Fenomenologia del mood (Goffredo Parise giudice di sé stesso)

di Dario Borso

L’8 febbraio 1986 Goffredo Parise in occasione della laurea ad honorem conferitagli dall’Università di Padova tenne un discorso pubblicato il giorno dopo sul “Corriere della sera”[1]. È una sorta di bilancio della sua attività di scrittore, preceduto da un aperçu tanto modesto riguardo a sé quanto ardito nell’interpretazione storica, secondo cui il merito del conferimento andrebbe

 

alla libertà e allo spazio d’immaginazione che per la mia generazione è nato nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale e durato nel mondo circa vent’anni. Poi una rivoluzione, qualche cosa di tellurico per l’immaginazione è salito alla superficie, qualche cosa di paragonabile soltanto alla rivoluzione agricola è accaduto nel mondo e la libertà di immaginazione, ciò che fa sognare e poetare l’uomo da vari millenni, si è trovato stretto nelle spire del programmatico.

 

Entro tale cornice, Parise prospetta tre fasi della sua attività di scrittore. La prima finalizzata a

 

rappresentare la libertà, il caos, su quella lieve spirale di fumo del romanticismo finito proprio pochi mesi prima tra le macerie. Mi attraevano le cose e la loro sostanza organica e non obbligatoriamente letteraria, l’odore della vita e delle sue stagioni, passando attraverso testi diretti. Fu così che a diciannove anni scrissi il mio primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete. Cos’era quell’alternarsi di sequenze cinematografiche, in ogni caso visive, quell’amalgama di sogni, di sensazioni, di odori, di muffe e di tombe? […] Mi pareva che la sensazione soggettiva, la sempre inesatta pressione del sangue, cioè il sentimento individuale non potesse prestarsi ad alcuna oggettivazione e infine che l’assurdo, il non storico, il casuale e l’oscuro che è in noi nel suo perenne filmato dovesse prevalere sullo storico, e non programmaticamente ma in modo quasi gestuale, smembrato […]. Con pregi e difetti ritengo che Il ragazzo morto e La grande vacanza che seguì a due anni di distanza siano il mio vademecum, il mio Baedeker. Eppure sono ancora, tra quello che ho scritto, i miei romanzi di gran lunga meno conosciuti.

 

Il romanzo d’esordio, scritto nel 1949, uscì per Neri Pozza nel 1951, e fu bissato nel 1953. Dopodiché “non mi restò altro che sperimentare, girando attorno ai miei Baedeker, e non sempre con intima fortuna. Alle volte mi allontanai da loro e non fu buona cosa. Nel complesso fu un attivo? Ho i miei dubbi”. Questa seconda fase si articola in tre romanzi d’ambientazione ancora vicentina ma scritti a Milano: Il prete bello tra il 1953 il 1954, con l’intenzione “che mi tenesse compagnia durante l’inverno milanese, che mi divertisse, che mi commuovesse quel tanto da cacciare il freddo e la solitudine”[2]; Il fidanzamento tra il 1955 e il 1956, dove prevale un registro grottesco; Atti impuri tra il 1958 e il 1959, per il cui stile “senza suono né colore mi indispettisco come per un periodo di impotenza sessuale. Strano libro questo ultimo. È affondato nel nulla come una pietra in uno stagno e ho un bel cercare la mia mano, non la trovo”[3]. La seconda fase presenta cioè un inaridimento progressivo rispetto alla spinta della prima; dall’azione si passa alla nostalgia, e da questa alla ripetizione stereotipa.

Col trasferimento nel 1960 a Roma s’inaugura la terza fase, in sintonia piena con l’involuzione storica:

 

L’azione era finita, cominciava l’amministrazione. Per tutto. E qui apparvero in tutta la loro forza impiegatizia e burocratica i partiti politici a praticare un’arte ben diversa da quella letteraria, di certo molto più potente […]. Con l’arte della politica il benessere, con il benessere il boom economico, il consumo, i consumi, la teologia televisiva. Non posso dire di non aver subito il colpo come è testimoniato nel mio romanzo Il padrone. Conscio, subconscio, realismo e Realpolitik, strategia e programmi entrarono a far parte della letteratura, l’aria, il vento della libertà, la polvere delle sue macerie e il battito del martello pneumatico cessarono e furono sostituiti dall’amministrazione.

