Viaggio in Argentina #7
di Antonio Moresco
Sono qui in Argentina da diversi giorni e non sono ancora riuscito ad andare al cesso. Il mio cagare sta diventando argomento di discussione quotidiana tra noi. Contiamo i giorni. Tre, quattro, cinque… E non ci sono segnali. Eppure mangio: bife al sangue, medialunas, quelle incredibili torte col dulce de leche… “Vedrete che succederà all’improvviso” dico agli amici.
“Quando meno me lo aspetto, nel momento meno opportuno. È sempre così, io passo di colpo da un estremo all’altro. All’improvviso tutto si sblocca, a quel punto non posso aspettare neppure un secondo, di fronte a quella catastrofe fecale accumulata per giorni e giorni non esiste possibile trattativa con gli sfinteri, programmazione, controllo… Da ragazzo una volta sono arrivato a quattordici giorni, non c’era niente che riuscisse a sturarmi. Mi ricordo ancora l’orrore di quella strana estate. Io camminavo sempre da solo come in un’ovattata assenza, in un posto di mare, avevo sempre come delle vertigini. Mia madre era scivolata su un manico di scopa caduto sul pavimento e si era rotta un osso, girava per casa con il braccio ingessato… Di lei si favoleggia che da ragazza sia arrivata addirittura a un mese. Quando scoccava finalmente il momento faceva bloccare all’improvviso la macchina, se eravamo per strada, saltava giù, entrava di corsa nella prima casa che incontrava, saliva a cento all’ora le scale, faceva irruzione in un appartamento sconosciuto, oppure si liberava direttamente sul pianerottolo, sullo zerbino, se non faceva neanche in tempo a suonare o se non c’era nessuno o non erano abbastanza svelti ad aprire. Lo raccontava con orgoglio, diventava rossa, si entusiasmava…
Discussione su Dino Campana. Laura sospetta che qui in Argentina non ci sia neanche venuto e che si sia inventato tutto. Pare che qui anche altri la pensino allo stesso modo. L’arrivo in nave a Montevideo, a Buenos Aires, le notti nella pampa, il lavoro alla costruzione della linea ferroviaria per una compagnia inglese, nella zona di Mendoza, vicino alle Ande, ecc… Tutte balle! Io e Giovanni non siamo convinti. Ci sarà stato magari per poco, ma sarà stato sufficiente al suo sguardo. Per uno come lui era sufficiente uno sguardo! Anzi, a volte il primo sguardo è quello più penetrante e più decisivo, mentalmente ed emozionalmente profondo. Dopo, tutto si stempera, viene diluito in mille reti di relazioni, interpretazioni culturali, sociali, la cosiddetta conoscenza…
Tornati nel nostro hotelito, io e Giovanni andiamo a rileggerci alcune sue poesie, su un libricino che Giovanni ha portato con sé in questo viaggio. Le notti nella pampa piena di stelle: “Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa che mi correva incontro per prendermi nel suo mistero: che la corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente irresistibile”. Il viaggio a Montevideo: “Io vidi dal ponte della nave / I colli di Spagna / Svanire, nel verde / Dentro il crepuscolo / (…) / Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna / Dagli occhi torbidi e angelici / Dai seni gravidi di vertigine. Quando / In una baia profonda di un’isola equatoriale / In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno / Noi vedemmo sorgere nella luna incantata / Una bianca città addormentata / Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti / Nel soffio torbido dell’equatore… / (…) / E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve / Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume, / Del continente nuovo la capitale marina”. Buenos Aires: “Il bastimento avanza lentamente / Nel grigio del mattino tra la nebbia / Sull’acqua gialla d’un mare fluviale / Appare la città grigia e velata. / Entra in un porto strano. Gli emigranti / Impazzano e inferocian accalcandosi / Nell’aspra ebbrezza d’imminente lotta. / Da un gruppo d’italiani ché vestito / In un modo ridicolo alla moda / Bonearense si gettano arance / ai paesani stralunati e urlanti. / Un ragazzo da porto leggerissimo / Prole di libertà, pronto allo slancio / Li guarda colle mani nella fascia / Variopinta ed accenna ad un saluto / Ma ringhiano feroci gli italiani”. Ecco, per esempio questa immagine viva e spiazzante degli italiani, in un porto “strano”. Non avrebbe detto così, se si fosse inventato tutto! D’accordo, con l’acqua gialla era facile, quello glielo può aver raccontato qualche emigrante, che qui l’acqua è di quel colore, ma perché dire “in un porto strano” e nient’altro, che tra l’altro non è neanche un bel verso, è buttato lì, se non fosse stato a sua volta spiazzato da quello che stava vedendo, nello sfasamento dell’arrivo in un posto mai visto, in quello stato di intontimento e di assenza e di non adesione alle cose perché siamo dentro un’altra cosa da cui non ci si è ancora (mai) separati? Non è riuscito a dire altro, a focalizzare altro, perché lì non si era ancora scatenata l’onda di ritorno che riesce di nuovo ad allagare quella zona di sconnessione da se stessi nello spazio e nel tempo. Se si fosse inventato tutto, se qui non ci fosse davvero mai stato, ce l’avrebbe anzi messa tutta per dare un’idea precisa del porto, come quelli che raccontando balle non fanno che aggiungere particolari, utilizzando cose sentite dire, racconti altrui… Invece c’è solo questo verso monco, questo brutto aggettivo, questa immagine non bene a fuoco, la allucinata confusione degli immigrati italiani nel porto, l’espressione di questo disagio che inceppa persino una macchina poetica così gonfia e piena e lanciata. Anche la poesia ha una sua verità. Anche la più delirante delle poesie ha una sua verità. Anzi, soprattutto quella…
