Ampi margini

Elisabetta Bucciarelli intervista Gianni Montieri

 

E.B. Gianni Montieri, che lavoro fai?

G.M. Mi occupo di scartoffie, anche per dimenticarmene scrivo.

Milano e le sue architetture. Come entrano nella tua poesia?

Milano non solo entra nella mia poesia, la scrive. Se a un certo punto della mia vita non mi fossi trasferito a Milano – dove poi ho vissuto quasi venticinque anni – probabilmente non avrei scritto un solo verso, non avrei trovato il coraggio, o chissà. Mi sono convinto, anno dopo anno, che quella città con tutto ciò che rappresenta, con le sue contraddizioni, con la dolcezza e contemporanea riservatezza con cui mi ha accolto, mi abbia liberato. Ci sono arrivato nel 1996 e avevo bisogno di confondermi in mezzo agli altri, di perdermi, e poi avvertivo la necessità di attraversare un luogo nuovo e ho scelto Milano, anzi ci siamo scelti e, credo, ci vorremo bene per sempre, anche se adesso vivo altrove. L’architettura di Milano contribuisce alla visione e alla costruzione di qualunque testo, partecipa ai tuoi stati d’animo, li condiziona. La periferia mi ha insegnato a osservare: i viali che vanno verso l’esterno, le vie piccole, le case di ringhiera, i vecchi cortili. Camminando continuamente, con i libri dei poeti amati sottobraccio, ho sentito anche le storie del passato, mi è sempre parso che ogni pietra mi volesse dire qualcosa, così è stato. Allo stesso tempo Milano è la città del nuovo, dei grattacieli, delle vetrate; un’evoluzione del paesaggio che amo meno ma che insegna – in ogni caso – e ti fa vedere cosa può fare uno squarcio di sole improvviso sulle vetrate di un palazzo di piazza Gae Aulenti, mentre stai facendo a piedi il ponte sopra la ferrovia in direzione Via Farini. Poi ci sono i tram, le circonvallazioni, la 90, la 91, la stazione di Greco, le trattorie di Affori, la Martesana. Tutto questo insieme entra nella poesia come tutte le cose che mi riguardano, da cui ho imparato. Mi hanno insegnato più cose le persone sul 29 e il 30 (tram che non ci sono più), sul 2, sul 14 che i libri che ho letto. Siamo fatti di ogni luogo in cui abbiamo vissuto, che abbiamo attraversato, questo entra naturalmente in ogni cosa che scrivo, è la mia essenza.

Cosa guardi di una persona e cosa di un edificio?

Di una persona forse per prima cosa come si muove, e subito dopo gli occhi, negli ultimi due anni poi gli occhi sono diventata l’unica parte del volto che ci è rimasta da guardare. Abitando da più di tre anni a Venezia mi rendo conto di aver mutato il modo di osservare la gente, facendo tutto a piedi la visuale cambia rispetto, per esempio, a chi si incontra in metropolitana. Qui tutti camminano e hanno una modalità diversa di occupare lo spazio, di stare nel paesaggio. Di un edificio, guardo le finestre: alte, basse, aperte, chiuse, dove sono esposte, se sono di una casa nuova, vecchia. Hanno le tapparelle, non le hanno, hanno le tende, chi si affaccia, chi si è affacciato, chi si affaccerà. Mi commuovo se da una finestra vedo sporgersi un’anziana, o se passo davanti a una casa abbandonata, con le sue finestre rotte, le sue travi marcite e fuori posto.

E di una partita di calcio?

Guardo quello che immaginano i fuoriclasse, cerco di prevedere lo sviluppo di un’azione e mi dico cose come: ecco lo spazio (è sempre una questione di spazio), ecco che lo ha trovato, ecco che ora gliela mette rasoterra. Guardo contemporaneamente i miei sogni e le mie speranze e riconduco ogni possibile sviluppo del gioco all’infanzia, non è un ragionamento, è l’inconscio, credo.

La poesia e i social. Cosa ne pensi?

I social sono un campo aperto, molto vasto, ci si può fare un po’ tutto anche promuovere o tentare di diffondere poesia. Non mi piacciono le istantanee, le poesie scritte proprio per i social, corredate da foto insulse, non sono poesie e sviliscono e mi intristiscono. Così come non mi convince chi posta una poesia di Montale (per esempio) senza sapere in che libro si trovi, ma semplicemente seguendo il meccanismo del copia e incolla (o condividi) a ripetizione.

A volte mi sembra che i social svelino troppo, anticipino i temi dei libri, gonfino l’ego di chi scrive. Come stai in equilibrio tra la pagina scritta e la tua vita esposta?

