L’ultima Thule

di Romano A. Fiocchi

 

Rubes ha terminato il suo racconto. Sembra sfinito. Accanto a lui, appoggiata alla sponda del letto, le braccia bianche, ecco la Serenissima. Le vesti, fluttuanti, sembrano carta velina. Solleva il piccolo scettro di corallo rosso. La sua voce asessuata attraversa la suite con note metalliche.

Anno 2070 dell’era della civiltà occidentale, 1448 dell’era musulmana, 1786 dell’era copta, 5830 dalla creazione ebraica del mondo, data giuliana: 2477159,74197. Questo è il termine che avevano prefissato per collocare nel tempo la mia definitiva cancellazione dalle carte geografiche. Evento burocratico che non ha avuto luogo per la mancata manifestazione del corrispondente evento fisico, erroneamente calcolato. Insomma non fui – come dicevano gli esperti – inghiottita dalle acque della laguna. Tutto qui. La mia, quella che sentite, è una voce autentica e non “una voce registrata dall’atmosfera, una sorta di eco rimasta in sospensione come le particelle d’acqua di un arcobaleno”. Il 16 agosto 1993, in occasione dell’apertura del negoziato sul clima, il Fondo Mondiale per la Natura presentò a Ginevra un rapporto che preannunciava le catastrofiche condizioni in cui prima o poi avrei versato. L’associazione aveva fondato le sue previsioni sulla seguente premessa: era scientificamente – leggi: statisticamente – provato che nel Ventesimo secolo la temperatura media del pianeta aveva subìto un aumento di almeno mezzo grado centigrado e i gas industriali, quelli che provocavano il surriscaldamento dell’atmosfera, erano stati prodotti in quantità via via crescente. Se le emissioni fossero continuate a quel ritmo, l’atmosfera sarebbe andata incontro ad un surriscaldamento di zero virgola tre gradi ogni decennio e i mari, sciogliendosi i ghiacciai, a un innalzamento di circa sei centimetri. Il Mediterraneo in particolare avrebbe accresciuto il suo livello di sessantacinque centimetri entro l’anno 2070. Nella mia laguna il fenomeno sarebbe stato tre volte più marcato. Se a tutto questo si fosse aggiunto il mio sprofondamento naturale, cinque centimetri ogni dieci anni – con presumibile tendenza a un peggioramento galoppante – significa che per l’anno 2100 sarebbero emersi dalla laguna soltanto il campanile di San Marco e quello di poche altre chiese, con l’effetto pittoresco ma poco edificante del trecentesco campanile di Sant’Anna nel lago di Resia.

Non avevano previsto, tutti quegli esperti, che i calcoli e le statistiche non valevano nulla se applicati alla più inverosimile delle città. Infatti non solo non sprofondai – vivere sull’acqua è sempre stata la mia vocazione – ma vidi inghiottire il resto del mondo da un mälström di paurose proporzioni. Nessun abitante della terraferma cercò rifugio sulle mie centodiciassette isole, come fecero all’epoca dell’invasione longobarda, proprio perché si temeva che fossero le prime ad inabissarsi. I veneziani residenti mi abbandonarono per la stessa paura e cercarono scampo altrove, trovandovi invece la morte per annegamento. L’oceano globale si mangiò tutto. La Terra si fece una palla d’acqua, come una cisti sierosa e immonda. L’uomo fu punito per la sua stupidità. E io lì, ad assistere impotente, sola.

Proprio sola non ero. Se si potesse guardare nei miei ricordi, se mai potessi avere ricordi, vedrei una figura goffa, avvolta in un soprabitone grigio, ferma sul limitare di un binario tronco della stazione di Santa Lucia. È irrigidita in quella posa da non so quanto tempo e osserva l’infinita distesa delle acque. Ogni tanto scuote la testa. Al suo fianco c’è la Morte, tricorno nero, tabarraccio scuro, bautta e maschera bianca in volto. Di fronte a loro galleggia inerte, in un punto impreciso dell’oceano, il relitto di una gondola. Galleggia sopra non so quale terra sommersa e chissà quanta strada ha già percorso, alla deriva sopra i ruderi sparsi delle civiltà umane. Niente e nessuno a bordo. Non un fiore di plastica. Non un cuscino ricamato con arabeschi. Non una fisarmonica abbandonata. Non un remo. La gondola è nuda.

[…]

da Romano Augusto Fiocchi, Il tessitore del vento, 368 pagine, Ronzani, 2022.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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