Dal letame nascono i fiori: su Io di Wolfgang Hilbig
di Giorgio Mascitelli

Esce finalmente per i tipi di Keller Io di Wolfgang Hilbig (Rovereto, 2025, euro 20), uno dei testi contemporanei più significativi della letteratura tedesca ed europea, in una traduzione, capace di rendere plausibile in italiano il tedesco sedimentato e personalissimo dell’originale, di Roberta Gado e Riccardo Cravero, che si erano già cimentati nei racconti lunghi Le femmine e Vecchio scorticatoio, di cui mi ero occupato qui: https://www.nazioneindiana.com/2020/01/06/le-femmine-di-hilbig/ .
Il romanzo narra di uno scrittore o aspirante scrittore, che conosciamo con il nome di copertura di Cambert, arruolato dalla Stasi e trasferito dalla sua cittadina di origine, indicata solo con l’iniziale A., nella Berlino Est degli anni ottanta per introdursi nella ‘scena’, così vengono chiamati in gergo dalla ‘ditta’, cioè la Stasi, i circoli letterari del dissenso, e in particolare per seguire uno scrittore misterioso, in quel momento in cima ai sospettati proprio perché nella sua attività letteraria e nel suo comportamento personale non sembra tramare nulla contro la DDR. D’altra parte Cambert rivela, per così dire, un’ontologia debole per cui la sua identificazione con i tratti fittizi della spia diventa in certi momenti pienamente sincera, interpolandosi e scontrandosi con lacerti della sua vita precedente, favorito in ciò dal suo superiore, nome in codice Feuerbach, che lo instrada a una visione disincantata dei rapporti tra cultura, verità e potere e allo stesso tempo sembra essere l’unico a prendere sul serio il potenziale della letteratura. Insomma abbiamo qui un personaggio parzialmente fittizio che si trova per ragioni professionali a dover seguire soggetti dai tratti sconosciuti o nebbiosi, quanto meno a lui, ai quali talvolta deve assegnarne, per necessità di servizio, di inesistenti in una sorta di gioco delle tre carte tra verità e finzione, che troverà il suo esempio più eloquente, quando recatosi in visita dalla madre, che non vede da tre o quattro anni, si accorge che la ditta le ha fatto credere tramite delle sue lettere false che lui fosse fuggito in Germania Federale e decide di non rivelarle la verità perché la storia falsa è più gratificante agli occhi materni della realtà delle cose.
Il romanzo è organizzato in tre lunghi capitoli, dei quali il primo e il terzo sono narrati in prima persona da Cambert stesso, il secondo da un narratore onnisciente in terza persona, sia pure con focalizzazione interna, che racconta la storia dell’arruolamento nella ditta di W., il vero nome di Cambert, che noi però non apprenderemo mai, anche se sembra condividere alcuni aspetti della biografia dell’autore (un poeta proletario che lavora in fabbrica come fuochista in una cittadina di provincia), mentre altri non coincidono (per es. la vicenda si svolge in buona parte negli anni della perestrojka quando Hilbig era già in Germania Federale). Visto che il narratore esterno si insinua nel romanzo proprio nel momento in cui Cambert si addormenta su un treno del passante ferroviario, si potrebbe arrivare a pensare che il narratore non sia nient’altro che lo stesso Cambert che contempla il suo vero io, come una sorta di sosia, di gemello ormai lontano in una differente temperie morale. E’ insomma una struttura narrativa che richiama quell’incertezza di identità di cui scrivevo sopra relativa non solo al protagonista, ma anche allo stato tedesco orientale stesso che appare caratterizzato da una fatiscenza tanto materiale, quanto istituzionale e ideologica. Il libro alterna tratti realistici con momenti onirici e claustrofobici e ciò in ragione non solo dell’architettura narrativa e tematica, ma anche dei registri stilistico-retorici, gestiti dall’autore con quella libertà e padronanza tipiche delle opere destinate a diventare dei classici; accade quindi che vi siano momenti ironici nei confronti del sistema, che viene irriso anche linguisticamente tramite la messa in scena parodica dei suoi slogan e convenzioni linguistiche, lunghi monologhi interiori, espliciti o riferiti nel libero indiretto, in cui convivano osservazioni e domande ultime sul senso in generale con particolari quotidiani, anche scatologici; infine una procedura fondamentale nel mantenere l’equilibrio tra il realistico e l’onirico è lo sviluppo di una determinata espressione sia in una serie letterale sia in una serie figurata, metaforica o metonimica. A titolo d’esempio nella pagina inziale è possibile leggere l’affermazione “riesco a passare più spesso di tanti altri attraverso i muri”, dove l’io narrante intende la facilità come spia nel penetrare fisicamente negli spazi altrui e quella di avere rapporti proficui con il potere. Ancora più significativo è il titolo del secondo capitolo, “Ricordi nel sottosuolo”, nel quale l’evocazione dell’uomo del sottosuolo convive con la marcata preferenza del protagonista per le cantine come luoghi di quiete e riflessione e nello stesso tempo ottimi nascondigli.
