[Il filologo classico traccia una breve storia del sacro fra ambiguità di termini e di ideali. D. P.]
di Daniele Ventre
C’è stato un tempo, remoto, quasi coevo delle stagioni circolari del mito, in cui dietro la fiaba degli dèi, protagonisti delle enigmatiche e spesso disinterpretate leggende al centro delle diverse tradizioni fondative, si celavano in realtà forze naturali e sociali che esulavano dal controllo “tecnico” dell’uomo, dal campo del fungibile, e si imponevano agli occhi dell’uomo stesso come manifestazioni della potenza della natura e della storia (cratofanie, per usare un termine caro a Mircea Eliade), e perciò venivano percepite, sul piano culturale, come espressioni fenomeniche di una realtà retrostante e numinosa, sacra (ierofanie). Entità dal recondito potere, dotate di intenzionalità, dunque vive, dunque dèi, erano i pianeti, che segnavano il passo alle stagioni, agli anni, ai secoli, alle ere (De Santillana); il divino agiva in ogni angolo dell’universo, a sancire e legittimare rapporti sociali e politici, rapporti di forza strutturanti la concreta realtà socioeconomica (Sebag, sulla scorta dell’antropologia marxiana); il linguaggio del mito, proprio di una cultura orale-aurale, formalizzava leggi cosmiche (come la precessione degli equinozi, ipostatizzata nella fiaba della ciclica, cataclismica distruzione del mondo per diluvio o conflagrazione) e interazioni politiche di vario genere (i rapporti fra gli ordinamenti delle città-stato e degli imperi, e la loro fondazione eroica), nell’unica maniera che in una cultura orale-aurale è possibile recepire: quella del racconto.