Sui rapporti tra Gramsci e Togliatti
di Alessio Barettini

Francesca Chiarotto in Egemonia in movimento – tra Gramsci e Togliatti, (Mimesis, 2024, euro 15), mette in luce agilmente e approfonditamente i rapporti fra i due più grandi rappresentanti del PCI del ‘900, suggerendo una lettura che, attraverso alcuni episodi chiave delle loro storie e mettendo in luce la linea di continuità esistente fra i due grandi ideologi del comunismo, nonché grazie a un corposo apparato storiografico, riveli questa relazione abbattendo ciò che più volte è stato messo in dubbio, ieri come oggi, nel tentativo goffo e pericoloso di riscrivere la storia per fini specifici.
La storica gramsciana illustra il suo ragionamento attraverso sei capitoli che vogliono portare a ragionare sulle implicazioni di questa vicinanza all’interno del problema del lascito di Gramsci e della storia del Partito Comunista Italiano, specificamente negli anni del dopoguerra, con particolare attenzione al ruolo degli intellettuali italiani.
Il punto di partenza, il nodo essenziale da cui prende forma questo libro, è quello dell’eredità gramsciana e del ruolo di Togliatti, che, sin dai tempi iniziali della storia delle varie pubblicazioni gramsciane, è stato accusato di aver tradito il fondatore del Partito Comunista, tendenza fattasi ancora più marcata a partire dal 1991. La studiosa si rifà a due lettere in particolare. La prima, del 1926, relativa alla discussione intorno alla posizione ufficiale da tenere davanti alla divisione nel PCUS fra Stalin e i suoi oppositori, Trockij su tutti. Qui Gramsci prendeva nettamente le distanze dal partito sovietico e Togliatti ne fermava l’invio, come rappresentante dello stesso organismo che rappresentava lo stesso Gramsci, per ragioni diplomatiche, politiche, strategiche. Non per una ragione personale, quindi, come fu detto a più riprese, ma una differenza di punti di vista, un dissenso. La seconda lettera è del 1928, e fu inviata da Ruggero Grieco ai dirigenti del Partito. «scritta peraltro con toni piuttosto “lievi” e disinvolti, conteneva informazioni sullo scontro politico Stalin-Trockij, e sulla situazione politica internazionale.» La lettera aveva reso Gramsci, allora già in carcere, più diffidente nei confronti dei compagni di partito, e fu via via definita “leggera” (Spriano) e addirittura falsa (Canfora), ma soprattutto fu usata in senso antitogliattiano per dare adito all’idea che Togliatti avrebbe voluto sabotare la sua liberazione, tesi che ha trovato spazio anche in tempi recenti, nel 2012, quando il premio Viareggio è stato vinto da Franco Lo Piparo, con un libro che mira ad appropriarsi di Gramsci al di fuori del suo legame con il comunismo.
Del resto qualunque tentativo di screditare in chiave populista un certo tipo di personaggi storici, non fa i conti, come fa giustamente osservare l’autrice, con l’idea blochiana di storia che qui si rivela lasciando ampio spazio a tutti i passaggi storici che hanno determinato l’andamento dell’eredità gramsciana. Così, il secondo e il terzo capitolo si fermano a raccontare la storia dei Quaderni, ovvero in che modo essi sono stati portati fuori dal carcere, salvati prima e poi resi noti, e il Premio Viareggio del 1946, quindi nel primissimo dopoguerra, attribuito agli stessi quaderni gramsciani, decisione che, se da un lato contribuì alla diffusione ulteriore dell’opera di Gramsci, dall’altro accese ancor di più le temperie di una guerra fredda che, culturalmente, cominciava allora a definirsi in campi netti. In entrambi i casi Togliatti ha un ruolo non secondario, anche se ugualmente mistificato da più parti, sulle quali Chiarotto fa luce, affermando del resto «Era chiaro che nelle pesanti polemiche sul Premio, affiorava il clima politico che fin dall’inizio dell’anno si stava surriscaldando (…) Gli ambienti conservatori, laici e cattolici, premevano per una rottura dell’unità antifascista e per una esclusione delle sinistre dal governo del Paese, mentre cominciavano vere e proprie persecuzioni, licenziamenti, processi nei confronti dei partigiani», anche se «la stragrande maggioranza degli scrittori e dei critici italiani espresse un giudizio largamente favorevole all’assegnazione del Premio».
Togliatti ha indubbiamente avuto un ruolo centrale nella diffusione del pensiero di Gramsci, operazione rientrata in quella più ampia della costruzione di un partito moderno, di massa, che tenesse conto tanto della dottrina marxista quanto della situazione politica attuale, nell’idea che un partito marxista avrebbe dovuto disporre di una politica culturale che tenesse conto della crescita dei gruppi sociali mai abituati prima alla lettura, e gli intellettuali, a cui Togliatti stesso chiese maggiore attenzione per lo studio del marxismo e le sue applicazioni.
Nella seconda parte del libro Chiarotto pone l’accento sul concetto che dà il titolo il libro, ovvero i modo con cui Togliatti ha costruito il PCI negli anni della Repubblica, già ampiamente teorizzato come “democrazia progressiva”, per l’ottenimento della quale fu fondamentale il rapporto con gli intelettuali, necessari alla formazione della coscienza di classe (capitoli 4 e 5). La scelta si appoggia proprio sul pensiero di Gramsci, necessario per dare credito a un partito altrimenti sospeso fra le contraddizioni delle democrazie occidentali e la guerra fredda, e ancor più durante il periodo controverso che ruota intorno al 1956, nell’ultimo capitolo, quando, per non perdere elettorato e fiducia Togliatti si appoggiò molto a nuove strutture associative di riferimento al Partito, oltreché ancora una volta agli intellettuali dell’epoca e all’eredità di cui si è detto.
Il 1956 (così come la destalinizzazione) fu un anno complesso per la storia del PCI, e più in generale di tutto ciò che può essere accomunato nella sfera dell’antifascismo. In quel periodo le scissioni, le discussioni, com’è noto, furono molte. L’idea di un partito unico, con un’ideologia ortodossa, vacillava enormemente. Egemonia in movimento mostra perciò un paradosso. Il concetto di pensiero unico, di egemonia culturale, spesso usato come atto di accusa contro gli ideologi e gli intellettuali della sinistra, è diventato il tratto distintivo della destra, ormai abituata a tenersi stretti baluardi dei quali spesso non conosce neppure le basi. D’altra parte una costante discussione animata dalla molteplicità dei punti di vista, in mancanza di una “verità unica”, è proprio ciò che oggi andrebbe auspicato, conclude l’autrice, «in chiave autocritica», come antidoto contro certa leggerezza culturale, un approccio marxista alla storia che oggi tendiamo a sottovalutare, nell’interrogarci su spazi culturali di costruzione attiva in un mondo omologato, liquido e complesso come il nostro.