Proprio il riferimento al personaggio dostoevskjano abitatore del sottosuolo, cioè dell’uomo disperato e un po’ compiaciuto della propria abiezione, è il punto (di partenza) che distingue Io dai romanzi di denuncia dell’apparato repressivo del socialismo reale, non perché manchino passaggi pesantemente critici sia in senso realistico, l’odio spontaneo in cui incorre Cambert quando la gente si avvede che si tratta di un collaboratore della Stasi, sia nel monologo raziocinante come un sensazionale passo in cui il protagonista si convince che l’idea paranoica della Stasi di trasformare l’intera nazione in una massa di spie che si sorvegliano a vicenda sia la perfetta realizzazione di ogni utopia ugualitaria da Platone a Lenin. La questione è invece che i sentimenti contrastanti sulla propria condizione morale determinano quella oscillazione esistenziale, quell’incertezza continua tra realtà e finzione, e si estendono fino a coinvolgere tutto il sistema che Cambert serve: allora è evidente che emerga il problema del senso o meglio della mancanza di senso che caratterizza tutto il suo mondo; tale sentimento di smarrimento poi è aggravato da un’assenza di qualsiasi illusione sulla controparte occidentale, di cui viene criticato ironicamente il culto mediatico dello scrittore dissidente, che nasconde un vuoto di senso ancora maggiore per la letteratura: lo scrittore al di là del Muro, dice Feuerbach, è “un impiegato impegnato a rigirare i cliché della società dei consumi”. Sono solo le parole di un ufficiale della Stasi, ma per un uomo del sottosuolo le verità spiacevoli non possono che venire da persone spiacevoli, anzi propendo a credere che nell’insistere su questa verità sfuggente e camaleontica in Hilbig ci sia una sfumatura parodica del postmoderno occidentale: si tratta di una lettura probabilmente tendenziosa, ma nel rileggere il libro avevo l’impressione che in questi insistiti giochi di finzione ci fosse anche una sottile presa in giro dello scetticismo light postmoderno occidentale.
Se la problematica centrale del libro, o quanto meno una delle centrali, è l’assenza di senso, l’ascesa del nulla evocato parzialmente in chiave ironica, pare ovvio qui convocare il nome di Samuel Beckett, che anzi è citato esplicitamente, anche se i superiori di Cambert e Feuerbach lo confondono con il santo medievale Thomas Becket. In particolare un romanzo come Molloy, in cui l’agente segreto Moran si dedica alla ricerca dell’inafferrabile personaggio eponimo, con i suoi cambi di narratore sembra recare una lezione che Hilbig ha inteso molto bene e riutilizzato a modo suo. L’ironia beckettiana rimanda però a quella che è una delle fonti principali dell’intera opera hilbigiana ossia il romanticismo tedesco, del quale voglio qui ricordare non qualche citazione o debito stilistico presenti nel testo, ma la nozione di ironia. L’ironia romantica, come sappiamo, è l’ironia radicale che investe tutto il mondo a cominciare dal soggetto stesso che la esercita in una forma di scetticismo generalizzato e non vi è dubbio che in questo senso Io sia un romanzo profondamente ironico. Ciò che probabilmente accomuna Hilbig ai grandi scrittori del romanticismo tedesco è un disagio storico radicale: i romantici, provenienti spesso da un’aristocrazia impoverita dallo sviluppo del capitalismo, non solo vivono dinamiche di emarginazione simbolica e pratica, ma guardano a un mondo che non riconoscono più dominato dal profitto e da uno spirito tecnico di dominio sulla natura, da questa esperienza emerge una domanda senza risposta sul senso di cui l’ironia rappresenta una reazione, assieme, in alcuni di loro, alla regressione reazionaria nell’idealizzazione di un passato medievale. Pur da premesse diverse, Hilbig, il proletario Hilbig si trova nella stessa situazione di sbandamento non solo nel constatare il penoso fallimento dello stato proletario, ma di tutta la modernità illuminista (un fallimento per Hilbig