C’è una ragazza che va continuamente a stendere il bucato nel terrazzino che c’è dall’altra parte. Passa e ripassa sul ballatoio lungo la ringhiera, davanti alla mia porta semiaperta per il caldo, mentre sto buttato sul letto nei brevi intervalli di siesta che si riesce a strappare in queste giornate intense, sotto il vecchio ventilatore fatto girare pianissimo perché la lampadina storta che c’è sotto trema tutta e sembra sempre sul punto di staccarsi, e nevicano giù nella stanza pezzi di polvere secca che si sono accumulati nel tempo sulle sue pale. È di carnagione molto bianca, tedesca, forse, oppure nordamericana, oppure una di quelle argentine di origine svizzera, irlandese, tedesca… Sento il rumore delle piante dei suoi piedi nudi sul ballatoio, la intravedo mentre passa di nuovo di fronte alla mia porta col secchio pieno di biancheria lavata, con addosso qualcosa di molto leggero per il caldo, e poi mentre stende con le mollette la biancheria sul ballatoio dall’altra parte del patio, le file dei reggipetti bianchi, delle mutande.
Le grandi arterie dove il traffico corre impazzito, i contatori della luce posti all’esterno delle case, per evitare ai controllori di dover entrare, tutti coi vetri sfondati, posteggiatrici abusive che indossano una vera e propria divisa che testimonia che sono autentiche posteggiatrici abusive, mendicanti con le gambe fasciate da garze bianche, con due cassette per l’elemosina appese una su ciascuna delle stampelle, gente che declama poesie ad alta voce, gridando, per chiedere l’elemosina, le bottiglie sudicie della soda…
“Allora, cosa pensi dell’Argentina?” mi chiede di nuovo Laura.
“Mah, non lo so ancora. Io sono un po’ tonto, ho un cervello che non funziona bene, sono sempre un po’ attonito, assente. Magari penserò qualcosa quando sarò lontano da qui…”
Siamo andati a cercare uno dei luoghi di tortura qui a Buenos Aires, Giovanni e io. Un murale con un elenco di nomi, delle scritte, qualche incrocio prima. Ma facciamo fatica a trovare il posto. “Dovrebbe essere qui!” ci diciamo, ma non si vede niente. Ci infiliamo sotto il ponte di una strada sopraelevata. Ci sono dei poliziotti con giubbotto antiproiettile che stanno facendo un blocco stradale, con un paio di macchine disposte a resca di pesce e pronte all’inseguimento. Qui, proprio qui. A uno dei due lati vediamo che ci sono delle macerie, sotto la nervatura del ponte su cui corre la strada, nella zona in ombra. Attraversiamo. C’è stata una demolizione recente, leggiamo su un cartello appeso lì a fianco, e quello che è stato demolito era esattamente il centro di tortura allestito nel Club Atletico. Su uno dei piloni una pittura murale in cui si indovinano dei corpi scorticati in mezzo alle fiamme. Si vedono solo, sul terreno polveroso del piccolo cantiere incassato sotto la sopraelevata, dei buchi, quanto resta dei passaggi e delle scale che portavano sotto terra, dove c’erano le camere di tortura, dove applicavano corrente elettrica ai testicoli, semiannegavano, riempivano i corpi d’acqua fino a farli scoppiare, infilavano topi vivi nelle vagine, tiravano fuori con una macchina gli intestini, attraverso il buco del culo, questi difensori dell’Ordine, della Cristianità, nel vergognoso silenzio generale. E poi le leggi fatte apposta per salvare i protagonisti di questa incredibile esplosione di sadismo avvenuta sotto gli occhi di tutti, perché c’era un sacco di gente che sapeva e ha taciuto, non ha alzato la voce, non ha parlato, non ha salvato. Non c’è stata nessuna Norimberga per loro. Al suo posto, la legge sulla “giusta obbedienza” varata dal governo Alfonsin… Chissà quanta gente ha partecipato, ha saputo, è stata in silenzio, ha tradito, mi dico ancora, di fronte al solito bife sanguinolento. Chissà quante, tra le persone tra i cinquanta e i sessant’anni che stanno mangiando in questo momento qui dentro hanno partecipato, subìto, saputo… E adesso sono qui, fianco a fianco, a testa bassa, magari si conoscono di persona, masticano in silenzio il loro bife pieno di sangue, staccano con il coltello gli ultimi pezzi nel fondo del piatto tutto allagato di sangue, in questa calda giornata di questa torrida estate… Vado a pisciare nel cesso del locale. Il water è tutto sporco di merda, perché qui non ci sono scopini nei gabinetti. “Ma guarda che stronzi!” mi dico. “Non tirano neanche l’acqua!”. La tiro, dopo avere pisciato, per non lasciare il cesso così schifoso. Lo scarico è intasato, tutta l’acqua sale verso di me come un’onda fino all’imboccatura del water, con i suoi pezzi di carta e di merda galleggianti.
