Ballad of a Thin Man

di Marco Pianti
La morfologia del luogo è soggetta a improvvise mutazioni. La gente viene qui per prelevare il sale. Carovane trainate da cammelli si incamminano nel deserto, uomini, donne e bambini incidono le lastre e se ne vanno con i blocchi di sale. I camion stanno sostituendo le carovane: ne basta uno per trasportare il carico di trecento cammelli. Qualcuno, dimostrando la propria ispirazione poetica, definisce i cammelli le imbarcazioni del deserto. Le pozze di acqua salata evaporano sotto un sole preistorico. Se i poeti dei secoli scorsi avessero visitato questo luogo, i loro inferni letterari gli somiglierebbero. Non ci sono strade. In questa porzione di continente non si possono edificare resort di lusso. Il paesaggio non è riducibile ad una cartolina dai connotati esotici e avventurieri a beneficio dei turisti.
Grazie ad una conoscienza geografica del luogo acquisita dalle narrazioni orali degli anziani – una casta di cinquantenni alcolizzati – Abdul riesce ad orientarsi, e sebbene questo possa sembrare impossibile, ha piena coscienza di dove è diretto. Se lasciasse dietro di sé un filo, dei sassolini o una striscia di sangue, ne verrebbe fuori un percorso dritto, simile a quello seguito dagli elefanti che vanno a morire o a procreare. Le sue impronte sembrano i residui di una geomanzia. Nella mano destra stringe un bastone nodoso in cima al quale è appesa una zucca svuotata del suo contenuto. Rimangono solo i semi, che scossi dal movimento pendolare del bastone suggeriscono il ritmo della marcia di Abdul. Il sole è allo zenit. Sarebbe logico inginocchiarsi e pregare una divinità antropomorfa che ne incarnasse le qualità morali, i vizi e le compulsioni. Millenni di adattamento all’ambiente hanno plasmato il corpo di Abdul, fino a renderlo il riassunto di un corpo umano. Indossa ciabatte di caucciù, bluejeans scoloriti, una camicia a mezze maniche e una specie di turbante ricavato da un maglione, inzuppato di acqua e sudore. I suoi passi strascicati producono un suono come di fogli strappati. In testa ha quattro parole in una lingua straniera. Quattro parole francesi: mère morte, madre morta, e baiser frère, bacio fratello. Le ripete mentalmente alla stessa frequenza del suo battito cardiaco. C’è un’armonia completa tra i suoi passi, le pulsazioni e il messaggio. Il petto di Abudl è di poco più largo della coscia di un uomo che può permettersi cinque pasti giornalieri. I suoi occhi non sono bianchi, ma giallastri. La pupilla è nera. Ha lo sguardo fisso, ma non sa bene dove. Più su un’idea – il messaggio, madre morta, bacio fratello, – che su un punto nello spazio. La natura, o ciò che ne rimane, fa economia delle proprie risorse. Il silenzio è disturbato solo dalle quattro parole che Abdul recita incessantemente. Ha camminato per ore, ma non ha l’aria stanca. O meglio, non sembra stanco come chi avesse camminato per ore, ma piuttosto come chi avesse passato la notte a scavare una fossa comune.
All’orizzonte, fino ad allora invariato, appare un’antenna collocata alla sommità di una torre di ferro. Si tratta della prima di una catena che conduce fino in città. Per chi viene dalla città, invece, è l’ultima testimonianza della civiltà industrializzata. Abdul arresta la sua marcia, infila una mano in tasca e estrae un telefono cellulare che porta il nome della cittadina finlandese nella quale è prodotto. Controlla lo stato della batteria, poi riprende a camminare. Arrivato ai piedi della torre beve dalla borraccia, lancia il bastone, si siede sulla base di cemento e chiude gli occhi, ma solo per un momento, durante il quale ripensa al lungo viaggio e riordina le idee. Non conosce i particolari del funzionamento dell’apparecchio che tiene nella mano dalle lunghe dita da nosferatu. Dovrà comporre un numero, e non sarà molto diverso dal formulare una supplica a qualche entità trascendentale che dispone delle nostre vite secondo il proprio capriccio. Infila l’indice e l’anulare nel taschino della camicia e afferra un foglietto piegato in due. Da qualche parte nella direzione che osserva, a metà strada tra il suo luogo di provenienza e il successivo insediamento umano, deve esserci una svolta che conduce al mare. Quando ci pensa, nonostante l’idea che se n’è fatto non derivi da un’esperienza diretta, ma dai racconti di altri, gli sembra di vederlo e di sentire una brezza piacevole. E siccome tutti i racconti che ha sentito concordano sulla vastità del mare, stringe le dita dei piedi come se volesse inchiodare il corpo a qualcosa di solido. Cosa può esserci di più vasto del deserto?