Tutto ciò che scrivi è vero, succede e credo sia inevitabile, ci caschiamo prima o poi tutti. La pagina scritta è una cosa importante, seria, che viene dal lavoro, dalla passione; la vita esposta sui social la decidi tu, se – per esempio – stabilisci di postare dieci foto di una vacanza non stai raccontando la tua vacanza, non l’intimità di quel viaggio, scegli di mostrare qualcosa per condividere un attimo di gioia, ma almeno il novanta per cento resta privato, almeno per me è così. Oppure, quando quasi tutti i giorni metto una foto di Venezia al mattino condivido un istante ma lo faccio perché mi piace mostrare il tempo che scorre attraverso la luce che su questo capolavoro di città cambia ora dopo ora.

In Ampi margini sono presenti i tuoi legami familiari. Tuo padre soprattutto, ma non solo. La famiglia può essere qualcosa di poetico?

La famiglia – come tutte le cose – è potenzialmente poetica, nel senso che le cose che viviamo ogni giorno entrano, inevitabilmente, direttamente o indirettamente, in ciò che scriviamo. Ci condizionano i fatti, quelli minimi e quelli che interessano tutto il pianeta. In Ampi margini la famiglia è presente così come il passato, la memoria, ma c’è anche per il modo in cui le origini, certe scelte, mancanze, nostalgie hanno indirizzato il futuro. Mio padre, un amico, un oggetto, fare la spesa, un libro amato, una bomba che cade a diecimila chilometri, una fotografia, una partita di calcio, il sorriso di una nonna, la torre di via Adriano che viene buttata giù, mia moglie che torna a casa, il sole che taglia per un istante sopra Calle della Mandola, il fatto che si invecchi, le cose che cambiano, tutto questo – contemporaneamente, insieme a chissà quanto altro di cui nemmeno mi accorgo – entra nelle poesie, sì, è qualcosa di poetico. E la poesia accelera, unisce i punti, trova le incongruenze, il giorno fuori posto, non dà mai risposte.

Le tue poesie si capiscono, a volte chiariscono i nostri passaggi esistenziali oscuri. Cos’altro vorresti che facessero per le tue lettrici e i tuoi lettori?

Se davvero chiariscono i passaggi esistenziali oscuri di chi legge sono già parecchio fortunato. Io credo che le poesie conservino sempre un margine di incomprensibilità, un lembo dentro il quale il lettore possa aggiungere il proprio immaginario o ritrovare – anche solo per un istante – qualcosa di sé. Qualche tempo fa un ragazzino, durante un laboratorio, mi ha chiesto a cosa servisse tutto quello spazio intorno alle parole. Ho risposto (non immediatamente): a respirare, a riempirlo con quello che i versi fanno affiorare, a immaginare. Tutto ciò accade se la poesia funziona, io spero che funzioni, penso sempre che non si scriva da soli, c’è un noi che ci ha portati a scrivere e un noi che ci leggerà. Mi è capitato di sentirmi dire cose come “Ho letto questa poesia e ho pensato a…” e che si trattasse di un aspetto che non avevo considerato. D’altra parte, quello che ho pensato io non lo ricordo, e forse non l’ho mai pensato per davvero.

Potendo scegliere di avere due lettori ideali, che nomi faresti?

In Al tavolo del cappellaio matto (Archinto, trad. Rizzato e Cavallero) lo scrittore Alberto Manguel fa un gioco dando una lunghissima serie di definizioni del lettore ideale, le mie preferite sono: “Il lettore ideale legge tutta la letteratura come se fosse anonima” “Il lettore ideale sa quel che lo scrittore intuisce soltanto” “Il lettore ideale non esaurisce mai la geografia di un libro”, in una vecchia intervista chiesi a Luigi Bernardi quale fosse il suo lettore ideale, mi rispose che preferiva non averne per non dipendere da lui. Forse Luigi (come accadeva spesso) aveva ragione, forse perché mi manca ti dico che il mio lettore ideale sarebbe lui: oggettivo, distante, preciso, rompicoglioni.

Tre libri di poesia che potrebbero cambiarci, se non la vita, almeno qualche istante di una giornata.

È molto difficile per me immaginarne solo tre, diciamo che questi tre sono quelli che stanno con me da molti anni e sono quelli a cui torno più spesso: La ragazza Carla di Elio Pagliarani; Barlumi di storia di Giovanni Raboni; Somiglianze di Milo De Angelis. Sono tre libri che conservano ancora dei margini nei quali entrare, degli spazi dentro i quali immaginare.

In questo libro c’è qualcosa che assomiglia alla prosa, al racconto. Ti servivano più parole per dire?

