Morti da lavoro: crimini e porcate

di Stefano Palmisano

La notte scorsa il rosario di morte dei cosiddetti “infortuni” sul lavoro ha visto sgranare una nuova vittima sacrificale, Jan Zygmunt Paurowicz, 54 anni, polacco; stavolta, ancora, in quella specie di tempio satanico per gli esseri umani e per l’ambiente circostante che risponde al nome di stabilimento siderurgico Ilva di Taranto.

Ancora un dipendente dell’appalto, come gli ultimi due poveri sventurati che lo hanno preceduto quest’anno, vera e propria carne da macello immolata sull’altare di un’inarrestabile catena di montaggio a due linee parallele: profitti esorbitanti per l’azienda da una parte (878 milioni di utili nel solo 2007), morti e feriti per i lavoratori dall’altra (tre morti nel solo 2008, per l’appunto).

Ovviamente, anche tenendo conto della mattanza dei giorni scorsi su tutto il territorio nazionale, oggi la locuzione più ricorrente in chiave bipartisan è la solita: “basta, mai più” ecc… Durerà poco; solo per i canonici due – tre giorni di raglio.

Se mai, infatti, in capo a qualche anima bella, per quanto non estremamente perspicua, fossero residuati dubbi sulla reale volontà delle parti padronali, o quantomeno delle loro più alte rappresentanze di categoria, di rimuovere o almeno di provare a contrastare seriamente le cause più profonde del massacro quotidiano di loro dipendenti, l’articolo pubblicato sul Manifesto di venerdì 5 u.s., a firma di Sara Farolfi, spazza il terreno da ogni equivoco.

Vi si legge, infatti, di una “ipotesi di avviso comune sulla sicurezza” a firma di tutte, diconsi tutte, le sigle dei “sindacati dei padroni” (loro per definizione bipartisan), da Confindustria alla Lega delle cooperative, per sabotare, letteralmente, le parti più innovative ed incisive del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro.

Non tanto quella sulle sanzioni detentive, già per loro conto votate ad un sistematico autosabotaggio di fatto, stante la natura meramente contravvenzionale delle stesse che le rende, per l’appunto, quasi fatalmente destinate ad estinguersi per prescrizione, prim’ancora che desolantemente inadeguate nel merito rispetto all’entità dei valori in campo, ossia la vita e l’incolumità dei lavoratori e delle lavoratrici; ma alcune fondamentali previsioni precettive.

Tra queste c’è proprio la norma dell’art. 26 del Testo Unico che stabiliva (a questo punto l’imperfetto è quasi d’obbligo) l’obbligo per il datore di lavoro committente, nel caso di lavori affidati in appalto all’interno della propria azienda, di redigere il cosiddetto “documento di valutazione dei rischi da interferenza esterna”, i rischi, cioè, che derivano dalla presenza di imprese e di lavoratori diversi, anche molto diversi tra loro, nello stesso sito produttivo, con conseguente attribuzione di responsabilità allo stesso datore committente nel caso in cui quella valutazione dei rischi non fosse stata fatta sul serio, o non fosse stata fatta per niente.

E c’è (c’era?) un’altra importantissima previsione legale, sempre disposta all’art. 26 del T.U., ossia quella per cui “nei contratti di appalto o di subappalto e di somministrazione [….] devono essere specificamente indicati a pena di nullità ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile i costi relativi alla sicurezza del lavoro con particolare riferimento a quelli propri connessi allo specifico appalto”.

Ebbene, gli estensori dell’“avviso comune” pare non gradiscano particolarmente queste disposizioni; più precisamente, vogliono sbarazzarsene, liberarsi da questi ennesimi lacci e laccioli nei quali s’impigliano le ali benemerite dell’italica libera iniziativa economica individuale; quella mirabilmente rappresentata dalla presidente di Confidustria, Emma Marcegaglia, già capitana coraggiosa Cai, il cui gruppo industriale, pochi mesi fa, ha patteggiato una condanna per corruzione al Tribunale di Milano a proposito di una tangente pagata nel 2003 a un manager dell’Enipower in cambio di un appalto: pena pecuniaria 500 mila euro e 250 mila di confisca alla Marcegaglia Spa, pena pecuniaria di 500 mila euro e 5 milioni di confisca alla controllata NE Cct Spa, 11 mesi di reclusione patteggiati dal vicepresidente Antonio Marcegaglia (fratello di Emma). Il padre della presidente, invece, Steno, è stato condannato dal Tribunale di Brescia a 4 anni per la bancarotta Italcase-Bagaglino.