Sul foglietto c’è scritto il nome di suo fratello in caratteri abugidi. Sotto il suo nome c’è una sequenza di numeri, dieci per la precisione. Abdul ha iniziato a sentire la voce di suo fratello molto prima di aver composto il numero. Prima ne sente la voce, poi ne vede emergere i contorni, davanti o dentro di sé. A dire il vero si tratta di un collage di varie immagini di suo fratello. E per essere ancora più precisi le immagini ora si alternano e ora si sovrappongono, dando forma ad un uomo nuovo che però gli sembra familiare. Forse è così che lo sogna la notte. Un fratello che non è esattamente suo fratello, ma che gli appare più autentico e fedele di una fotografia. In fin dei conti, anche se Abdul non perde tempo con simili divagazioni, quella è un’immagine ideale di suo fratello. Preme il pulsante che corrisponde al primo numero della sequenza, e osserva lo schermo verde illuminarsi all’improvviso. Ogni tasto produce un suono; nel complesso ne viene fuori una melodia monotona, ossessiva.
E pensare, pensa Abdul, che lui si trova oltre il deserto e oltre il mare. Lo pensa così, senza avere la minima idea di cosa possa significare. La sua immaginazione si ferma alla lunga camminata, di cui lui stesso ha appena percorso la metà della distanza totale, compiuta da suo fratello all’incirca cinque anni prima. Il maggiore, ovvero il vicario in terra di suo padre defunto. I suoi passi nel deserto sono cancellati da tempo, ma non dalla memoria di Abdul, il quale, il giorno della sua partenza, lo ha accompagnato con la mente fino alla torre di ferro, perché non sapeva cosa ci fosse dopo. Il maggiore aveva superato la colonna d’Ercole del deserto, e dopo qualche telegramma non si era più fatto sentire né aveva dato segnali di vita. I telegrammi arrivavano in città, in uno di quei locali affollati dove la gente aspetta l’esito delle transazioni economiche effettuate dai parenti dai quattro angoli dell’universo. La gente si accampa nell’ufficio della Western Union per intere settimane, poi se ne va rassegnata e a mani vuote. I camionisti che rifornivano il villaggio di sigarette e liquori portavano le missive venute dall’altro mondo.
In questo modo Abdul e sua madre, quando lei era ancora viva, cioè fino a l’altro ieri, erano venuti a sapere che il maggiore si era sistemato a Parigi, nel quartiere La Chapelle, dove in un primo momento aveva distribuito i volantini di un sedicente sciamano, all’entrata del metrò. Insieme al primo messaggio aveva spedito una Gauloises senza filto, e Abdul e sua madre l’avevano fumata insieme in cucina, a turno, un tiro ciascuno, come una pipa in un rituale a base di allucinogeni. Dopo un anno aveva smesso di scrivere. La sua presenza, però, non era venuta meno: Abdul aveva aiutato sua madre a installare un altarino sopra la credenza in cucina. C’era la foto del maggiore, mozziconi di candele che venivano accese in occasioni particolari, e icone di un antico culto in via di estinzione. Il telefono squilla. Ogni squillo sembra annunciare la partenza di un transatlantico in un porto disabitato e avvolto dalla nebbia. Gli squilli si equivalgono per Abdul, il telefono ha già suonato dodici volte, e pure non si preoccupa e non considera l’eventualità che nessuno risponda.