 

Nel 1965, anno di uscita de Il padrone, vent’anni esatti dopo il 1945, la crisi sfocia in una sorta di catalessi che trova espressione ultima nelle prose narrative de Il crematorio di Vienna, pubblicate per Feltrinelli nel novembre del 1969 tra molte esitazioni, e con una specie di ritrattazione finale per “l’eccessiva razionalizzazione: cioè difetto di poesia […]. Di questo mi scuso con lettori e critici (che ringrazio tutti) ma non con me stesso”[4].

Dopodiché nel suo discorso padovano, Parise salta d’emblée al presente: “Anche la mia ora è passata. Mi piacerebbe molto poter ancora testimoniare […]. Forse invece non sarà più possibile perché se lo stile ha degli eredi, l’arte è come una farfalla, senza eredi e capricciosa, si posa dove e quando vuole lei. È inoltre un insetto, come tutti sanno a vita breve”. Impossibile, col senno di poi, anche perché Parise sarebbe morto solo sei mesi dopo.

Fortunatamente, a far luce sul periodo successivo al Crematorio è l’Avvertenza del gennaio 1982 al Sillabario n. 2, che seguiva di dieci anni il Sillabario n. 1:

 

Nella vita gli uomini fanno dei programmi perché sanno che, una volta scomparso l’autore, essi possono essere continuati da altri. In poesia è impossibile, non ci sono eredi. Così è toccato a me con questo libro: dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z […]. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così.

 

Nel 1970 dunque, dopo le scuse a marzo e l’acquisto a settembre di una casa a Salgareda, tornò l’ispirazione, o libertà o immaginazione che dir si voglia: così il Sillabario n. 1 poté riunire ventidue racconti dalla A alla F usciti sul “Corriere della sera tra il gennaio 1971 e l’agosto 1972, a sancire una quarta fase che si sarebbe protratta sempre più lentamente e faticosamente fino alla S appunto di Solitudine, risalente al 1980; avrebbe potuto scrivere Silenzio, come Lord Chandos, un silenzio gemello dell’impotenza sessuale patita vent’anni esatti prima con Atti impuri.

E infatti questa quinta fase sfocia nell’ultima, con un “abbozzo di romanzo” di cui il 16 giugno 1981 Parise scrive all’amico Nico Naldini: “Non deve essere pubblicato mai, ma distrutto: non ha forma, è delirante, ripetitivo, senza stile, insomma è un minestrone”[5].

In totale dunque sei fasi strutturate in due triadi simmetriche   atte a configurare un’evoluzione fenomenologica completa di quell’intreccio di libertà e immaginazione che Parise sintetizza nella metafora musicale del mood[6]:

 

Vicenza 1945-1953, avvento del mood (Il ragazzo morto e le comete, La grande vacanza).

Milano-Vicenza 1954-1959, crisi del mood (Il prete bello, Il fidanzamento, Atti impuri).

Roma 1960-1969, assenza del mood (Il padrone, Il crematorio di Vienna).

 

Salgareda 1971-1972, ritorno del mood (Sillabario n. 1).

Salgareda-Roma 1973-1979, declino del mood (Sillabario n. 2).

Ponte di Piave-Roma 1980-1985, morte del mood (L’odore del sangue).

 

A prescindere dai risultati prodotti, la seconda triade fenomenologica si differenzia dalla prima unicamente per l’assenza di cornice storica: ora cioè Parise è da solo, senza più Zeitgeist. Ben perciò dopo il Crematorio cerca un’altra definizione della libertà, e ce la consegna nell’articolo finale del suo reportage in Laos, sul “Corriere della sera” del 6 luglio 1970: “Sono, per indole e forse per poco tempo ancora, un uomo libero. E per libero intendo una cosa sola, così ben espressa da Rosa Luxemburg: ‘Libero è colui che può decidere altrimenti’”[7].

