Intercalare 3
I giochi non sono mai del tutto fatti
I giochi non sono mai del tutto fatti.
Perfino durante il regime nazista, Bertold Brecht
si chiedeva come sarebbe stato possibile dire
la verità in Germania. Nel suo saggio del 1935,
Le cinque difficoltà di scrivere la verità,
egli diede una lista di ciò che è necessario per scrivere la verità:
1. Il coraggio di scriverla.
2. L’intelligenza di discernerla.
3. L’arte d’impiegarla come arma.
4. Il buon senso di scegliere quelli nelle mani dei quali essa sarà efficace.
5. L’astuzia di divulgarla a molta gente (1)



Di Marco Giovenale
In un saggio famoso, scritto quattro anni prima di metter mano alla Ricerca, Proust riflette sull’età d’oro delle sue letture, l’infanzia, e sulla passionale sudditanza da lui allora sperimentata nei confronti dell’autore del suo romanzo prediletto, Capitan Fracassa:
Da novembre dello scorso anno ho cominciato un corso di ballo latino americano; gli inizi sono stati faticosi e non poteva essere diversamente. La mia frequentazione di discoteche, benché assidua per anni, non aveva contribuito in alcun modo a sciogliere le mie rigidità.
Qualcuno, in una taverna, ha appena raccontato un fatto di cronaca nera: un ragazzo e una ragazza, appassionati di romanzi d’amore, sono stati uccisi dal marito geloso. Il commensale è ancora stordito da ciò che ha ascoltato. Ma è tardi, deve alzarsi da tavola, riprendere il viaggio, andare a negoziare con gli alleati diffidenti, in quella città livida che si intravede all’orizzonte, cavalcando sotto l’acquazzone. Piove forte.


Filippo La Porta denuncia sul Foglio il dispotismo dell’ironia. In un elogio di Chaim Potok, sul Domenicale, Giuseppe Sanfilippo mette subito in chiaro che lo scrittore era ebreo ma non ironico: “No, lui non conosce l’ironia, non ha tempo da perdere con il gioco di Isaac B. Singer o di Woody Allen o di tutti i Roth possibili, Philip o Henry che siano”. E in una replica a Lello Voce sulla poesia di Mario Benedetti, Giuseppe Genna decide di fare i conti con questo retaggio dell’Avanguardia, mandando definitivamente a sbarcare il suo lunario nei bidoni della spazzatura questo gesto di fascismo retorico:

Dopo una lunga serie di tentativi non andati purtroppo a buon fine per ragioni che sarebbe troppo complicato spiegare qui, (vi rimandiamo per questo al libro di Elisabetta Virgili I sottorranei di Saxa Rubra, edito dalla Anonima Editori) tre anni fa siamo riusciti finalmente a intervistare il noto critico cinematografico Enrico Ghezzi nel corso della registrazione di una puntata di Fuori Orario. Crediamo sinceramente, con questa intervista atipica e inedita che abbiamo il piacere di pubblicare qui su Nazione Indiana grazie alla disponibilità dei redattori, di aver perlomeno tentato di dipanare alcune matasse, anzi bobine, di significato. Da sinceri appassionati di cinema, ci è parso doveroso tentare di fare chiarezza, per quanto ci è stato possibile…
Oggi la migliore televisione possibile è quella che impudica mostra il suo artificio istauratore. Quella che al momento giusto sa smascherare i suoi marchingegni, le sue astuzie e gli imbrogli da truffaldina e mistificatrice di prim’ordine qual è. La migliore perché con calcolato machiavellismo sa anteporre tra sé e lo spettatore il raggiro del vero-non-vero, sommo fraintendimento di questi ultimi vent’anni di televisione. Introflessa com’è su se stessa, in nome della supremazia assoluta non teme di tradirsi e di portarsi dietro l’onta dell’infamia. La non lontana querelle Bonolis-Ricci documenta irrevocabilmente questa tendenza, senza che la stessa nemmeno si preoccupi di fare pubblica ammenda, così presa dal suo personalissimo e interno risarcimento danni.