Intanto ha il tempo di ricordare sua madre, che nella sua mente è ancora viva. Una donna di quarantasei anni, vale a dire una signora di una certa età, in un luogo dove l’assistenza medica è inaccessibile e ci si arrangia come si può. Il bastone è un feticcio che ha ricevuto in dono da lei. Dovrebbe avere il potere di rilassare i nervi. E di sostenere i passi del viandante solitario. Quando ripensa a sua madre, vede la sua pancia gonfia sotto i vestiti con motivi floreali. Le guance piene di tabacco da masticare. Lo sguardo bovino. La vede masticare una porzione di tabacco con la stessa cadenza ritmata di un congegno ideato per smaltire materiali di scarto. Si infilava in bocca le foglie di una pianta che la rinvigoriva. Abdul non le aveva mai fatto mancare il suo sostegno, perché la trovava spaventosa. Da bambino temeva di scoprire che appartenesse ad una specie ibrida, umana solo per metà. L’immagine della madre seduta sul pavimento della cucina con la bocca piena di droga, e quella del fratello in piedi nel metrò, o nel metrò così come lo aveva immaginato, coesistevano in un unico punto. Tutto ciò lo vede chiaramente tra il dodicesimo e il tredicesimo squillo del telefono. Continua a squillare, solo che ora tra uno squillo e l’altro sembrano trascorrere intere ere geologiche. Abdul ha perso il senno e nel frattempo l’attesa si è trasformata in speranza, e la speranza, questo lo sa anche lui, è sempre disperata.
Diciassette squilli, un eternità. La memoria autobiografica di Abdul è una successione di sacrifici che ne hanno plasmato l’identità rendendolo un individuo immune a qualsiasi forma di vanità. La sua pacatezza rasenta il ritardo mentale. Ha imparato presto a sottomettersi alle necessità, svuotato di una volontà vera e propria agisce con la fanatica ostinazione di un apostolo. Non si concede un momento per sé. Gli umori sono momentanei, non li ha mai classificati, non conosce entusiasmo né delusione. Si muove e agisce come la mascella di sua madre: in maniera meccanica, implacabile, assecondando una pulsione primaria di cui ignora l’origine e le implicazioni etiche. Le condizioni ostili della regione, e la generica appartenenza ad una famiglia nucleare esigono un’economia spirituale prossima all’annullamento di sé, per molti versi simile alle costrizioni psichiche a cui sono sottoposti i lama tibetani. Se prova scoramento o inquietudine è con distacco, quasi si trattasse di un evento metereologico che non lo riguarda sul piano personale. Chi riesce a imporre un tale controllo sulle proprie emozioni è destinato a vivere una vita brevissima o plurimillenaria. Il Super Ego, ubiquo e inflessibile, in qualche modo alieno, è la parte di noi che qualcuno ha colonizzato per edificare caserme e penitenziari. Una goccia di sudore compie il percorso che la conduce dalle tempie di Abdul al suo mento, dove, dopo un breve istante di panico, precipita.
Finalmente, senza alcun preavviso, una voce risponde. Si fa spazio nella notte in cui Abdul è sprofondato. Lo spazio nero tra un capo e l’altro della comunicazione, fatto di penose illusioni e promesse infrante. Dalla voce si direbbe una signora anziana. Si direbbe, inoltre, che la donna abbia dovuto salire una rampa di scale vertiginose per arrivare al telefono: un lungo viaggio di cui, forse, inizia a intravedere la fine. Abdul, dopo un iniziale esitazione, pronuncia le parole del suo messaggio: Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère Mère Morte Baiser Frère. Si ferma per riprendere fiato. In quell’istante si rende conto che non sta affatto parlando con suo fratello, ma con una sconosciuta di cui riesce a percepire la paura in maniera istintiva e animale anche a decine di migliaia di chilometri di distanza. Allora prova a intavolare un discorso nella sua lingua madre. Le parole sono intervallate da fremiti di freddo. Infatti Abdul si sente gelare, ma non dalla superficie del corpo, bensì dall’interno. Dentro il suo sterno, così fragile che basterebbe un calcio a sfondarlo, sta accadendo qualcosa di insolito. La signora pensa ad una truffa telefonica. Ad uno scherzo. Ad un inciampo delle sue attività cognitive. E siccome è molto devota si fa spazio nella sua mente l’idea che si tratti di un messaggio divino. Abdul è riuscito a rallentare il profluvio di frasi e parole ed è tornato in sé. Crede che basterà parlare lentamente e scandire le parole, anche le sillabe se necessario, per farsi capire dalla donna.
