La mummia

di Silvano Panella
Il tempio emerge dalle sabbie maestoso e in rovina. Il caldo, il vento, il tempo hanno scheggiato, spaccato, levigato le pietre. La sabbia del deserto tende a nascondere il basamento. Mi chiedo a quale profondità arrivi e se sotto ci sia altra sabbia oppure la roccia. Sì, immagino che a un certo punto ci sia la roccia, ma quanta sabbia c’è tra noi e la roccia? Entro nel tempio provvisto di una torcia elettrica e di una conoscenza parziale, frammentaria. L’acustica che trovo all’interno è diversa rispetto a quella di qualsiasi altro luogo chiuso. Chissà se è per via del miscuglio di suoni e rumori accumulatisi fino a oggi – deve essere rimasto un brusio di fondo che interferisce con i nuovi suoni, i nuovi rumori.
I geroglifici circondano, imprigionano, spiegano le scene pittoriche di persone, animali, oggetti d’uso. Lo stile bidimensionale non è un limite, ha la precisa funzione di schiaffare i soggetti sulla superficie, imprigionarli a vista, ricchi di dettagli – volti, musi, vestiti, pellicce, artigli, gioielli. Raggiungo la mia guida e i giovani studiosi, si trovano tutti nella sala predisposta per la visita alle mummie animali. Non badano alla mia tardiva apparizione, sono affascinati dalle mummie. In questo tempio le mummie erano di passaggio per essere collocate nelle tombe, oggi sono di passaggio il periodo di una mostra. Mi chiedo se gli antichi egizi avessero previsto questa ostensione. Dopotutto, le mummie animali sono più belle delle mummie umane. Sì, sono proprio deliziose, fanno tenerezza, ci suggeriscono che gli antichi egizi tenessero molto ai loro cani, ai loro gatti, li mummificavano per continuare a tenerli vicini da vivi e per essere sepolti vicini da morti, per vivere insieme nell’aldilà. E tenevano molto anche agli altri animali – ci sono mummie di coccodrilli, tori, pesci, uccelli, c’è la mummia di un cucciolo di leone.
Questi bendaggi stretti stretti, come se gli animali fossero degli infermi ai quali badare, stretti stretti per non far deformare i corpi, per non lasciarli scappare, per fissarli a tre dimensioni nell’eternità. Le mummie, opere d’arte composte in prevalenza di materiale biologico, animali fissati nel pieno della loro bellezza anziché lasciati deperire in vita. I volti ridipinti sulle bende, una fantasia ocra che stride con la rigidità dei corpi, espressioni imbronciate per l’eternità. Questo stridore mette allegria. E poi, a rompere l’incanto macabro, una daga.
Uno dei giovani studiosi solleva la daga, una spada corta magnificamente conservata ed esposta su un plinto. Sulla targa è scritto che la daga fu lasciata qui dai romani, che a loro volta l’avevano sottratta ai daci durante una battaglia. La daga fu rinvenuta nel tempio durante gli scavi archeologici. Si sospetta appartenesse a un soldato romano di guardia. La targa non azzarda ipotesi sul perché il soldato romano l’abbia lasciata – la sabbia filtrata attraverso le sette soglie del tempio seppellì la spada pian piano. I giovani studiosi sorridono alla bravata del loro compagno, il quale sghignazza e perde la concentrazione, la daga male impugnata scivola a terra e provoca un rumore metallico che rimbomba più volte, spaventando tutti. Di nuovo i sorrisi quando un altro giovane studioso raccoglie la daga, la punta solca il pavimento di pietra e sabbia, stride, il giovane alza la daga, anziché brandirla sembra che il suo scopo sia di tenerla in equilibrio. Ci riesce. Non che sia difficile, sono sicuro che la spada non sia pesante, tuttavia questi giovani sono delicati, parlano tra loro e splendono di stupore, gli abiti color pastello. La guida ordina di mettere a posto la daga, i suoi strilli sono tardivi e inopportuni, dissacrazioni del luogo. I giovani si mostrano contriti e sistemano la daga dov’era. Il capo chino, le scuse. Riprendiamo il giro.
Le mummie dei cani, occhi cerchiati e vigili, corpi compattati in un lungo collo, le zampe non visibili. Le mummie dei gatti sono simili alle mummie dei cani ma la differenza sostanziale sta nei volti, più beffardi. Le mummie dei coccodrilli, affusolate in un eterno a pelo d’acqua, giacciono su spessi panni ingialliti, non so se coevi e previsti o se dovuti alla sensibilità del curatore museale. Le mummie dei tori sono enormi, più di quelle dei coccodrilli, e suggeriscono quiete. Le mummie dei pesci sono poste in scatole a forma di pesce, le scaglie policromi, la fattura fortemente stilizzata, l’espressione irosa – poiché tolti dall’acqua? Le mummie degli uccelli, coricate supine, simili a sarcofagi, fanno davvero pensare all’ipotesi del risveglio. Solitaria, la mummia del cucciolo di leone è diversa dalle altre. Stretta nelle bende, priva di pitture e di aggiustamenti posticci. È il corpo e basta. Fa venir voglia di sbendarla – infatti il vetro protettivo è blindato, infatti i giovani studiosi, io, la guida stessa cerchiamo eventuali spiracoli tra la teca e il plinto, cerchiamo la serratura, eccola qui, complicata assai. Immagino che, una volta sbendata, la creatura si palesi nelle sue fattezze originarie. La creatura. Doveva avere pochi mesi, morta e poi salvata dagli sciacalli, dalla decomposizione, dall’oblio. È commestibile?
I giovani ostentano pose meditabonde, cercano più o meno sul serio di rispondere alla domanda posta da uno di loro. Spensieratezza goliardica, il sapere a uso di padroni vivaci – l’intuito non ancora imbrigliato. La guida ci precede di fuori, nel portico. Le colonne ipostili, lotiformi, rompono di tratto in tratto la luce del Sole accecante, impastata di biancore e di sabbia. Le mummie degli animali si trovano al riparo dal trascorrere del giorno, dalle tempeste di sabbia, dalle rare piogge, dal vento, dall’umidità, dalle escursioni termiche. Anche se non ci fossero le teche di vetro, sarebbe da considerarsi un confine inesplicabile il loro bendaggio?
