di Andrea Falegnami
{Sangue dal naso, cavatappi, catastrofi, adolescenza. Gente prima non c’è e un attimo dopo c’è, gente che manca da un momento all’altro, gentaccia che mena le mani, persone che ti danno una lezione, lezioni che vengono impartite da nessuno…}
Dopo tutto è pur sempre una storia…
[Da dove comincio? Be’ vediamo alcune tipologie d’incipit:
a. Immissione in media res; vi spiattello là per là una frase, tipo: “A Marco cominciò a sanguinare il naso solo al terzo pugno ricevuto” che voi sicuro già vi figurate Marco che fissa lo Zenith, coi tamponi emostatici nelle froge, a loro volta premute dalle sue mani incapaci di difenderlo ed io comodamente vi ho portato dentro la storia, sta a me poi farvici rimanere;
b. Presentazione immediata d’un personaggio: “Marco ha quindici anni e gli occhi neri e almeno fino ad oggi, non ha mai avuto bisogno di menare le mani in vita sua”;
tuttavia la mia preferita resta sempre la:
c. Presentazione d’una situazione banale e tranquilla, il che lascia supporre che di lì a poco si verificherà l’evento perturbatore, la Catastrofe.
Una catastrofe, nel senso più ampio che René Thom [[il fondatore della teoria delle catastrofi]] attribuisce a questo termine, è una transizione discontinua qualsiasi che si verifica quando un sistema dispone di più di uno stato stabile, o può seguire più di un cammino stabile di trasformazione. Chiaro, no?

Il presentatore arrivò che stavano ancora montando il palcoscenico. Nella piazza deserta, il vento aveva rovesciato un cassonetto della spazzatura. I rifiuti più pesanti rotolavano. Il presentatore veniva a piedi dalla stazione con il trolley, offeso per non aver trovato nessuno dell’organizzazione ad aspettarlo. Eppure aveva comunicato l’ora esatta del suo arrivo. Avrebbe rinfacciato questa grave mancanza, di sicuro.
Sono allergico a Carver. Non tanto ai suoi libri (o ai libri del “prodotto Carver”, visto l´apporto consistente del suo editor), ma dei suoi figli illegittimi. Dello svarione che hanno preso tanti “giovani scrittori”. Carver è un prodotto semplice, non tanto nell’imitazione pedissequa, ma nelle sue infinite declinazioni, delle sue varianti parziali, delle parodie involontarie.
Io sono quello che ha il negozio di liquori in rue du Bac. Il mio non è certo un negozio dozzinale, che venda a un pubblico qualsiasi liquori di dubbia qualità. No. Il mio è un esercizio di classe. Lo si vede subito, entrando: la qualità dei legni che lo arredano, le scansie stagionate, lucidate, incerate con cura. Le tendine, a fare da quinte per la rappresentazione della vetrina allestita. Ho un mobilio sobrio e ben disposto, anch’esso di legno, scuro, con venature calde, bronzee.






E I KUREISHI, I RUSHDIE? Dunque non bastano le intenzioni, la consapevolezza, non basta avere storie vulcaniche da raccontare, non basta una buona tecnica. Arrivati a questo punto, passati più di dieci anni dagli esordi, e con le basi, gli spazi, le possibilità editoriali e gli errori già commessi ben evidenti agli occhi di tutti, è lecito aspettarsi qualcosa di più. È lecito, insomma, ora, cominciare quel processo di rimozione del nome e della quarta di copertina dai libri dei migranti, alla ricerca del libro davvero grande e capace di farsi ricordare in sé e per sè. Libro davvero grande e memorabile che ancora non c’è stato, è vero, ma che è facile indovinare dove andare a cercare per il prossimo futuro: occorre, infatti, andarlo a cercare dove c’è il talento. Presso gli scrittori veri e puri. E allora ecco una rassegna dei nomi cui ci si può rivolgere.