“I mari sono tanto profondi che una balena oggi colpita, forse l’indomani muore, neppure a metà strada dalla fine agognata del suo percorso, il fondo. Per sondare gli abissi gli uomini danno tanta fune da far pensare che all’altro capo, riavvolgendola, possa emergere un essere degli Antipodi”. John Donne
Parliamo un po’ di fotografia, io e Giovanni, andando a piedi verso il Rio della Plata, dove c’è gente in costume da bagno lungo una balaustra di marmo e ragazzini con i piedi nell’acqua fangosa da cui affiorano ciuffi di vegetazione. C’è una serie di fotografie di Mulas, mi dice Giovanni, un autore che per lui è molto importante. Sono trentasei scatti del cielo. “Si capisce almeno che è passato del tempo?” gli chiedo. “No” mi dice, “non c’è nessun riferimento, il cielo è perfettamente sgombro, nessuna nuvola”.
Domattina Giovanni e io partiamo per Santa Fe.
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Pubblicato in “Fernandel” n. 2, luglio-settembre 2003. La foto è di A. Moresco.
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Dall’enorme numero di commenti alla scrittura di Moresco si dovrebbe dedurre un disinteresse?
Mi auguro di no! Li ho letti con piacere.
In realtà mi sento come preso da un incantamento.
C’è un momento per parlare ed un altro per ascoltare. Io ora sono tutto orecchie. E occhi, e mente.
Sto viaggiando in Argentina insieme a Moresco, aspetto la fine della proiezione delle diapositive per fare un commento. Che magari sarà solo: “minchia!”
un abbraccio, Gianni
una notevole riflessione, uno sguardo che diventa squarcio su un mondo lontano. bello questo scritto di moresco, vivo, vitale. anche quando parla di cose tremende ci senti il vero che zampilla come sangue. ha ragione gianni biondillo, è come viaggiare in argentina insieme allo scrittore. complimenti a antonio moresco.
un caro saluto agli amici di nazione indiana.
Tiziano! Sono un tuo avido lettore, Mio Grande Scrittore Preferito, peccato per te che io non sia una bionda mozzafiato, ma adoro i tuoi libri. Scusa se ti scrivo qui, ma non so che altro fare, adesso vado dall’Autore, ne faccio una questione di principio, dopo aver spedito una copia difettosa di “Occhi sulla Graticola” (mancava una pagina, anche se io le avevo pagate tutte) alla Einaudi, su gentile consiglio di un funzionario dei reclami, tale Fulvio Giuliani, questo mi ha risposto che non essendoci più copie in magazzino è dispiaciuto di non poter soddisfare le mie richieste di sostituzione, e, ovviamente, la copia che ho spedito chissà che fine ha fatto (libro bellissimo, tra l’altro, mi dispiacerebbe se il Giuliani lo avesse utilizzato per il fuoco del caminetto). Feltrinelli non ce l’ha più, Ricordi neppure, il Libraccio nemmeno a parlarne, mica posso girare tutte le librerie di Brescia, no? Cosa posso fare? Come mai hai cambiato casa editrice (questa non c’entra niente, è una mia curiosità)? Grazie se mi vorrai rispondere (un personaggio di Tullio Avoledo colleziona autografi di scrittori, a me basterebbe una tua risposta via e-mail massimosalvoni@hotmail.com, mi scuso con gli altri per l’intromissione, complimenti per il sito, lo clicco tutte le mattine dopo La Repubblica).
Massimo Salvoni