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Capodanno in piazza

di Diego de Silva
fireworks.jpgIl presentatore arrivò che stavano ancora montando il palcoscenico. Nella piazza deserta, il vento aveva rovesciato un cassonetto della spazzatura. I rifiuti più pesanti rotolavano. Il presentatore veniva a piedi dalla stazione con il trolley, offeso per non aver trovato nessuno dell’organizzazione ad aspettarlo. Eppure aveva comunicato l’ora esatta del suo arrivo. Avrebbe rinfacciato questa grave mancanza, di sicuro.
Uno solo si voltò, e trovandosi il vento in faccia contrasse le labbra in una smorfia che sembrò un sorriso. Il presentatore allora pensò che l’avesse riconosciuto, e si tirò su nelle spalle.
Andò fin sotto il palco, schiacciandosi i capelli radi con la mano. Parcheggiò il trolley accanto a sè e alzò la testa in direzione di due operai che in quel momento stavano inchiodando una moquette rossastra sulle assi di legno.
– Scusate – disse alzando un po’ la voce per farsi sentire, – c’è qualcuno dell’organizzazione?

Il lavorante si curvò di nuovo sulla moquette, sollevò il pollice destro e lo spinse due volte all’indietro, in direzione dell’Informagiovani, a pochi metri dal palco. Un po’ deluso, il presentatore ringraziò con un cenno della mano, riprese il trolley e si avviò.
La porta dell’ufficio, a vetri smerigliati, era socchiusa. Il presentatore abbassò la maniglia ed entrò. Era un ambiente di due vani diviso da un archetto di mattoni a vista, con due scrivanie, una più lunga dell’altra, uno schedario di metallo e un divanetto mangiucchiato. Le luci erano spente. Un computer ronzava. Un foglio intestato dava codate in una stampante come un furetto in una tagliola.
Il presentatore si guardò intorno. Provò a chiamare ad alta voce. Nessuna risposta. Guardò l’orologio, spalancò le narici, si gonfiò d’aria e sbuffò a lungo, fingendo con se stesso che qualcuno lo sentisse. Che fare, adesso? Neanche il nome dell’albergo gli avevano detto. Andò verso una delle scrivanie nella speranza di trovare un appunto che lo riguardasse, un numero di telefono, qualcosa. C’era una confusione di carte e un’agenda con una matita infilata nel mezzo. Prese l’agenda, l’aprì alla giornata in corso, 31 dicembre. Niente. Neanche un appunto.
Andò a sedersi sul divanetto. Tirò fuori il cellulare dal taschino della giacca e fece un numero. Lo stesso, per la quinta volta nella giornata. Si portò il telefonino all’orecchio e aspettò. Gli squilli rimbombavano nel locale vuoto. Il presentatore aspettò che la linea cadesse, poi rimase a guardare il pavimento.
Chissà quanto tempo passò. Fu solo quando si sentì chiamare per nome che si accorse di essersi addormentato. Alzò la testa. Si trovò davanti un ragazzo, una ventina d’anni al massimo, con una giacca a vento e un casco da motociclista in mano.
Si presentò. Era quello dell’organizzazione con cui aveva parlato al telefono, quello che aveva tanto insistito per averlo, convinto che fosse lui l’uomo giusto per conferire ai festeggiamenti il tocco professionale che era sempre mancato a un evento popolare come il capodanno in piazza. Gli disse che si scusava di non essere andato a prenderlo in stazione, che purtroppo all’ultimo momento era capitato un inconveniente e si sa come succede quando il Comune organizza i grossi eventi. Gli disse che aveva rivisto sui canali satellitari quel bellissimo programma che aveva condotto tanti anni prima e che secondo lui, non c’era dubbio, il presentatore era stato un innovatore nel suo campo, per aver spinto fortemente un tasto (disse proprio così) mai usato prima, quello della confidenza e dell’allusione, che faceva sentire di casa i concorrenti e sdrammatizzava la loro condizione.
Il presentatore si commosse. Era bello che, dopo tutti quegli anni, un ragazzo così giovane volesse riconoscergli quei meriti dei quali, a parte pochissime eccezioni, quasi nessun critico televisivo s’era mai accorto. Poi gli disse che comunque era molto seccato con l’organizzazione, perché non gli sembrava quello il modo di ricevere un professionista. Il ragazzo gli diede ragione e gli assicurò che da quel momento in avanti non avrebbe dovuto più preoccuparsi di nulla, perché della sua accoglienza si sarebbe occupato lui personalmente, del resto era quello il suo incarico.
Beh, disse mentendo il presentatore, l’organizzazione dovrebbe ringraziarti, veramente. Se non fosse stato per te me ne sarei già andato.
Il ragazzo lo accompagnò in albergo e lo aspettò nella hall mentre si cambiava. Prima di uscire, il presentatore tirò fuori il cellulare e chiamò ancora una volta quel numero. Nessuno rispose.
Malgrado il vento non volesse saperne di calmarsi, tra le otto e mezza e le nove la piazza si riempì come un uovo. Il presentatore svolse impeccabilmente il suo incarico. A dividere gli onori di casa con lui c’era una ragazza bruna con un vestito cortissimo, che tra un ospite e l’altro gli confidava nell’orecchio che sofferenza fosse stare con le gambe nude in una serata fredda come quella.
Sul palco salirono un imitatore televisivo, un cabarettista locale molto amato del quale il presentatore non capì quasi nulla e infine un cantante famoso, vestito come un cretino, accompagnato da un gruppo di musicisti bardati fino agli occhi per il freddo. Cantò sei canzoni, e con molta difficoltà.
Il pubblico, però, passò la serata a ballare e a divertirsi. Il presentatore pensò con un certo rammarico che, in fondo, la gente si accontenta veramente di poco.
A mezzanotte salì sul palco anche il sindaco, per ringraziare tutti e augurare alla città un anno sereno in una comunità più solidale. Ringraziò in particolar modo il presentatore, che giudicò “magistrale nella conduzione della serata”. Nel dargli la mano ne sbagliò il cognome, ma di poco, e subito se ne scusò.
Il presentatore sorrise con eleganza. Sono cose che capitano. Poi stapparono un bottiglione di spumante.
Il presentatore salutò tutti, scese dal palco, andò nell’ufficio dell’Informagiovani dietro il palco. L’accompagnatore, fedele all’impegno assunto, non lo lasciò solo neanche per un attimo. Il presentatore compilò il foglio per il suo compenso, scrisse i suoi dati e le coordinate bancarie per il bonifico. Il ragazzo gli disse che c’era il ristorante pagato, se voleva. Magari più tardi, rispose il presentatore. Poi gli fece gli auguri e tornò in albergo. Fece le scale due alla volta. Chiuse la porta della stanza e senza neppure svestirsi tirò fuori il cellulare e fece quel numero un’altra volta.
Si mise a sedere sul letto. Si guardò riflesso nel grosso specchio di fronte mentre sentiva il suo respiro amplificato nel ricevitore del cellulare. Dall’altra parte il telefono squillò a lungo, ancora e ancora. Finché cadde la linea un’altra volta.
Il presentatore chiuse gli occhi, mandò giù un po’ di saliva e faticando perchè la voce non gli si spezzasse in gola, parlò come avesse potuto registrare un messaggio.
– Sono papà. È tutto il giorno che ti chiamo. Stasera ho lavorato di nuovo, lo sai, mi hanno chiamato. È andata benissimo. Sono rimasti tutti contenti. Spero che anche tu ti stia divertendo. Buon anno.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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