POI LA SECONDA ONDATA… È stato il 1999 l’anno in cui sono usciti per Portofranco la raccolta di racconti Il Sole d’Inverno di Muin Masri e il romanzo Verso la Notte Bakonga di Jadelin Mabiala Gangbo, nonché, per Bompiani, il romanzo La Straniera di Younis Tawfik. Ed è stato li che è cambiato qualcosa. Masri è palestinese, Gangbo congolese, Tawfik iracheno, e tutti e tre, con storie diverse alle spalle, contano su una lunga permanza in Italia e un perfetto padroneggiare della nostra lingua. I loro libri sono stati scritti senza pesanti mediazioni editoriali: a questi autori, le loro case editrici hanno provato a far fare gli scrittori-e-basta.
AREE PROTETTE E RISERVE INDIANE…Un valore aggiunto di questi primi libri stava nel senso di possibilità che hanno offerto. Nell’idea che una narrativa scritta da chi viene da lontano potesse trovar spazio anche in Italia. L’effetto delle aperture di credito, nella scrittura, è quello di creare movimentazione di idee, di chiamare altri allo scrivere, di suggerire a chi già scrive di provare a spingersi più in la. In questa direzione hanno dato una mano anche altri libri, stampati in modo più appartato da un fitto sottobosco di case editrici piccole e piccolissime, nonché le pagine di riviste letterarie di carta o elettroniche.
Viene difficile anche solo definirli, tanto le etichette sembrano tutte inadeguate se non, in qualche caso, persino sottilmente offensive: scrittori migranti, scrittori allofoni, stranieri che scrivono in italiano, scrittori (e qui, francamente, sale un brivido d’orrore) “extracomunitari”… E ulteriore incertezza c’è sui confini di questo recinto, poichè di sicuro vi rientra chi è nato altrove, si è spostato in Italia ed è riuscito a padroneggiare abbastanza la nostra lingua da saperci scrivere racconti e romanzi, ma anche, per una specie di contiguità culturale, chi è figlio dell’immigrazione e ha l’italiano come prima lingua. E ancora: con quale metro giudicare i libri di questi scrittori? Occorre considerarne il contenuto in connessione alla biografia dell’autore (e dunque tener conto, se del caso, del valore aggiunto che viene dalla testimonianza sociale), oppure cancellare nome cognome e quarta di copertina e leggere, per farsi un parere sul libro come tale?
Sono qui in Argentina da diversi giorni e non sono ancora riuscito ad andare al cesso. Il mio cagare sta diventando argomento di discussione quotidiana tra noi. Contiamo i giorni. Tre, quattro, cinque… E non ci sono segnali. Eppure mangio: bife al sangue, medialunas, quelle incredibili torte col dulce de leche… “Vedrete che succederà all’improvviso” dico agli amici.
Andiamo a mangiare il solito bife con Nic e Laura. Raccontiamo loro quello che è successo al Boca. Lei non dice niente. È un po’ stanca, va a casa a riposare. Passiamo il resto del pomeriggio e la serata io e Giovanni da soli. A un certo punto ci viene la smania di andare a vedere il tango. Rintracciamo un locale dove Laura ci aveva detto che fanno il tango per i turisti, con le ballerine scosciate. Quando arriviamo è tardi. Io sono vestito come uno straccione, Giovanni è in mutande.
Ascolto i racconti di Laura, di quando è venuta le altre volte in Argentina, dei peruviani e dei boliviani con le loro facce da indios, immobili per giorni sotto i ponteggi dei cantieri, in attesa che qualcuno cada o si faccia male per poter prendere il suo posto. L’amica che le ha confessato di aver mangiato per disperazione anche un topo. “Come hai fatto?” le ha chiesto Laura, intendendo come hai fatto a vincere lo schifo, ecc… L’amica invece, intendendola come una domanda tecnica, le ha risposto: “L’ho lavato con un pezzo di sapone prima di cucinarlo!”.