Definiamo “bambino”?
di Alberto Costa
Martedì 16 settembre è andato in onda un accesissimo scontro tra Enzo Iacchetti e il presidente della Federazione Amici di Israele Eyal Mizrahi durante il talk show settimanale Cartabianca. Dinanzi a quello che poteva sembrare un banale copione visto ormai mille volte, è però emersa una dimensione eccezionale e terribile del dibattito. A colpirmi è stata non tanto la reazione naïve di Iacchetti – che, non lo nascondo, è stata una boccata d’aria fresca in questo circo di burocrati della comunicazione, dell’incasso e del massacro –, quanto piuttosto la dimensione così sfacciata e pretestuosa dell’argomentare del suo interlocutore. Iacchetti, infatti, pur cercando di trattenere l’emozione e la furia che gli annodavano le parole, tentava di distinguere una dinamica di guerra che si compie tra due eserciti dalla violenza messa in atto da un esercito contro donne e bambini: “…anche i bambini? Avevano il kalashnikov i bambini?” ha gridato infine Iacchetti e Mizrahi lo ha incalzato: “definisci bambino!” Di qui la reazione di Iacchetti che molti hanno visto.
Dunque, se anche volessimo dire che la frase gli è uscita male, che Mizrahi voleva soltanto vincere la contesa e così via, non credo sia eccessivo dire che questa è una frase da cui è difficile tornare indietro e che forse segna lo spirito dei tempi, al di là delle intenzioni di chi l’ha pronunciata. Fermiamoci a riflettere.
L’orizzonte aperto da una richiesta del genere è talmente fosco che si è tentati di considerare quanto udito come l’ennesimo rumore emesso dalla tv, come un ulteriore ronzio che domani sarà fortunatamente dimenticato. Dinanzi a questa richiesta di definizione, invece, sono stato immediatamente risucchiato dalla libreria del mio soggiorno e mi sono messo a sfogliare nuovamente i volumi francofortesi riguardanti il regresso della ragione e la dimensione della vita offesa, come Dialettica dell’Illuminismo e Minima Moralia. Viene la tentazione di imitare Horkheimer e Adorno e cercare di comprendere una frase così terribilmente unheimlich.
Il suo carattere così estraneo, ma intimamente perturbante per un qualsiasi lettore anche occasionale di un libro di filosofia, credo derivi da una similarità. La richiesta “definisci bambino” ricalca infatti la forma della classica domanda socratica “ti esti” o della sua traduzione latina “quid est”. Certo, la reazione filosofica contro la richiesta di definizione ridotta a procedura capziosa è vecchia come la filosofia stessa. Torna qui in mente la pratica venatoria di Socrate nei confronti del sofista nell’omonimo dialogo di Platone, assieme all’esito così problematico e mille volte ridiscusso di quello stesso dialogo. In fondo, il filosofo e il sofista non possono che eternamente trovarsi legati assieme, l’uno come immagine perturbante dell’altro, in una caccia e in una lotta mai concluse. Di fronte alla richiesta “definisci bambino” ci si può di conseguenza sentir chiamare in causa, come un contemporaneo attore chiamato a interpretare la propria parte in questa eterna rappresentazione teatrale.
La mente rumina e, mi scuso per la banalità, ma non ho potuto non pensare che a Gaza e in Cisgiordania si stia palesando un altro vecchio motivo della nostra tradizione, ossia l’ennesima espressione del cuore di tenebra del sistema occidentale-europeo, che ancora una volta presenta le proprie specialità. Per citare solo le principali: occupazione militare territoriale, massacro di popolazioni inermi, delirio del businessman della ricostruzione futura e sadismo attuale del businessman dell’apparato industriale bellico. Forse esagero, ma mi sembra che nell’uscita di Mizrahi si lascino intravvedere, come in una sozza metonimia, i modi di funzionamento dell’attuale sistema produttivo e delle sue articolazioni nel sistema di governance, oltre che nel sistema mediatico. Dinnanzi alle violenze israeliane non possiamo non pensare a quanto dice Conrad, quando mette in bocca a Marlow il rilievo: “tutta l’Europa aveva contribuito a formare Kurtz”[1].