iscritto già nell’idea stessa tipicamente illuminista di una critica perenne). In una serie di lezioni poetiche tenute all’università di Francoforte nel 1995 e intitolate Taglio della critica Hilbig affronta la questione della critica letteraria e della sua trasformazione nella nostra società; essa è però considerata come, in maniera corretta storicamente, un’espressione dello spirito di critica dell’illuminismo. Nella situazione attuale, in particolare dopo lo sviluppo della società mediatica, “letteratura e progresso sono degli opposti”. Infatti Hilbig ricorda che nel 1930 con il suicidio di Majakowski letteratura e illuminismo si separano definitivamente, dopo che il programma del poeta russo di trasformare in un’arma rivoluzionaria la propria penna, nel corso di quella rivoluzione d’ottobre che Hilbig definisce l’ultima grande fase dell’illuminismo, era fallito. In pratica il nostro scrittore accetta la diagnosi postmoderna sulla fine delle grandi narrazioni, ma questa viene vissuta da lui dentro una dinamica drammatica senza aperture in positivo, in perdita di speranze per società e cultura, laddove essa è accettata dai postmoderni in maniera serena e giocosa come fine della storia. Quindi anche se i contesti storici e i contenuti sono radicalmente diversi (i romantici osteggiano quell’illuminismo che per Hilbig non è più tragicamente possibile legare alla letteratura e si risolve in dominio), una delusione senza prospettiva di cambiamento è il terreno comune tra di loro da un punto di vista sentimentale e morale sul quale fiorisce l’ironia radicale.
Michele Sisto in un importante ed esaustivo saggio dedicato alla fortuna italiana di Wolfgang Hilbig, Wolfgang Hilbig nel campo letterario italiano (2024), ricorda come il primo tentativo di far conoscere lo scrittore al lettore italiano con il libro di racconti La presenza dei gatti (1996) si scontrò con un’aspettativa nei confronti di un autore dell’ex DDR di maggiore realismo e di una leggibilità politica più immediata e chiara. Si potrebbe allargare questa considerazione sulla scorta di Critica della vittima di Daniele Giglioli osservando che proprio negli anni Novanta nella cultura occidentale si afferma quel paradigma vittimario, in ragione del quale alla vittima di persecuzioni storiche viene assegnata un’autorità morale assoluta e indiscutibile sulla quale si sono costruite brillanti carriere letterarie anche tra gli scrittori dei paesi del fu Patto di Varsavia, e che un romanzo come Io va in direzione opposta seguendo lo svolgimento della vita anche nei suoi aspetti meno edificanti invece di cercare un fermo immagine con i protagonisti ripresi nella giusta luce e in posa quasi monumentale. Siccome il paradigma vittimario esprime lo spirito del tempo, segnatamente del post Ottantanove, possiamo considerare Io un esempio di letteratura inattuale: come sappiamo l’inattualità è nella letteratura un pregio irrinunciabile per poter essere letti con profitto al di fuori del contesto in cui il libro è stato scritto. E così ora che la DDR è ormai un argomento di repertorio anche in Germania, esaurita la nostalgia per la Trabant, l’ironia e l’ambiguità di Cambert sono illuminanti anche in questo nostro disgraziato tempo, nel quale, se ci guardiamo intorno o anche solo osserviamo il fondo della tazzina di caffè appena bevuto, ci accorgiamo che il sentimento dominante, a dispetto di tutte le libertà di cui siamo passibili, come cantavano i CCCP Fedeli alla linea negli anni ottanta, è quello dell’impotenza, e quindi della disperazione, di fronte alle catastrofi (belliche, ambientali, umanitarie e morali) che ci circondano: un sentimento che Cambert conosce profondamente in tutte le sue sfumature.

Grazie della bella recensione!
Veramente complimenti ancora a te e al tuo collega, perché siete riusciti a rendere il tedesco hilbigiano in italiano. Un’opera che, posso assicurare da lettore dell’originale, non era per nulla facile.