di Linnio Accorroni
Quando i carpentieri in legno iniziano a costruire un ponte, quando i maghi esibiscono una cordicella sul palco, quando i bambini giocano a tiro alla fune e quando i funamboli clandestini installano un cavo, c’è sempre un momento in cui il filo penzola liberamente tra due punti, e sorride.
Philippe Petit, Trattato di funambolismo.
Emanuele Trevi è un funambolo delle lettere: sono sicuro che gli piacerebbe essere paragonato a Philippe Petit, l’artista che, irridendo ogni logora legge fisica, in un assolato mattino dell’estate 1974, riuscì a camminare, per otto volte di seguito, su di un filo d’acciaio che, teso a 417 metri d’altezza, collegava le due Torri; anche lui ama tendere fili ed escogitare trame che mettono in ustoria relazione ambienti e luoghi che parrebbero, per definizione, irrelati: la frequentazione delle alte stanze del saggismo raffinatamente antiaccademico e gli angiporti, desolati e squallidi, dell’autobiografismo più smaccato ed esibito, sulla scorta della lectio keatsiana secondo cui ogni vita è un’allegoria.