La signora sente farfugliare in una lingua che non può capire, e che forse nessuno a Parigi o in Europa o nel terzo millennio è in grado di capire, nemmeno i professori di archeologia linguistica all’École du Louvre, poi pensa: oh dio, questo è mio marito morto da quindici anni, oggi è riuscito finalmente a stabilire un contatto, ma non ricorda più le parole. E un pensiero irrazionale di cui si vergogna all’istante, perciò si spazientisce e diventa nervosa. Abdul procede nelle spiegazioni, che sono logiche e consequenziali, particolareggiate ed evocative. Chantal T.S si calma, inconsciamente ha deciso di lasciarlo parlare, non ci sono più dubbi, pensa in un momento di lucidità, quest’uomo sta male. Mentre ascolta, osserva un palazzo hausmaniano dalla finestra del suo appartamento. La voce di Abdul e la vista del palazzo sono elementi inconciliabili, e Chantal T.S cade progressivamente in uno stato di trance. Vive reclusa da quando suo marito se n’è andato, nell’appartamento ci sono i suoi cimeli, la collezione di dischi, le riproduzioni di Bosch appese alla parete, una pila di periodici culturali e nell’angolo il pianoforte a coda. Il pianoforte, così diceva suo padre, dal quale lo aveva ereditato, era appartenuto a Franz Schubert.
Chantal T.S era la figlia di un immigrato ungherese. Si ricordava il giorno in cui erano scappati da Budapest e lei aveva afferrato una bambola di pezza, perché chi se ne va, e vede la sua casa per l’ultima volta, porta sempre qualcosa con sé, un oggetto qualsiasi, solitamente, e una manciata di ricordi traumatici. Questo era accaduto negli anni trenta, la sua famiglia apparteneva ad una minoranza etnica che, ciclicamente, è costretta a fuggire e confrontarsi con le macerie della propria esistenza. Dopo la morte di suo padre, di sua madre e di suo marito, era rimasta sola. Aveva ereditato un intero piano di una palazzina in rue Marx Dormoy. E mentre guarda il salotto come se si trovasse lì dopo una lunga assenza, e non fossero passati pochi minuti da quando ha preso la telefonata, ma decenni di storia recente, ripensa all’appartamento in fondo al corridoio, che aveva affittato per qualche anno ad una mezza dozzina di immigrati del Corno d’Africa. Ora è tutto chiaro, pensa, alcuni di loro usavano il mio telefono in cambio di un sovrapprezzo, per comunicare con il proprio passato. Prova a ricordare i nomi, interrompe Abdul, che ora sembra recitare i versi di un’epopea antidiluviana, e li elenca, i nomi che ricorda. Pronunciarli ad alta voce le dà l’idea di un rituale pagano. Quando dice Osman Almaz dall’altra parte sente un grido soffocato. Lo ripete, nel tono con il quale si pronuncia la parola che si cercava. Poi lo dice una terza volta – Osman Almaz – con una certa riverenza, come se dicesse Teodosio terzo o Luigi quattordici.
Gira la testa di quarantacinque gradi, fuori dalla finestra, e capisce che presto pioverà. Intanto ha iniziato un discorso senza capo né coda sul tempo che passa, sulla morte e sulla malattia, ponendo l’accento sulle cicatrici dell’anima, o, come le chiama lei, les blessures de l’âme. Nel suo monologo ci sono almeno una dozzina di concetti che prima o poi la vita si premura di chiarire con tanto di dimostrazioni pratiche, tra cui la rinuncia, il silenzio e un enfisema polmonare. Più che cicatrici, i suoi sono autentici tumori. Abdul è commosso: in quella lingua c’è qualcosa di suo fratello, della sua nuova identità. Già, perché chi lascia il proprio paese inaugura una catena di rinunce che assume la fisionomia di un suicidio. Ecco perché il messaggio di Abdul è in francese: suo fratello, ne era sicuro, aveva dimenticato ogni cosa, era diventato un uomo nuovo e non si sarebbero capiti, nella lingua che aveva rinnegato il giorno in cui se n’era andato. Chantal T.S si sta impegnando a ridurre all’essenziale il lessico e la punteggiatura. Una prosa asciutta è quel che ci vuole quando si è in preda al panico. Bisogna evitare le ripetizioni e le inutili e dispendiose digressioni che rischiano di sviare il discorso.
