Il gatto di Olivia Wilson
di Angelo Di Fonzo

Olivia Wilson è italoamericana e da quando è morto suo padre non esce di casa senza pistola. Olivia Wilson porta sempre i tacchi a spillo, anche per buttare la spazzatura. Olivia Wilson ti smonta la mandibola se la guardi sbavando.
Quando l’ho incontrata per la prima volta, ero in gioielleria per comprare un paio di orecchini per il compleanno di mia sorella, e avevo smesso di amare da tempo. Dell’amore ci si dimentica tutto, in fretta, ma per gradi: ci si scorda prima del dolore, di tutto il male, poi dei grandi gesti; finché non rimangono solo le piccole cose e i rimpianti.
La prima interazione con Olivia Wilson fu la sua pistola puntata alla tempia. Ero il suo ostaggio, mi aveva scelto tra tanti: un manipolo di timorosi; io ero insolitamente calmo. Subivo il suo magnetismo, ne ero affascinato. Non aveva senso. Era vestita di nero e indossava un basco alla francese; come tornasse da un vernissage un po’ brilla e avesse deciso di prelevare un po’ di soldi alla vecchia maniera. Aveva con sé un gatto color buio, con gli occhi diafani, che zampettava sul pavimento e faceva le fusa a un ragazzino impaurito, prossimo a un attacco di panico.
Lei si fece riempire un borsone di contanti dalla cassiera. A quel punto notai lui, che mi assomigliava così tanto da causarmi la vertigine dello specchio: il viso livido, scolpito dal gelo nei tratti facciali; lo sguardo assopito, inerte. Tutto il male che portavo dentro riflesso all’esterno. Non eravamo così distanti. Il gatto di Olivia Wilson ci passò di fianco con qualche strusciata ognuno, come trasmettendoci l’un l’altro: riunendoci.
Olivia Wilson mi guardò ancora un po’ mentre puntava la pistola alla mia testa. Non riuscivo a decifrare la sua espressione: un mistero. Intorno c’era chi piangeva, chi soffocava grida di terrore. Olivia Wilson lanciò il borsone pieno di contanti sul pavimento in uno svolazzo di filigrana multicolore e mi disse di uscire con lei. Ero un ostaggio? Così sembrava. Qualcuno avrebbe chiamato i carabinieri, ma aveva restituito i soldi. Quindi che fare? Cosa sarebbe successo? Nessuno sembrava saperlo, la cassiera era interdetta. Nessuno intervenne.
Mi disse di salire in macchina: una Mustang GT nera. Aveva ancora la pistola puntata su di me, al petto. Obbedii: posto del passeggero. Lei salì a bordo, chiuse l’auto e partì. Mi raccontò la sua storia: eventi sparsi della sua vita rocambolesca; senza una logica ben precisa. Il nostro appuntamento al buio. Ne ricavai un quadro astratto. Poi mi disse di suo zio che era andato in Australia a fare il minatore perché era arrabbiato e si era ripromesso che avrebbe picconato giorno e notte nelle cave finché non gli fosse passata la rabbia. Era tornato anni dopo in Italia con la barba bianca e il volto solcato dalle rughe: era ancora arrabbiato.
Non riuscivo a smettere di guardarla, ipnotizzato. Lei non riusciva a smettere di puntarmi la pistola. Dolce Olivia. Sarei morto in pace, con un buco in fronte come terzo occhio per contemplarla ancora. Mi portò in giro per la città e quando sentì le sirene, accelerò facendo un sorpasso dopo l’altro. Rientrava in carreggiata a un millimetro dall’incidente, dal muso dell’utilitaria sul senso di marcia opposto. Una maga al volante, Olivia Wilson. Mi chiese dove abitavo. Esitai un momento prima di rispondere, poi le dettai l’indirizzo. Incespicai sul civico. Si fermò sotto casa mia, mi salutò con un bacio e un morso sulla spalla e abbassò la pistola appena prima che io scendessi dall’auto.
Passai tutta la giornata e anche quella seguente come ubriaco. Mi perdevo nel vuoto, mi distraevo di continuo. In ufficio non riuscivo a concentrarmi e chiedevo di ripetere almeno cinque volte nel corso di una conversazione lunga. A differenza del mio solito, non ero molto loquace. Ero stranito, come intrappolato in un sogno sbagliato. Volevo ritornare lì, da lei; da Olivia Wilson. Rimediai con un buono in libreria per il compleanno di mia sorella, lei ne fu contenta. Non le raccontai dell’accaduto. Non lo raccontai a nessuno. Camminavo per la città, portando a spasso il cane, e la cercavo in tutti i volti, in tutte le strade mi figuravo la sua Mustang GT nera.