Parise ripeterà una sola volta questa citazione in un testo inedito senza titolo e data, conservato all’Archivio Parise di Ponte di Piave[8]. Si tratta di un racconto corale su tre coppie di “morosetti” adolescenti, ambientato a Vicenza nella primavera del 1945.

La prima coppia è formata da Toni ed Elisa, usi a baciarsi al parco del Museo del Risorgimento:

 

Quando lui tentava qualche mossa in più, come entrare con una mano nello scollo del vestito, Elisa lasciava un po’ fare, fin quasi al capezzolo, appena sfiorarlo e poi si ritraeva sorridendo ma sorridendo però in modo particolare, quasi per vincere o sfidare l’imbarazzo, il pudore. Si conoscevano da tanto tempo, è vero, erano quasi come fratello e sorella, ma proprio per quello Elisa mostrava maggior pudore. Si vedevano sempre in bicicletta, le loro madri si salutavano, come metter d’accordo tutto questo con il sesso? Il sesso, era poi il sesso? E lo sapevano loro? Non di certo, a quell’età […]. Avevano quindici, sedici anni, era appena finita la guerra, e c’era la libertà di fare tutto quello che si voleva. Andare a scuola oppure no, andare al Museo del Risorgimento oppure no, andare in bicicletta, mangiare castagnaccio, fumare le prime sigarette, avere dei fidanzatini, per un giorno, cinque giorni, dieci giorni, e poi basta o ancora, c’era la libertà. Poiché c’era la libertà essi non sapevano che c’era la libertà.

 

Questo è il paradosso che interessa all’autore sviscerare:

 

È impossibile accorgersi della libertà quando c’è la libertà. Prima di tutto perché la libertà totale è il caos e infatti dopo la guerra c’era il caos e un gran muoversi come di formicaio nel tentativo di mettere a posto i danni, di incollare carta alle finestre perché non si trovavano i vetri, di rattoppare vestiti perché non c’era stoffa, di rattoppare gomme di biciclette perché non c’era né gomma né biciclette e il migliore mezzo di trasporto erano le proprie gambe. Non c’era niente di niente eppure tutti ridevano ed erano felici perché c’era la libertà. Non si poteva indicare dove era la libertà o come si manifestava, ma c’era e ognuno ne faceva un uso proprio e la scopriva senza saperlo in mille piccolissime cose.

 

Se la prima coppia gravita su Monte Berico, la seconda staziona in riva al Bacchiglione, con altre modalità, ché per Beppino corteggiare Silvana significava prendere Silvana per mano e tirarla via da tutti gli altri:

 

Poiché c’era la libertà più assoluta nessuno sapeva perché si comportava così. Beppino sentiva che doveva tirare e Silvana sentiva che doveva essere tirata da Beppino. I capelli biondi e irti di Beppino e quelle sue gambe muscolose e quel suo modo maleducatissimo erano attratti dalle trecce nere quasi blu di Silvana e dalla sua bocca gonfia e rossa, perfetta, color corallo scuro, e dalla sua voce un po’ roca. E così Silvana era attratta dalla maleducazione di Beppino. Allora poiché c’era quella libertà nessuno sapeva cos’era il sadomasochismo e nessuno conosceva Freud ma tutto questo avveniva.

 

E così Beppino la trascinava fino al fiume e la costringeva a salire in barca minacciando un rapimento: “Silvana tace. Ha anche paura, non sa nuotare e Beppino rema forte. Eppure le piace, così non è affatto preoccupata di andare a casa, non pensa affatto che i genitori si preoccuperanno se non tornerà. Segue il suo destino, segue la vita”.