È questa quintessenza di imprenditori schumpeteriani che oggi pretende che quelle previsioni presunte giugulatorie per le imprese, per definizione libere e belle (le imprese, naturalmente), si applichino solo negli “appalti di una certa (sic!) consistenza, economica e temporale.

Così, secondo lorsignori e signorotti, si combattono le morti da lavoro: abbattendo, anzitutto, quelle norme che realmente sarebbero in grado di porre un argine alla strage quotidiana.

Magari credono che queste siano pessimistiche, ed oggi, com’è noto, il pessimismo è uno dei reati che genera maggiore allarme sociale. O, addirittura, che portino male, quasi una sorta di profezia che, alla fine, si autoavvera; dunque, esorcizzando le norme, essi credono, o vogliono far credere, che così si scongiurino anche le morti.

A volte, in presenza di una porcata, si dice, quasi per consolarsi: “è un elemento di chiarezza”.
L’“ipotesi di avviso comune” è indubbiamente un elemento di chiarezza; cionondimeno, o forse proprio per questo, resta un’indubitabile porcata.

Sarebbe bello, ma prim’ancora minimamente dignitoso, se qualcuno tra i partiti e i movimenti che una volta, in qualche modo, recavano nel loro statuto più volte le parole “lavoro” e “lavoratori”; tra gli intellettuali che una volta quelle parole le ripetevano come intercalare; oltreché, soprattutto, tra i sindacati i cui vertici non si intrattengono in incontri clandestini con il presidente del consiglio – operaio, cercasse un modo, uno solo, purché serio, per far sapere che non è dello stesso avviso.

Ma, soprattutto, sarebbe doveroso che lo facesse sapere chiunque ancora si riconosce in quella Carta, tanto nobile quanto svillaneggiata, il cui principio fondativo è quello che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Fasano, 12.xii.2008

“La tragicommedia della storia umana fa sì che si erigano monumenti celebrativi ai morti in guerra con i quali il potere che ha pianificato le guerre costruisce e alimenta un patriottismo che gli fa comodo, ma i detentori del potere non hanno mai fatto erigere monumenti a coloro che sono stati sacrificati sul lavoro per garantire e aumentare i loro profitti.” (R. Tomatis)

 

[Pubblico con ritardo questo pezzo (già apparso in forma ridotta su “La Repubblica” del 13 dicembre 2008, edizione di Bari) e me ne scuso con l’Autore. Tuttavia, non credo che ciò ne diminuisca l’attualità e la pertinenza. a. r.]

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7 Commenti

  1. la maggior parte delle grosse imprese fa lavorare all’interno dei cantieri piccole imprese in appalto… perchè? chi/cosa sono quelle piccole imprese che prendono lavoro in appalto?
    nella maggior parte dei casi, non sono altro che “società satellite” affidate a prestanomi e che fanno capo sempre alla grossa impresa che per ragioni fiscali “non può” assumere oltre un certo numero di operai.
    e questa è un’altra stortura del nostro sistema e paradiso fiscale dei “potenti”.
    Nei cantieri, periodicamente, ufficio del lavoro ed ispettorato del lavoro devono svolgere delle attività di monitoraggio e controllo che vanno dalla regolarità delle norme che regolano gli orari e le turnazioni di lavoro, al controllo delle norme sulla sicurezza (abbigliamento idoneo, impalcature a norma, impianti d’areazione, sistemi antincendio, uscite di sicurezza, …), ebbene mi chiedo cosa controllino i vari ispettori nei loro “annunciati” tour nei cantieri sparsi in Italia.
    Generalmente questi signori – impiegati statali – quando arrivano hanno un’ariata integerrima quasi arrogante, solitamente vanno via sorridenti e stringendo le mani a destra ed a manca.