In Ampi margini ci sono due gruppi di prose brevi che hanno però origini diverse. Le sei prose di Sei variazioni sul pifferaio magico sono alternate a sei poesie tradizionali. In quel caso mi è piaciuto che le poesie facessero quello di solito fanno le prose, qui sono i versi che spiegano la prosa che li precede, sono i versi che puntualizzano, sono i versi che dicono addio. L’altro gruppo di prose Quando imparammo a tremare è nato qualche anno fa in forma narrativa abbastanza tradizionale, quando è stato il tempo di immaginarle in un libro ho lavorato per sottrazione e scomposizione, togliendo, assecondando il ritmo pensato in origine, variando però i termini, la punteggiatura. Mi sembrava che la prosa agevolasse l’idea che avevo di fotografie in movimento, perché si trattava di terremoto e si muoveva tutto, correvamo – noi bambini – e restavamo sul posto, si muoveva il pavimento del cortile, mi piacerebbe che le lettrici e i lettori trovassero quella sensazione e rimanessero tra le pagine per il tempo necessario.

In una tua poesia scrivi:  Tutti i giorni mi chiedo / Se sarò un brav’uomo (…) Sei un brav’uomo? Lo sei stato? Lo sarai?

Non credo di esserlo stato, non lo sono, non fino in fondo. Sono certo di non essere una cattiva persona, cerco di non fare del male, ma non credo basti per dirsi brav’uomo, mio nonno è stato un brav’uomo, era generoso, ma chissà adesso dov’è.

Abbiamo scelto quattro poesie che rappresentano bene il tuo mondo immaginifico. Puoi raccontarci dov’eri quando le hai scritte?

La poesia che parla delle case vuote l’ho scritta a Venezia, è una delle più recenti del libro, arriva dalla suggestione di alcune case abbandonate non troppo distanti da quella di mia mamma e dalla lettura di un saggio molto bello di Thomas Belmonte, La fontana rotta (Einaudi, trad. D. Petruccioli). Belmonte è stato un antropologo che a metà degli anni Settanta passò un lungo periodo a Napoli, vivendo insieme alle famiglie povere per raccontarle, ma lo scienziato se ne innamorò scrivendo un testo che va oltre l’antropologia. La seconda l’ho scritta la Vigilia di Natale scorso, al cimitero dando la schiena alla tomba dove è sepolto mio padre, è molto in alto, e il panorama si perde a vista d’occhio, così come i ricordi, e chissà che altro ancora. Tutti i testi del capitolo Sud in caso di morte sono stati scritti dodici o tredici anni fa, in un lasso di tempo molto stretto, e sono stati scritti a Milano, forse avevo bisogno di guardare al sud e a certi anni da molto lontano.

Fossero di piombo fuso le case vuote

– abbandonate quasi mai per scelta ­–

o di materiali sconosciuti, fragilissimi

le ameremmo comunque, le pareti

vibrano: hanno assorbito gli anni

le storie di ogni famiglia povera

di ogni appiccicata, alluccata

ancora tremano i tavoli per il peso

di un pugno sbattuto, vibrano

le sedie senza paglia, si muovono

le ombre sui muri, si allungano

sul pavimento, escono sul balcone.

 

***

 

Adesso mi piace venire al cimitero

da te, mettermi di spalle alla tomba

guardare quello che tu vedi

distese di lapidi e di cappelle

squarci di strade che si intersecano

i tralicci dell’Enel, più avanti

sullo sfondo dev’essere la casa

di zio Antonio, due curve dell’Asse

Mediano se mi volto a destra

il vento di dicembre sulla sciarpa blu

stai al terzo piano e devono piacerti

i cavalli in basso oltre la strada

a sinistra la collina, forse i Camaldoli

tu vedi di più, io lo so che il tuo sguardo

arriva fino alla costa, taglia in due

la Domitiana, si spinge e tiene

insieme tutti i nostri passati.

***

Morivano più lentamente

quelli col giornale dal barbiere

come se la lettura, il commento

a un fatto, li allontanasse

ma mai di troppo dalla bara.

***

Scrivere di una madre

farlo in una sera di febbraio

riporre, seguendo uno schema

i piatti asciutti in credenza

poi i bicchieri, le tazze

nel mobile più in alto.

La somma delle rinunce di una madre

di seguito la teoria del sottrarsi:

meno cose – meno vestiti – meno me

applicazione scientifica del dare:

più sacrificio – più amore – più esserci.

Dopocena faccio cose del genere

quando sto in casa e non esco

non guardo la tele e nemmeno scrivo

sarebbe facile spiegarti il bene che mi fai

più facile con la neve fuori

invece mi accomodo in poltrona

controllo la posta e non ti chiamo.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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