La terza coppia, appena sbozzata, è composta dal bello della compagnia e dalla bruttina innamorata:

 

Carlo zufola con il massimo denominatore di civetteria accanto a Bita che sta a sentirlo come fosse un gran musicista ed egli rifà il verso a Natalino Otto, zufolando e cantando. Sa egli cos’è la libertà? Non lo sa ma in quel momento in parte (non interamente) la vive. Non interamente perché fa il verso a Natalino Otto e dunque non è libero.

 

E qui arriva la conclusione:

 

Cos’è la libertà? È la libertà di agire altrimenti. Ma in quegli anni di enorme libertà nessuno conosce Rosa Luxemburg e tanto meno quella definizione.

 

La citazione dalla Luxemburg qui è ancora più libera: se prima “pensare” era stato sostituito con “decidere”, ora “decidere” trapassa in “agire”[9]. Ciò fa pensare che il racconto sia stato scritto poco dopo il reportage laotiano, nell’autunno del 1970, ossia tra la fine della prima triade e l’inizio della seconda: una posizione mediana dunque, dalla quale per un verso Parise si riaggancia agli esordi del Ragazzo morto, e dall’altro introduce un tema che affronterà alla fine del suo itinerario, nel discorso di Padova[10].

Uomo libero, in un frangente drammatico in cui si trattava di cambiare letteralmente vita, Parise decise di agire altrimenti: senza più rispondenze con la contemporaneità, puntò tutto sulla memoria, per dare il via a una rinascita poetica di voci che verranno in buona parte da un passato ormai lontano, più lontano addirittura del dopoguerra, a formare le lettere del suo Sillabario.

[1] Con il titolo Quando la fantasia ballava il “boogie” (verosimilmente redazionale, ché il termine “fantasia” mai compare nel testo), ora in Id. Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, I, Mondadori, Milano 1987, pp. 1605-9.

[2] G. Parise, Incontro con Longanesi, “Il Resto del Carlino” del 5 ottobre 1957, poi in Id., Opere I, cit., pp. 1518-23.

[3] Lettera del 5 agosto 1959, in Lettere a Giovanni Comisso di Goffredo Parise, a cura di L. Urettini, Edizioni del Bradipo, Lugo 1995, p. 39.

[4] G. Parise, Con il Crematorio contesto la mia vita, in “Corriere della sera”, 22 marzo 1970.

[5] In N. Naldini, Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise, Rosellina Archinto Editore, Milano 1989, p. 65. Verrà invece pubblicato postumo nel 1997 da Rizzoli col titolo L’odore del sangue.

[6]In the mood, il famoso boogie, ha segnato la data di quest’ultima libertà d’immaginazione e, con lo stesso titolo, il mood dell’epoca. Non facile tradurlo perfettamente in italiano […]. In ogni caso quel boogie, quel tempo, quel ritmo inventò un’epoca che coinvolse il mondo nella grande aura della libertà”.

[7] Ora in Opere, cit., II, Mondadori, Milano 2005, p. 965. La citazione viene da Sulla rivoluzione russa, uscito postumo nel 1922 (“Freiheit ist immer Freiheit des anders Denkenden [La libertà è sempre la libertà di chi pensa diversamente]”).

[8] Catalogato come Au.45 in M. Brunetta (ed.), Archivio Parise: le carte di una vita, Canova, Treviso 1998, p. 37. Il dattiloscritto, otto fogli fitti in prima versione, contiene molti refusi qui corretti.

[9] Una torsione simile era riscontrabile in Hannah Arendt, che nel 1963 tributò sincera ammirazione per la Luxemburg in On Revolution (tradotto in italiano per Edizioni di Comunità nel 1965), dove alla nota n. 84 cita per esteso la pagina in cui compare la definizione.

[10] A conferma, l’accenno a Natalino Otto, il re nostrano dello swing, genere musicale cui appartiene lo stesso boogie-woogie. Parise sarebbe tornato sul tema in Quello swing, frenetico sogno di libertà sul “Corriere della sera” del 15 giugno 1986.

 

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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