di Sergio Baratto

“Il tenente l’ascoltava ammirato, Pietro era in estasi.
– Ah, perché non sei italiana! – disse con rammarico.
– Il mio cuore è italiano! – rispose la fanciulla con fervore.”
Carolina Invernizio, La piccola araba
Giovedì, i primi morti italiani in Iraq.
Dall’11 settembre 2001 ho imparato che di fronte a certi eventi è meglio costringersi a qualche ora o qualche giorno di silenzio. Che a far prendere subito aria alla lingua, si rischia di dar fiato al peggior alito. Com’era purtroppo prevedibile, i mezzi d’informazione e le autorità hanno invece prontamente spalancato la bocca. Ne è sgorgata una massa di vecchi liquami assortiti: l’amor di patria e il sacrificio per essa, la strategia calcio-spaghetti, i vili traditori, i Salvi D’Acquisto. Persino Ground Zero, il nuovo, superbo modello di ogni tragedia che si rispetti (che sia rispettabile).
L’esperienza di calarsi in questa merda, nonostante il fetore, è istruttiva.
1.
Sfoglio il Corriere. L’effetto che ha sui miei nervi è dirompente. Mi fa diventare acido, cattivo, antipatriottico. Leggo l’editoriale, la seconda pagina, la terza… Comincio irrefrenabilmente a pensare che l’Italia non esista per davvero. Che sia soltanto una summa di stereotipi da manuale di stesura per fiction televisive o film da oscar.


Si fa presto a dire che non è come per le Torri Gemelle, che questo attentato ha avuto luogo sul territorio iracheno, mentre quell’altro nel cuore di una New York pacifica ed operosa, che i morti sono stati venti e non più di duemila, che erano soldati e non civili. Queste considerazioni vengono meno tuttavia, quando si constata l’apparenza che le immagini televisive ci rimandano: un buco c’è stato, un cratere piuttosto vasto intorno al quale le costruzioni sventrate non consentivano allo sguardo di divagare verso nessuna direzione immaginaria. La domanda più propria diventa pertanto: cosa fa l’Italia quando entra in contatto col Reale, quando cade il suo velo immaginario?




Il padre stava accanto alla madre, nella stanza in penombra. Non c’erano finestre. C’era solo una porta di vetro, ma era oscurata da una tenda, o da un pannello di cartone, così su tutto calava un colore verde, scuro ma trasparente. Anche sul padre e sulla madre.
Volevo aspettare che trascorressero i giorni del lutto nazionale per pubblicare questo articolo di Marco Senaldi, scritto in tutt’altra situazione, e per una destinazione completamente diversa: una rivista che si occupa di confezioni, packaging, consumi, merci.
Bisogna andare lontano dall’Italia per vedere l’Italia. O anche solo essere un po’ dislocati all’interno del suo territorio, su una delle sue isole, per esempio. Qualche anno fa, a Favignana, nel tardo pomeriggio raggiungevo con una vecchia bicicletta noleggiata una scogliera dietro il piccolo cimitero dell’isola. Mi sedevo là sopra e ci restavo fino a perdere la nozione del tempo, guardando la lontana costa della Sicilia. Qualcuno mi aveva detto – o forse me lo ero soltanto immaginato – che quella che si vedeva da quel punto era la parte di costa siciliana su cui, un secolo e mezzo prima, erano sbarcati i mille di Garibaldi, che proprio lì c’era stato il primo impatto con l’esercito dei Borboni. A Marsala, poi a Calatafimi. Una battaglia difficile, dall’esito a lungo incerto, perché i soldati erano in alto e sparavano da lassù sui garibaldini che dovevano guadagnarsi palmo a palmo la salita tra i corpi di quelli che cadevano sotto i colpi. Eppure continuavano a salire. Non si fermavano, non si arrendevano, anzi contrattaccavano alla baionetta, anche se la sproporzione militare era enorme e l’impresa poteva apparire disperata. Finché sono riusciti ad arrivare in cima e, per il solo fatto di aver saputo reggere quel primo scontro e di essere arrivati in cima, sono poi riusciti a liberare o a conquistare metà dell’Italia.
Si terrà lunedì 17 novembre alle ore 21.30, a Padova presso il Cinema Excelsior (vicolo Santa Margherita, laterale di via San Francesco), e non più alle 21 presso l’MPX-Multisala Pio X, il secondo incontro del ciclo Letteratura come verità, dedicato al tema: Esperienza. La sala disponibile all’MPX ha 100 posti, il Cinema Excelsior ne ha più del doppio. In questo modo ci sarà posto per tutti e nessuno sarà lasciato fuori della porta (com’è successo l’altra volta). L’inizio è stato fissato alle 21.30 per dare a chi si presenterà all’MPX il tempo di raggiungere il Cinema Excelsior (sono dieci minuti, forse un quarto d’ora a piedi).
La “malinconia dei molti” di cui vorrei parlare è, innanzitutto, malinconia nell’accezione più debole, ma anche più diffusa del termine come può testimoniare un qualsiasi dizionario di lingua italiana. Tale “vaga e intima mestizia” figura infatti come voce chiaramente distinta dallo “stato patologico di tristezza, pessimismo, sfiducia o avvilimento, senza una causa apparente adeguata, che rappresenta una della fasi della psicosi maniacale” (1). Non tratterò dunque della malinconia che ha come sinonimo moderno la depressione: né di quella detta reattiva – dove a una causa si potrebbe anche risalire – né tantomeno di quella endogena che lascio volentieri a chi se ne occupa di mestiere.