Quello che però non vorrei andasse perduto di questa tremenda uscita del presidente della Federazione Amici di Israele è l’occasione di una reazione razionale. Davanti alla sozzeria rappresentata da questa richiesta di definizione credo sia possibile rimettere al proprio posto il “quid est” (“che cos’è?”) assieme al fratello “cur est” (“perché è così?”). Voglio dire che questo è più che in altri tempi il momento di mettersi a pensare, di riattivare il nesso tra pensiero e prassi e di non farsi meramente investire dall’angoscia trasmessa da quella frase. Allo stesso modo in cui Marlow tenta un bilancio dopo le ultime terribili parole di Kurtz (“l’orrore! l’orrore!”[2]), credo sia necessario per lo meno iniziare a sviluppare non certo un bilancio, ma almeno un’interrogazione.
Comincerei col chiedermi, forse elaborando in più forme la stessa domanda: a) perché ora, rispetto per esempio a dieci anni fa, il dibattito pubblico e la comunicazione delle classi dirigenti occidentali (siano queste capitalistico-finanziarie o legate alle strutture tradizionali della politica) non solo ammettono, ma sembrano costretti dai fatti a utilizzare toni sempre più violenti e inumani? b) Perché proprio ora Israele mostra il suo volto più sanguinario e (anche retroattivamente) si permette di rompere il velo che storicamente ha coperto la sua natura coloniale? c) Perché ora sono la sconcezza e la mancanza (almeno apparente) di buon senso a giustificare e supportare con efficacia il sistema di governance, assieme alla dinamica di accumulazione dell’apparato produttivo in cui siamo immersi? d) A che fine e per scongiurare quale alternativa la violenza e la falsità ora governano, travolgendo qualsiasi vecchia ipocrisia assieme a qualsiasi sede e procedura di mediazione in uso fino a poco tempo fa?
Sia chiaro, non cerco risposte facili del tipo “Trump e Netanyahu sono fascisti”, “i principali partiti di opposizione hanno storicamente agito allo stesso modo”, “vogliono solo più potenza” ecc. Queste sono risposte epidermiche e banali. Riassumendo, direi che il nocciolo dell’interrogazione riguarda piuttosto il motivo per cui questo modo di governare e questa modalità di accumulazione di risorse si impongono proprio ora e in questa specifica modalità. La domanda si evolve inoltre in quella riguardante quale sia il fine e contro quali soggetti queste stesse strategie di comando si dimostrano essere le più efficaci, almeno al momento. Rispondere a queste domande che dal piano morale si spostano su quello del disvelamento tattico e del realismo politico, credo sia urgente.
Infine, nel farmi queste domande non posso non provare anche la vergogna di chi si trova a vivere in pace (almeno al momento) e si sente di poter fare molto poco per tutti coloro che stanno soffrendo in Palestina oggi, così come soffrivano ieri, allo stesso modo in cui si viene a soffrire in decine di altri luoghi al Mondo. Assieme al senso di impotenza però non posso ignorare anche il richiamo che in questo momento storico di tragedia e di pericolo ci può venire da queste righe di Walter Benjamin: “in ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”[3].
Queste righe ci possono suggerire che forse dobbiamo prendere sul serio Eyal Mizrahi: bisogna strappare al conformismo i giudizi, le calunnie, quelli che sinora sono i punti fermi del dominio e impegnarci, teoricamente e praticamente, per definire e dar ragione di che cosa sia un bambino, di descrivere cioè che cosa sia oggi una vittima. Cercare di definire nuovamente chi sia oggetto di violenza e di sfruttamento al giorno d’oggi, di delineare quali siano i limiti, di scoprire come dar voce al soggetto contro cui si scaricano oggi tanti sforzi di dominio e tanto livore e, su questa base, dar ragione delle sofferenze di chi patisce e muore, oggi come ieri. Insomma, reagire, perché, anche se una resistenza democratica e non oscurantista si intravede, il nemico non ha smesso di vincere.
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[1] J. Conrad, Cuore di tenebra, ed. Einaudi, Torino 2016, p. 77.
[2] ivi, p. 108 e ss.
[3] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, n° VI, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 2014, p. 78.
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Immagine: Otto Dix, der Krieg
