiva, dunque, l’indifferenza si presta a strumento di autoconservazione, ad una forma sofisticata di adattamento del sistema al proprio logoramento.
Comprenderlo significa dislocare il baricentro dell’analisi: non interrogarsi sul ritorno della
“sensibilità”, ma su come pensare politicamente entro questa rarefazione, in un’epoca che ha sostituito la percezione con il rumore e la responsabilità con la mera gestione.

1 commento

  1. Il popolo palestinese come spettro, ossia un popolo senza stato, quindi un popolo senza diritti umani. (Arendt: solo i cittadini di uno stato possiedono dei diritti umani. Marx: solo la classe dominante possiede appieno questi diritti. Carla Lonzi: i diritti dell’uomo sono i diritti degli uomini, e non delle donne.) E’ una delle metafore ricorrenti in Mahmoud Darwich ed è, in quanto metafora, ambigua, ambivalente: lo Stato di Israele vuole la scomparsa simbolica del popolo palestinese, ossia il suo oblio agli occhi del mondo, della cosidetta opinione pubblica internazionale, ma questa scomparsa simbolica necessita un lavoro continuo per silenziare con la violenza dell’occupazione e dell’estensione di quest’ultima la voce reale del popolo senza stato. Questa violenza ha alla fine assunto, nelle circostanze storiche che conosciamo, l’ampiezza e la radicalità di uno sterminio di popolo. E di questo popolo residuale, oggi, ci si vuole dimenticare, qui da noi, in Europa, in Occidente. Non si è voluto difenderlo, non si è voluto soccorerlo, si è perfino voluto dare supporto ai suoi carnefici. E’ una storia orribile, che tutti hanno voglia di dilenticare. E spettro sia! Ma lo spettro, ricordava Darwich, tormenta il carnefice: lo spettro non è mai completamente invisibile, né silenzioso. Quello che possiamo fare da qui è dare carne, sangue, voce allo spettro. Ma perché noi stessi ormai ne siamo abitati. Quell’orrore abita anche le nostre giornate più serene. E’ un orrore che pure noi che siamo stati in piazza, che abbiamo scritto, che abbiamo boicottato, vorremmo dimenticare. Anche noi cerchiamo di dimenticarlo. Ma non possiamo: esso riguarda il popolo palestinese, lo spettro emblematico della violenza storica, della violenza fascista oggi, ma in esso va riconosciuto lo spettro delle donne, uccise nella porta accanto, dei bambini, i più disarmati e più facilmente colpiti, degli sfruttati (che lavorano in luoghi che non vediamo e in condizioni che non conosciamo), di coloro che non hanno cittadinanza o non ha la buona cittadinanza. La violenza degli stati esiste perché ci sono uomini che prestano la loro capacità di violenza alle istituzioni, e le istituzioni reciprocamente premiano questi prestatori di violenza. E’ un incubo. Il fascismo è un incubo. E noi vogliamo vivere, non lasciarci terrorizzare. Ma dobiamo dedicargli un parte delle nostre forze, perché la sua carneficina non diventi normale, non diventi l’unico orizzonte che le generazioni future conoscono. Lo spettro del genocidio palestinese lo abbiamo incorporato, comunque vadano le cose fra cinque o dieci anni in Palestina, e ognuno se lo porterà dietro fino al suo ultimo giorno, assieme alle violenze della porta accanto, che non ha finto di ignorare.

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giuseppe acconcia
giuseppe acconcia
Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente di Storia delle Relazioni internazionali all'Università di Milano Statale e di Geopolitica del Medio Oriente all'Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze Politiche all'Università di Londra, è stato Visiting Scholar all'Università della California (UCLA – Centro Studi per il Vicino Oriente), docente all'Università Bocconi e all'Università Cattolica di Milano (Aseri). Si occupa di movimenti sociali e giovanili, Studi iraniani e curdi, Stato e trasformazione in Medio Oriente. Si è laureato alla School of Oriental and African Studies di Londra, è stato corrispondente dal Medio Oriente per testate italiane, inglesi ed egiziane (Il Manifesto, La Stampa, Huffington Post, The Independent, Al-Ahram), vincitore del premio Giornalisti del Mediterraneo (2013), autore del documentario radiofonico per Radio 3 Rai “Il Cairo dalle strade della rivoluzione”. Intervistato dai principali media mainstream internazionali (New York Times, al-Jazeera, Rai), è autore de Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), The Great Iran (Padova University Press, 2018), Liberi tutti (Oedipus, 2015), Egitto. Democrazia militare (Exorma, 2014) e La primavera egiziana (Infinito, 2012). Ha pubblicato tra gli altri per International Sociology, Global Environmental Politics, MERIP, Zapruder, Il Mulino, Chicago University Press, Le Monde diplomatique, Social Movement Studies, Carnegie Endowment for International Peace, Policy Press, Edward Elgar, Limes e Palgrave.
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