Quando si ferma per riprendere il fiato lo sente bisbigliare. Chantal e Abdul non stanno parlando l’uno con l’altro, ma ognuno con i propri fantasmi. Ora Chantal T.S è seduta in poltrona, ricorda uno di quei personaggi dipinti da Edward Hopper che attendono rispettosamente l’epilogo della tragedia di cui sono protagonisti. Abdul, sdraiato in posizione fetale sulla base di cemento dell’antenna, è il soggetto di un documentario sugli orrori di una guerra fratricida. E poi, nello stesso istante, ma in lingue diverse, pensano che a questo punto sono disposti ad accettare qualsiasi cosa. Sentono un calore diffuso, un’insperata sensazione di benessere. Abdul sente di aver comunicato con suo fratello, per vie traverse e misteriose. Ritiene di aver consegnato il messaggio, e di aver assolto il suo compito. Chantal T.S prova a ricordare Osman Almaz, e per il solo fatto di aver pronunciato il suo nome, si convince che fosse un individuo distinto, un uomo d’onore, sempre puntuale nei pagamenti; forse lo ha visto leggere, una volta o due. Ma non è dato sapere se quello che ricorda è proprio Osman Almaz o la sua immagine distorta dalle emozioni convulse di una povera demente. Nessuno dei due osa riattaccare e interrompere la telefonata. Tanto Abdul quanto Chantal T.S temono le possibili ripercussioni sulla loro anima di un affronto simile, rivolto alla potenza trascendentale che li ha messi in contatto. Chantal T.S rievoca il gradevole brusio che proveniva dalla stanza in fondo al corridoio e che, in qualche modo le faceva compagnia, la sera, prima di trovare il coraggio di spegnere le luci. Gli incontri casuali con gli inquilini. Puzzavano, è vero, avevano lo sguardo esausto o allucinato, ma erano sempre cortesi. Che fine hanno fatto? Si sono dispersi per le vie e sotto i ponti, o nelle catacombe di Parigi? Qualcuno si è arruolato nelle milizie dell’ISIS? Quanti sono morti, e quanti sono ancora vivi?
Abdul attende pazientemente che Chantal T.S finisca di porsi queste domande senza risposta. Intanto la morte di sua madre è diventata reale. Non è più il contenuto di un messaggio da consegnare. E inizia a pulsare nella sua calotta cranica. Nel diciottesimo arrondissement inizia a cadere la pioggia, dapprima fine e rada, presto si infittisce, e le goccioline che somigliavano a chiodi diventano granate. Chantal T.S è regredita ad un periodo della sua vita in cui il silenzio imperava e la ossessionava. Il silenzio della stanza in fondo al corridoio e quello del suo appartamento hanno qualità diverse, per via della diversa concentrazione dei ricordi. È già trascorso qualche minuto da quando uno dei due ha detto qualcosa. Nel deserto dei Dancali sta calando la sera. Abdul deve fare presto se non vuole passare la notte sdraiato su una lastra di sale. Non si chiede se suo fratello sia vivo o morto. Quello che farà, così ha deciso, sarà tornare a casa e accendere una candela nell’altarino in cui ha già previsto di aggiungere al corredo una fotografia di sua madre. Stacca il cellulare dall’orecchio sudato e indolenzito. Lo guarda per un momento e sente un ronzio indistinto, la voce di Chantal T.S che si allontana e viene risucchiata nel vuoto da dove è venuta. Un retropensiero gli suggerisce, alternativamente, di andare in città o di incamminarsi verso il mare. I primi passi sono titubanti, ci vuole qualche minuto affinché il potere narcotico della zucca faccia effetto sulla psiche di Abdul e lo incoraggi a procedere senza esitazioni.
La morte pacifica l’anima dei vivi, la scuote dal suo torpore, genera una scarica di vitalità da cui scaturiscono gesti e formule rituali con cui l’uomo celebra la vita, quando è abbastanza vicina da rivelare i suoi contorni. Uno la vede, ne sente l’odore, e prima pensa di essere vittima di allucinazioni visive e olfattive, poi pensa e qualche volta esclama, esultante: quindi eri tu! Sei sempre stata qui.