Vivevo da solo in un monolocale. Quel giorno rientrando trovai la mia sola finestra blindata da un ponteggio: lavori in corso, murato vivo da ogni visuale esterna. Chiesi al muratore che passava lo stucco sulla facciata del palazzo quanto sarebbero durati. Fece spallucce. Il tempo non esiste. Forse era così da sempre e non me n’ero accorto. Forse mi ero scordato del mondo fuori senza nemmeno saperlo. Così vivevo a parte. Ero separato da tutto, del tutto. Da quando avevo incontrato Olivia Wilson lo squarcio si era fatto più grande, più profondo. Quando andai in bagno per lavarmi le mani, notai che lo specchio era andato in frantumi, senza però perdere il riflesso, che non mancava di tormentarmi, ovunque, dal giorno della rapina. E pensavo e pensavo a Olivia Wilson e a come rincontrarla e dove: dove?
Olivia…
Tutto quel sole. Camminavo per la città come in un deserto di luce, armato di una lanterna che non serviva a nulla in quel bagno luminescente: neon, schermi, colori, forme, multicolore, a ciecare ogni prospettiva; ogni visione di complessità. Mi ritrovai a desiderare il buio per ritrovarmi nel chiaroscuro dei contrasti. Cercavo riparo in un pertugio umido, al fresco, e lo trovai quasi al tramonto in un bar senza insegna dalle parti del molo, scostando una porta di legno scassata e mangiucchiata dai tarli. Un bar in penombra: il proprietario muto nello sguardo, cieco a parole. Ordinai del vino per schiarirmi le idee, o per confonderle meglio, e mentre mi reggevo al bicchiere come al baricentro dell’universo, notai in un cantuccio più buio che c’era anche lui, come al solito imboscato, sempre di sfuggita. Mi aveva lasciato la sua impronta di vuoto, svuotandomi, e non riuscivo a scrollarmela di dosso. La musica era dozzinale, martellante nelle casse. Lui era incollato alla sua birra smunta, con il capo chino e il volto per metà in ombra. Alzai una mano per cercare la sua attenzione, ma non mi vide. Azzardai un saluto a voce, di qualche tono sopra le solite note. Nessuna risposta. Troppa musica. Distolsi lo sguardo da lui, prendendo il filo di un pensiero e perdendo la matassa, e quando tornai a guardarlo non c’era più. Sparito. Mi aveva inquinato ormai. Non c’era verso. Presi posto al suo cantuccio, al tavolinetto umido di birra, e portai il vino smorto con me. Il mio volto si confondeva con il suo nelle lame d’ombra degli angoli storti, quasi a mescolarsi. Lì notai il gatto di Olivia Wilson che si lavava a piccoli colpi di lingua. Mi alzai in piedi e gli feci qualche carezza per farmi guidare, tra le fusa. Il gatto di Olivia Wilson, con il suo pelo di buio e gli occhi diafani, si lanciò a zampate rapide verso il seminterrato del bar e io lo seguii, abbandonando il vino e l’immagine di lui (io) (noi), per le scale cigolanti, nel vuoto dei gradini, per raggiungere una sala da concerto dopo una discesa infinita.
Non c’era più la musica del bar come fosse evaporata di colpo, tra uno scalino e l’altro. Il pubblico era immobile come un esercito di statue. Sul palco c’era Olivia Wilson che suonava il violino e cantava con una voce ipnotica, una melodia distorta che dissociava il corpo e la mente. Di nero sempre, bella più che mai. Persi il senso del tempo, come se il tempo avesse un senso; unico. Cullato da quell’ipnosi collettiva in musica, aspettai la fine del concerto in un limbo, sospeso. Attesi che il pubblico di statue si disgregasse come polvere di gesso e imboccai la scaletta che portava ai camerini.
Pronunciai il suo nome. Quando si voltò non era sorpresa di vedermi. Mi avvicinai a lei con tutta la brama di amarla, ma l’impronta dell’altro (lui) mi spegneva ogni desiderio. Olivia mi sorrise estatica come una santa apocrifa, con estrema grazia, e mi disse che non ero lì per quello. Ma come? Ogni illusione domata dal tempo. E cosa allora? Che senso aveva tutto? Mi disse che c’era qualcosa di importante che dovevo fare. Cosa Olivia? Cosa devo fare?
Ucciderlo: lui, l’altro, (tu).
Diedi un’ultima carezza al gatto di Olivia Wilson prima di andarmene e di dirle addio per sempre. Addio, dolce Olivia Wilson.
Tornai a casa perché sapevo che non l’avrei trovato. Dovevo pareggiare, dare sostanza alla mia ritorsione. La sua impronta mi stava spogliando di ogni forza. Feci i gradini a due a due boccheggiando, con i polmoni scarichi.
Bussai.
Poi ancora, più forte.
Rispose soltanto il vuoto dell’androne, il suo eco. Non c’era, come avevo previsto. Così fu proprio lui ad aprirmi. Gli tremava il viso, quel viso smunto e maligno. Lo uccisi per quel viso, per liberarmene. Era stato incauto. Se si fosse trovato a casa non mi avrebbe aperto o mi avrebbe buttato giù dalle scale. Mi avrebbe salvato comunque.
Non lo avrei (non mi sarei) accoltellato.
Dopo aver finito, con la lama di sangue di un nuovo parto, uscii in terrazza per fumare e vidi un mondo nuovo dispiegarsi davanti ai miei occhi. Mi colpì un raggio di luce e mi scoprii irrorato d’amore e con me tutti: fragole macerate al sole.