  2. @ Natàlia,
    pensa tu che importante vittoria sulla mafia otterrebbe lo Stato italiano se decidesse di eliminare i sub-appalti. Ma non è che i “nostri” rappresentanti istituzionali non lo sappiano, che siano solo ingenui…
    Per quanto riguarda invece le misure di precauzione e sicurezza sul lavoro, c’è anche da considerare la stessa resistenza dei lavoratori ad indossare, ad esempio, caschi, guanti e quant’altro considerino possa dar “fastidio”. Ma questa resistenza fa il gioco dei datori di lavoro perché può ritardare i ritmi del lavoro stesso, e allora i controllori non fanno applicare le leggi.
    Una volta suggerii ai lavoratori che stavano rifacendo la facciata del palazzo dove abito di indossare i caschi che non portavano. Mi rivolsero un sorrisetto di sufficienza, ma poche ore dopo vidi che li avevano messi. C’era anche un ingegnere direttore dei lavori, che evidentemente se ne fregava.

  3. Fin quando non si creeranno dei veri ammortizzatori sociali, che non rendano una maledizione la perdita del lavoro, e quindi l’abbandono di condizioni di lavoro svantaggiose; fin quando non si abbandonerà la retorica di certa pseudo-sinistra e l’evergetismo ipocrita dei pescicani arricchiti; fin quando le parti politiche che dovrebbero difendere il lavoro come valore non cesseranno di esprimere tirannelli locali che fanno del lavoro una fonte di speculazione politica al fine di tessere reti clientelari, come è successo in una certa regione d’Italia da cui provengo e che non nominerò, perché è fin troppo ovvio quale sia; fin quando tutti questi abusi non cesseranno, le morti sul lavoro saranno una triste realtà quotidiana, derivante dalla neutralizzazione delle conquiste sindacali e dall’azzeramento del potere contrattuale dei lavoratori, quale si è attuato, a livello di politica e di imprenditoria, alla fine del XX secolo.

  4. Io conoscono mio malgrado la condizione delle imprese (in settori specifici) dove la legalità è vista, vissuta ed imposta alle menti, alle coscienze e alle vite di tutti come qualcosa che si può maneggiare e ammorbidire di volta in volta, per conformarla alla realtà. Conosco situazioni in cui il profitto è visto come bene per la collettività; l’imprenditore che lucra sugli altri, con carenze nella sicurezza, nella manutenzione etc, riesce a convincere motli dei propri dipendenti che i rischi maggiori li corre lui stesso e che se le cose andranno bene, anche i dipendenti avranno il loro utile. Conosco operai, braccianti etc. che per appoggiare il datore di lavoro, aderiscono alle sue “”iniziative”” mettendosi a rischio, per una benevolenza che a Natale ad esempio si trasforma in un oggetto, o in un “”pensiero”.
    Finchè il pensiero mafioso abiterà la mente di così tante persone, nessuna legge sulla sicurezza funzionerà e nessun controllo svelerà davvero la realtà quotidiana di milioni di lavoratori. Temo che questa strage delle morti sul lavoro sia lontana dall’essere superata.

  5. Già!

    Com’è noto, spesso è più arduo, nonché più deprimente, combattere contro i servi che contro i padroni.

    L’elemento drammatico, come lucidamente metteva in evidenza Letizia, è che oggi la gran parte dei lavoratori sono tornati ad essere servi.

    O forse molti di loro lo sono sempre stati.

    Il resto va da sè.

    S. P.

  6. Trovo perfetto il termine servo; le persone oggi sono tornate ad essere serve, alcuni inconsapevolmente, molti consapevolmente, convinti eprò che questo sia in qualche modo utile ad un loro personale tornaconto. Credo sia necessario risvegliare! le coscienze di tutti per bloccare l’infinita barbarie delle morti sul lavoro, partendo proprio da quesi servi inconsapevoli. Se davvero riuscissimo a rendere consapevoli e informati (veramente) le persone che oggi sono serve, forse le cose piano piano inizieranno ad essere viste sotto un’altra ottica e a prendere una nuova direzione. Mi chiedo cosa possa fare ognuno di noi?

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